Lo scorso
7 aprile, come avevamo annunciato (v. qui), si è
svolto a Roma un convegno in ricordo del compianto card. Caffarra, dal titolo “Chiesa
Cattolica, dove vai?”.
Conclusione
Nel corso
dell’incontro, al quale hanno partecipato – si stima – non meno di quattrocento
persone, ivi compreso anche un vescovo, Mons. Viganò, sono state svolte una
serie di relazioni da parte di esponenti del mondo ecclesiale, scientifico e
persino laico.
Poco prima
del termine del convegno, è stata data lettura di una Declaratio sui
principi irrinunciabili in materia di matrimonio, di principi morali assoluti e
di accesso di divorziati risposati alla Comunione.
Delle
varie relazioni ed interventi del convegno, che comunque qui indicheremo,
riproduciamo però solo quello – più ampio ed articolato – del card. Raymond L.
Burke, che, come è stato osservato, affronta l’ipotesi – un tempo ritenuta di
scuola – del c.d. “papa eretico” (cfr. E. Barbieri, Il cardinale Burke
affronta l’ipotesi del Papa eretico, in Corrispondenza
romana, 7.4.2018; D. Montagna, Cardinal Burke’s talk on the limits of papal power, in Lifesitenews, Apr. 13, 2018; J.-H. Western, Cardinal Burke discusses possibility of excommunication by Pope Francis, ivi, Apr. 17, 2018):
- Card.
Walter Brandmüller, “On consulting the Faithful in Matters of Doctrine”
di Newman, in Chiesa
e postconcilio, 7.4.2018; in MiL,
9.4.2018;
- Mons.
Athanasius Schneider, La Sede Apostolica di Roma come cathedra
veritatis, in Chiesa
e postconcilio, 10.4.2018;
- Marcello
Pera, Intervento, ivi,
9.4.2018;
- Renzo
Puccetti, Da Caffarra a Paglia: la rivoluzione nella bioetica,
in LNBQ,
8.4.2018, nonché in Chiesa e postconcilio, 11.4.2018;
- Card. J.
Zen, Saluto, in Libertà
e persona, 8.4.2018, nonché in Chiesa e postconcilio, 11.4.2018;
- Declaratio,
Noi testimoniamo, ivi,
8.4.2018, nonché in Chiesa
e postconcilio, 7.4.2018; in Libertà
e persona, 8.4.2018, ed in MiL,
7.4.2018.
Per gli
audio dell’evento, con le relazioni più rilevanti, rinviamo ad Attese e speranze, in Chiesa
e postconcilio, 7.4.2018. Per la cronaca dell’evento, v. Cronaca in diretta – I
parte, in MiL,
7.4.2018; II parte, ivi; III
parte, ivi; IV
parte, ivi; V
parte, ivi; VI
parte, ivi; VII
parte, ivi; VIII
parte, ivi; IX
parte, ivi; X parte, ivi; Foto ed audio Convegno: “Chiesa
Cattolica dove vai?”, in Cooperatores
Veritatis, 7.4.2018.
Su questo
convegno, con varietà di posizioni, si sono espresse varie testate, sebbene
quelle italiane vi abbiano dedicato scarsa o nulla attenzione, e comunque
commenti critici e, sovente, dai toni aspri. Cfr. L. Badilla, Declaratio conclusiva
del convegno “Chiesa dove vai?”, in Il
sismografo, 7.4.2018, il quale sottolinea, con una nota di redazione di
accompagnamento alla Declaratio, come in questo documento anonimo
evidenzi un cambiamento rispetto ai precedenti riguardo ad Amoris
laetitia, prima definito documento con contenuti eretici, ora, invece, che
avrebbe avuto mere «interpretazioni contraddittorie»! V. anche J.
Scaramuzzi, Dopo i dubia, una declaratio critica
sui divorziati risposati, in Vatican
insider, 7.4.2018. Su quest'articolo, v. però Le
fake news di Vatican Insider, in Libertà
e persona, 9.4.2018. Critiche sono state mosse da A. Grillo, Il
magistero è un fiume, non una pietra: dai fragili “dubia” alla triste “confessio
romana”, in Munera,
8.4.2018; F. Boezi, La ribellione dei cardinali. Ecco il rilancio
dei “dubia”, in Il
Giornale, 7.4.2018; L. Moia – M. Muolo, Amoris laetitia. «Una
dichiarazione inutile, nessuno cambia le verità di fede», in Avvenire,
7.4.2018. Su quest’articolo di Avvenire, cfr. G. Rusconi, “Chiesa
Cattolica dove vai?”: ma come informa bene ‘Avvenire’!, in Rossoporpora,
8.4.2018. Tra i critici, v. anche O. La Rocca, Papa Francesco: chi sono i cardinali che lo accusano di sette eresie, in Panorama, 12.4.2018.
Altre
invece, soprattutto di lingua anglosassone-americana, hanno ravvisato
nella Declaratio una sorta di risposta dei laici, della Chiesa
discente (senza potere di docenza), ai famosi Dubia, che furono
formulati dai Quattro porporati ed a cui il card. Brandmüller si era
auto-risposto nel gennaio scorso (M. Tosatti, Dubia, se il Papa tace il
cardinale si risponde da solo, in LNBQ, 5.1.2018; F. Boezi, Il
cardinale non molla e rilancia i “dubia” su Bergoglio, in Il
Giornale, 5.1.2018).
Cfr. S. Hall, Does Questioning Amoris
Laetitia Make You a Protestant?, in Onepeterfive, Apr. 6, 2018; M. Hickson, Final Declaration of Rome
Conference Restates Catholic Doctrine and Answers the Dubia, ivi, Apr. 7th, 2018; Id., Cardinals Burke and Brandmüller on
Schism, Papal Authority, and the Sensus Fidei, ivi; “Church, Where Are You Going?”: A Report
from the Conference of Faithful Resistance in Rome, ivi, Apr. 9th, 2018; E. Pentin, Cardinal Brandmüller, Bishop
Schneider Tackle Crisis of Confusion in the Church, in Nat. Cath. Register, Apr. 7th 2018; Id., Cardinal Burke: Papal Authority Derives
From Obedience to Christ, ivi; Conference on Confusion in the Church: Final
Declaration, ivi; D. Nussman, Conference in Rome tackles the
confusion in the Church, in Church Militant, Apr. 9th 2018; Bradley Eli, M.Div., Ma.Th., Cdl Burke on
Papal Correction, ivi, Apr. 10, 2018; D. Montagna, Bishop Schneider: The Pope is
not the “owner” of truth but its “servant and vicar”, in Lifesitenews, Apr. 7th, 2018; Id., Cardinal Brandmüller warns Catholics
not to heed ‘majority’ but ‘minority who truly live the faith’, ivi; Id., Final declaration of Rome Conference on
Confusion in the Church, ivi; P. Pullella, Hong Kong cardinal seeks conservative help to
block a Vatican-China deal, in Reuters, Apr. 8th, 2018; J. Allen, ‘Amoris’ critics at Rome
summit beg pope, bishops, ‘Confirm us in the faith!’, in Crux, Apr. 7th, 2018; J. Allen – C. Giangravé, Can summit derail
‘just don’t look’ strategy on ‘Amoris’ critics?, ivi, Apr. 8th, 2018; C. Lamb, Cardinal Burke: There are times
when a Pope must be disobeyed, in The Tablet, Apr. 7th, 2018; J. J. McElwee, Cardinal critics of Francis
reaffirm no Communion for divorced, remarried, in Nat. Cath. Reporter, Apr. 7th, 2018; F. de Villasmundo, Amoris laetitia : après les dubia,
une déclaration publique critique des cardinaux Burke et Brandmüller,
in Medias-Presse.info, 9 avr. 2018; R. Zbinden, Cardinal Burke: “Dans certaines
circonstances, il faut désobéir au pape”, in Cath.ch,
8.4.2018; Cardinals back statement of doctrine on divorce and Communion, in Cath. Herald, Apr. 10, 2018; E. Barbieri, È stato inutile il convegno del 7 aprile?, in Corrispondenza romana, 11.4.2018.
Ci pare significativo, sebbene al di fuori di questo
convegno, ma in altro, l’intervento del prof. De Mattei: cfr. S. Koks, Cardinals
can declare that a heretical pope has ‘lost his office’: Church historian,
in Lifesitenews, Apr. 10th, 2018; CFN Exclusive Interview: Roberto de Mattei
on Today’s Rome Conference: “Catholic Church, Where Are You Going?”,
in CFN, Apr. 7th, 2018; R. de Mattei, Tu es Petrus: la vera devozione alla Cattedra di Pietro, in Corrispondenza romana, 11.4.2018, nonché in Chiesa e postconcilio, 14.4.2018 ed in Rorate caeli, Apr. 10, 2018.
Intanto si
registrano due fatti significativi di segno contrario. Il primo: un gruppo di
fedeli cattolici olandesi hanno chiesto ai loro Pastori affinché riaffermino la
dottrina di sempre della Chiesa in materia di matrimonio e relazioni
omosessuali, e appoggino apertamente i Dubia su Amoris
Laetitia: cfr. M. Tosatti, Confusione nella Chiesa, appello anche
dall’Olanda, in LNBQ,
11.4.2018; Cattolici olandesi in rivolta chiedono ai vescovi di
ammonire Francesco, in Gloria.TV,
9.4.2018; Olanda: petizione ai Vescovi, “sostenete i dubia”, in Corrispondenza romana, 14.4.2018.
Il
secondo, opposto: proprio l’indomani del convegno, dopo i vescovi siciliani (v. qui e qui),
quelli campani (v. qui)
e quelli emiliani (v. qui,
ma anche L. Bertocchi, I vescovi dell’Emilia Romagna sdoganano
l’adulterio, in LNBQ,
24.1.2018), anche quelli lombardi (v. qui,
ma anche A. Tornielli, Amoris laetitia, la lettera dei vescovi lombardi,
in Vatican
Insider, 8.4.2018) dettano le loro linee-guida sulla recezione di Amoris
laetitia. Peraltro è significativo che sia il documento emiliano sia quello
lombardo contengono espliciti riferimenti alla lettera del Vescovo di Roma ai
vescovi della regione ecclesiastica di Buenos Aires ed ai loro Criteri,
documenti elevati – come noto – al rango di “magistero autentico” (sul punto,
ne abbiamo trattato qui in
occasione della pubblicazione sugli Acta Apostolicae Sedis).
La
“plenitudo potestatis” del Romano Pontefice nel servizio dell’unità della Chiesa
Testo
dell’intervento del Card. Raymond Leo Burke : Roma, 7 aprile 2018, Convegno “Chiesa
cattolica, dove vai?”
La
“plenitudo potestatis” del Romano Pontefice
nel servizio dell’unità della Chiesa
di Raymond Leo Burke
nel servizio dell’unità della Chiesa
di Raymond Leo Burke
In memoria
del Cardinale Joachim Meisner
Prima di entrare nel cuore del mio argomento, in questo contesto di riconoscente ed affettuoso ricordo del compianto Card. Carlo Caffarra e di ardente desiderio di continuare il suo lavoro di amore disinteressato e totale per Cristo e il Suo Corpo Mistico, la Chiesa, vorrei dire alcune parole per onorare la memoria del Card. Joachim Meisner. Egli fu, dall’inizio della buona battaglia per difendere e promuovere le verità fondamentali sul matrimonio e sulla famiglia, completamente unito al Card. Caffarra, al Card. Walter Brandmüller ed a me. Egli, da vero pastore del gregge del Signore, riteneva suo primo dovere la presentazione instancabile dell’insegnamento di Cristo nella Chiesa. Ricordo due momenti, in particolare, in questa sua ultima battaglia per servire Cristo e la Chiesa.
Dopo la prolusione del Card. Walter Kasper durante il Concistoro Straordinario del febbraio del 2014, mentre uscivamo dall’aula sinodale, egli si avvicinò a me ed espresse tutta la sua preoccupazione per la falsa direzione nella quale la predetta prolusione avrebbe condotto la Chiesa se non ci fosse stata un’adeguata e repentina correzione. Inoltre aggiunse: “Tutto ciò finirà in uno scisma”. Da quel momento, egli ha fatto tutto il possibile per difendere la parola di Cristo sul matrimonio.
Prima di entrare nel cuore del mio argomento, in questo contesto di riconoscente ed affettuoso ricordo del compianto Card. Carlo Caffarra e di ardente desiderio di continuare il suo lavoro di amore disinteressato e totale per Cristo e il Suo Corpo Mistico, la Chiesa, vorrei dire alcune parole per onorare la memoria del Card. Joachim Meisner. Egli fu, dall’inizio della buona battaglia per difendere e promuovere le verità fondamentali sul matrimonio e sulla famiglia, completamente unito al Card. Caffarra, al Card. Walter Brandmüller ed a me. Egli, da vero pastore del gregge del Signore, riteneva suo primo dovere la presentazione instancabile dell’insegnamento di Cristo nella Chiesa. Ricordo due momenti, in particolare, in questa sua ultima battaglia per servire Cristo e la Chiesa.
Dopo la prolusione del Card. Walter Kasper durante il Concistoro Straordinario del febbraio del 2014, mentre uscivamo dall’aula sinodale, egli si avvicinò a me ed espresse tutta la sua preoccupazione per la falsa direzione nella quale la predetta prolusione avrebbe condotto la Chiesa se non ci fosse stata un’adeguata e repentina correzione. Inoltre aggiunse: “Tutto ciò finirà in uno scisma”. Da quel momento, egli ha fatto tutto il possibile per difendere la parola di Cristo sul matrimonio.
L’ultima
volta che ho avuto il piacere di vedere il Card. Meisner è stato il 3 marzo
dell’anno scorso, quando ho visitato l’Arcidiocesi di Colonia per una
presentazione accademica alla quale anche egli partecipava. Il Card. Meisner fu
veramente contento di potermi esprimere di persona tutto il suo appoggio per il
lavoro svolto al fine di ottenere una giusta risposta del Santo Padre ai “dubia”
suscitati dall’Esortazione Post-sinodale “Amoris Laetitia”. Mentre egli
era chiaramente e profondamente preoccupato per lo stato attuale della Chiesa,
non tralasciava di esprimere tutta la sua fiducia nel Signore che non mancherà
di sostenere il Suo Corpo Mistico nella verità della fede.
Oggi,
onorando la memoria del grande Card. Carlo Caffarra, onoriamo anche, come sono
certo che il Card. Caffarra avrebbe voluto che facessimo, la memoria del Card.
Joachim Meisner, che, insieme col Card. Caffarra, secondo le parole di san
Paolo, ha combattuto la buona battaglia della fede, ha terminato la corsa della
sua missione episcopale per il bene di innumerevoli fedeli, e, con fedeltà e
generosità, ha conservato la fede (1). “Requiescat in pace”!
Introduzione
In una delle
discussioni aperte durante la sessione del Sinodo dei Vescovi, tenuta
nell’ottobre del 2014, i Padri Sinodali stavano dibattendo sulla possibilità di
permettere a coloro che vivono in una unione irregolare l’accesso ai Sacramenti
della Penitenza e della Santa Eucaristia. Ad un certo momento, uno dei
Cardinali, ritenuto esperto in diritto canonico, intervenne proponendo una
soluzione, che a suo giudizio, avrebbe superato tutte le difficoltà. Facendo
riferimento alla dissoluzione di un matrimonio in favore della fede, egli
sostenne, con grande convinzione, che noi non avevamo del tutto compreso
l’estensione della pienezza del potere (la “plenitudo potestatis”) del
Romano Pontefice. La conclusione fu che la pienezza del potere, che per diritto
divino inerisce all’Ufficio Petrino, permetterebbe al Santo Padre di prendere
una decisione in contrasto con le parole del Signore riportate nel capitolo 19
del Vangelo secondo san Matteo e con l’insegnamento costante della Chiesa, in
fedeltà alle stesse parole:
“Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio” (2).
L’affermazione
assai scioccante del Cardinale, mi fece pensare nuovamente a quanto il Santo
Padre stesso aveva detto a tutti i Padri sinodali all’inizio di quella sessione
del Sinodo dei Vescovi nel 2014.
Egli disse
ai Padri Sinodali: “Bisogna dire tutto ciò che si sente con parresia”
(3). Concludendo: “E fatelo con tanta tranquillità e pace, perché il Sinodo si
svolge sempre ‘cum Petro et sub Petro’, e la presenza del Papa è
garanzia per tutti e custodia della fede” (4). La giustapposizione delle parole
classiche che descrivono il potere del Papa, cosicché tutto nella Chiesa deve
essere sempre con Pietro e sotto Pietro, con la presenza fisica del Papa stesso
in un incontro, rischia di generare un fraintendimento circa l’autorità del
Papa, che non è magica, ma deriva dalla sua obbedienza al Signore.
Tale
pensiero magico si riflette anche nella risposta docile di alcuni fedeli a
tutto ciò che viene affermato dal Romano Pontefice, secondo l’idea che, se il
Santo Padre dice qualcosa, allora bisogna accettarla quale insegnamento papale.
In ogni caso, sembra opportuno riflettere un po’ sulla nozione del potere
inerente all’Ufficio Petrino e, in particolare, sulla nozione della pienezza
del potere del Romano Pontefice.
La pienezza
del potere nella Tradizione
La storia
dell’espressione “pienezza del potere” (plenitudo potestatis), per
esprimere la natura della giurisdizione del Romano Pontefice, è descritta
succintamente in un contributo del Professore John A. Watt dell’Università di
Hull in Inghilterra redatto per il Secondo Congresso Internazionale di Diritto
Canonico Medievale (Second International Congress of Medieval Canon Law),
tenuto al Boston College dal 12 al 16 agosto del 1963 (5). Come egli spiega, il
termine venne utilizzato per la prima volta da Papa San Leone Magno nel 446.
Nella sua Lettera 14, egli utilizza queste parole per descrivere
l’autorità del Vescovo: “Perciò abbiamo affidato alla vostra carità i nostri
doveri, cosicché voi siete chiamati a partecipare alla sollecitudine, ma non
alla pienezza del potere” (6). Nel suo abituale Latino cristallino, Papa San
Leone Magno esprime il rapporto tra il Romano Pontefice ed i Vescovi. Mentre il
Romano Pontefice ed i Vescovi condividono la sollecitudine per il bene della
Chiesa universale, solo il Romano Pontefice esercita la pienezza del potere,
affinché l’unità della Chiesa universale sia efficacemente salvaguardata e
promossa.
La
terminologia “pienezza del potere” si trova estensivamente nei trattati
sull’autorità papale, specialmente nella letteratura canonica. Graziano include
il dettato di Papa San Leone Magno, insieme con altri due canoni, nei suoi
Decreti. Questi decreti sottolineano “il primato papale come espresso nella
suprema giurisdizione di appello e nella riserva di tutte le questioni
maggiori” (7). San Bernardo di Chiaravalle contribuì fortemente alla recezione
della terminologia, cosicché “al tempo di Uguccione questa raggiunse un alto
livello di sviluppo” (8).
Papa
Innocenzo III, individuando la base teologica del termine nella realtà
dell’ufficio Papale quale Vicario di Cristo sulla terra, “Vicarius Christi”, ha
sottolineato la posizione del Romano Pontefice “supra ius” e quale “iudex
ordinarius omnium” (9). Per quanto riguarda il termine, supra ius, è sempre
stato chiaro che il Romano Pontefice potesse dispensare dalla legge o
interpretare la legge, ma solo allo scopo di servire il fine proprio della stessa
e mai per sovvertirla. La descrizione dell’esercizio della pienezza del potere,
quale azione di Cristo stesso tramite il Suo Vicario sulla terra, si presenta
con “il requisito secondo cui il Papa deve evitare di decretare qualsiasi cosa
che sia peccaminosa o possa condurre al peccato o alla sovversione della Fede”
(10).
Il Card.
Enrico da Susa, detto l’Ostiense, illustre canonista del 13° secolo, trattò
ampiamente la nozione della pienezza del potere del Romano Pontefice,
utilizzando il termine in 71 contesti individuali dei suoi scritti: la “Summa”,
l’”Apparatus” o “Lectura” sulla “Gregoriana”, e l’”Apparatus”
o le “Extravagantes” di Innocenzo IV. Nella prima appendice al suo
articolo, il Professor Watt presenta un elenco rappresentativo dei testi di Papa
Innocenzo III nei quali egli utilizza il termine “pienezza del potere”, mentre
nella seconda appendice egli propone un elenco di tutti i 71 usi del termine da
parte dell’Ostiense (11).
L’Ostiense
introduce una distinzione tra due usi del termine “pienezza del potere”:
“l’ordinario potere, ‘potestas ordinaria’ o ‘ordinata’ del Papa quando
in virtù del suo ‘plenitudo officii’, egli agisce secondo la legge già
stabilita”, e “il suo potere assoluto, ‘potestas absoluta’ quando in
virtù della sua ‘plenitudo potestatis’, egli oltrepassa o trascende la
legge esistente” (12). L’aggettivo, assoluto, deve essere inteso nel contesto
della Legge Romana [Diritto Romano] e del suo servizio allo sviluppo della
disciplina canonica, e non secondo il pensiero di Machiavelli o dei dittatori
totalitari.
Nella Legge
Romana, il potere assoluto si sostanziava nel poter dispensare dalla legge e
nel poter supplire ad un difetto della stessa. Nelle parole del Professor Watt:
“La dispensa era un uso del potere assoluto di mettere da parte la legge esistente; la ‘suppletio’ (la supplenza) era un atto di potere assoluto per rimediare a difetti che erano emersi sia per l’inosservanza della legge esistente, sia perché la legge esistente era inadeguata a soddisfare le circostanze particolari. In entrambi i casi, il potere assoluto, la ‘plenitudo potestatis’, si rivela come un potere discrezionale sull’ordinamento giuridico stabilito, un potere prerogativa di agire per il bene comune al di fuori di quell’ordine se, secondo il giudizio del Papa, le circostanze lo rendessero necessario” (13).
In
altre parole, la pienezza del potere non fu intesa come un’autorità sulla
costituzione stessa della Chiesa o sul suo Magistero, ma come una necessità per
il governo della Chiesa in piena fedeltà alla sua costituzione e al suo
Magistero. L’Ostiense la descrisse come uno strumento necessario affinché
“l’opera della Curia fosse velocizzata, i ritardi accorciati, il contenzioso
ridotto” (14) mentre, allo stesso tempo, “riteneva che fosse un potere da
utilizzare con grande cautela, come un potere, secondo la frase Paolina, ‘allo
scopo di edificazione e non per la distruzione’, un potere discrezionale per
mantenere la costituzione della Chiesa, non per minarla” (15).
È chiaro che
la pienezza del potere è stata data da Cristo stesso e non da qualche autorità
umana o costituzione popolare, e che, perciò, può essere esercitata solo in
obbedienza a Cristo. Scrive ancora il Professor Watt:
“Era assiomatico che qualsiasi potere che era stato dato da Cristo alla Sua Chiesa fosse allo scopo di realizzare il fine della società che Egli aveva fondato, non per contrastarla. Pertanto il potere prerogativa poteva essere esercitato solo entro questi termini. Quindi “l’assolutismo” (solutus a legibus) non costituiva la licenza per un governo arbitrario. Se era vero che la volontà del principe faceva la legge, nel senso che non c’era un’altra autorità che potesse farla; era anche vero, come corollario, che quando questa volontà minava le fondamenta della società per il cui bene la volontà esisteva, non era legge. La Chiesa era una società per la salvezza delle anime. L’eresia ed il peccato impedivano la salvezza. Qualsiasi atto del papa, ‘in quantum homo’, che fosse eretico o peccaminoso di per sé o che potesse favorire l’eresia o il peccato, minò le fondamenta della società e fu perciò nullo” (16).
In
altre parole, la nozione della pienezza del potere fu, sin dall’inizio, molto
ben definita.
Si comprese
che essa non permetteva di fare determinate cose al Romano Pontefice. Per
esempio, egli non poteva agire contro la Fede Apostolica. Inoltre, per il bene
del buon ordine della Chiesa, fu un potere da utilizzare con parsimonia e con
la più grande prudenza. Il Professor Watt osserva:
“Non era conveniente allontanarsi troppo dal diritto comune [ius commune] o farlo senza causa [sine causa]. Il Papa avrebbe potuto farlo, ma non avrebbe dovuto, perché l’esercizio della ‘plenitudo potestatis’ serve per promuovere l’’utilitas ecclesiae’ et la ‘salus animarum’ e non l’interesse personale degli individui. L’accantonamento dello ‘ius commune’ deve quindi sempre essere un atto eccezionale richiesto da gravi motivi. Se il Papa agisse in tal modo ‘sine causa’ o arbitrariamente, metterebbe in pericolo la sua salvezza” (17).
Visto
che la nozione della pienezza del potere contiene le suindicate limitazioni,
come si giudicano e correggono le violazioni delle limitazioni?
Che cosa si
dovrebbe fare, se il Romano Pontefice agisse in tale modo? L’Ostiense è chiaro
nell’asserire che il Papa non è soggetto al giudizio umano: “Egli deve essere
avvertito sull’errore delle sue azioni e perfino pubblicamente ammonito, ma non
potrebbe essere chiamato in causa, se persistesse nella sua linea di condotta”
(18). Secondo il celebre canonista, il Collegio dei Cardinali, anche se non
condivide la pienezza del potere, “dovrebbe agire come un controllo de facto
contro l’errore papale” (19).
L’Ostiense
ha riconosciuto il bisogno dell’esercizio della pienezza del potere in certi
momenti al fine di “correggere le imperfezioni dell’ordine stabilito o
ostacolare coloro che lo manipolavano per interessi privati” (20), ma egli ha
altresì “pensato come regola generale che il Papa dovrebbe raramente
discostarsi dal diritto comune e ha anche pensato che egli dovrebbe ottenere il
consiglio fraterno dei suoi consiglieri designati prima di farlo (21). A parte
il pubblico ammonimento e la preghiera per l’intervento divino, il nostro
autore non offre un rimedio cogente per l’abuso nell’esercizio della “plenitudo
potestatis”. Se, secondo la coscienza ben formata, un fedele ritenga che un
particolare atto di esercizio della pienezza del potere sia peccaminoso e, di
conseguenza, non riesca ad essere in pace nella sua coscienza sulla questione,
“il Papa deve essere, per dovere, disobbedito, e le conseguenze della
disobbedienza, sofferte con pazienza cristiana” (22).
Il tempo non
mi permette di esaminare più ampiamente la questione della correzione del Papa
che abusasse della pienezza del potere annesso alla primazia della Sede di
Pietro. Come molti sapranno, esiste una letteratura abbondante sul tema.
Certamente il trattato “De Romano Pontifice” di san Roberto Bellarmino
ed altri studi classici vanno esaminati. Per il momento, basta affermare che,
come dimostra la storia, è possibile che il Romano Pontefice, esercitando la
pienezza del potere, possa cadere nell’eresia o nell’abbandono del suo primo
dovere di salvaguardare e promuovere l’unità della fede, del culto e della
disciplina. Siccome egli non può essere assoggetto ad un processo giudiziale,
secondo il primo canone sul foro competente del Codice di Diritto Canonico: “La
prima Sede non è giudicata da nessuno” (“Prima Sedes a nemine iudicatur”)
(23), come si dovrebbe affrontare la questione?
Una breve e
preliminare risposta, basata sul diritto naturale, sui Vangeli e sulla
tradizione canonica, indicherebbe di procedere in due fasi: nella prima, la
correzione del presunto errore o abbandono del suo dovere andrebbe rivolta
direttamente al Romano Pontefice; e, poi, se egli continuasse ad errare o non
rispondesse, si dovrebbe procedere ad una pubblica dichiarazione. Secondo il
diritto naturale, la retta ragione richiede che gli individui siano governati
secondo la regola del diritto (regula iuris) e, in caso contrario,
prevede che essi possano ricorrere contro quelle azioni che violano lo stato di
diritto. Cristo stesso insegna la via della correzione fraterna, che si applica
a tutti i membri del Suo Corpo Mistico (24). Vediamo il Suo insegnamento
incarnato nella correzione fraterna operata da san Paolo nei confronti di san
Pietro, quando quest’ultimo non voleva riconoscere la libertà dei cristiani da
certe regole rituali della fede giudaica (25). Finalmente, la tradizione
canonica è riassunta nella norma del can. 212 del Codice di Diritto Canonico
del 1983. Mentre la prima parte del canone in questione enuncia il dovere di
osservare “con cristiana obbedienza ciò che i sacri Pastori, in quanto
rappresentano Cristo, dichiarano come maestri della fede o dispongono come capi
della Chiesa” (26), la terza parte dichiara il diritto e il dovere dei fedeli
“di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene
della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, salvo restando l’integrità
della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre
presente l’utilità comune e la dignità delle persone” (27).
Per
concludere questo breve esame dello sviluppo della nozione della pienezza del
potere dal tempo di Papa San Leone Magno, si deve osservare che il contributo
dei canonisti medievali costituisce un approfondimento della comprensione della
fede della Chiesa circa il Primato petrino. Tale approfondimento, in nessuna
maniera, pretendeva di offrire novità dottrinali. Il Professor Watt riassume la
materia con queste parole:
“Che il concetto di sovranità ecclesiastica espressa da questo particolare termine fosse stato formulato prima che Ostiense scrivesse, è chiaro dalle decretali di Innocenzo III e dal suo primo commento. L’esame del retroterra decretista al lavoro decretalista iniziale, chiarisce che nessuna novità di essenza dottrinale era qui coinvolta. Le decretali registrano una cristallizzazione della terminologia; segno sicuro della maturità della comprensione canonica della nozione in questione. La ‘Professio fidei’ nota al Secondo Concilio di Lione non fu che un’accettazione più solenne di una posizione tenuta generalmente molto prima, non in ultimo tra i canonisti, espressa ora con l’aiuto di un termine che i canonisti avevano tecnicizzato. Nella forma adottata a Lione, ‘plenitudo potestatis’ rappresentava due cose, entrambe esattamente corrispondenti alla sua storia canonica: il principio del primato giurisdizionale in quanto tale, in tutti i suoi aspetti giudiziari, legislativi, amministrativi e magistrali, e più strettamente, il principio che i prelati derivavano la loro giurisdizione dal Papa. C’era, tuttavia, un terzo livello di interpretazione del termine: la pienezza del potere nella sua forma giuridica più pura. Questo era il livello nel quale i canonisti erano più profondamente impegnati, in quanto riguardava le applicazioni pratiche dell’autorità suprema e considerava il suo rapporto con la legge già in essere e con un ‘ordo iuris’ già stabilito. In breve, un problema di teoria giuridica sviluppata, il concetto del potere del sovrano sulla legge e l’ordine giuridico.Il progresso si raggiunse con alcune semplici distinzioni sulla natura di questo potere. Si diceva che la giurisdizione del Papa fosse esercitata in due modi. C’era un esercizio che aveva un posto riconosciuto e regolare, stabilito dalla legge esistente e tradotto in pratica dalle procedure esistenti: il suo potere ordinario. Vi era inoltre il suo potere straordinario, che lo ereditava personalmente e solo, mediante il quale – manifestazione per eccellenza dell’autorità sovrana – la legge esistente e le procedure stabilite potevano essere sospese, abrogate, chiarite, integrate. Questo era il potere prerogativa del Papa supra ius; la pienezza del potere vista nella sua forma giuridica più caratteristica, come il diritto di regolare un apparato legale stabilito. ‘Solutus a legibus’, il sovrano assoluto potrebbe ridefinire qualsiasi meccanismo di legge. Facendo così, la pienezza del potere fu dispiegata nella sua forma più pratica. Una volta che la ‘plenitudo officii’ (pienezza dell’ufficio) era stata distinta dalla ‘plenitudo potestatis’ (pienezza del potere) e la ‘potestas’ ordinaria (potere ordinario) dalla ‘potestas absoluta’ (potere assoluto) (e con queste distinzioni Ostiense sembra aver dato il suo contributo individuale all’insieme comune delle idee canoniche sul potere papale), appare logico che le circostanze nelle quali questo potere sia stato usato ‘extra ordinum cursum’ (fuori dal corso ordinario) dovrebbero essere esaminate” (28).
Infatti, la
sempre più profonda comprensione della pienezza del potere del Romano Pontefice
durante il periodo medievale, ha condotto allo studio costante del primato di
Pietro e del suo potere annesso. Quindi, una qualsiasi discussione sulla
materia sarebbe incompleta senza la presa in considerazione del lavoro
essenziale svolto dai canonisti durante il Medioevo.
La pienezza
del potere nel Magistero
Il termine,
pienezza del potere, fu utilizzato nella definizione del primato papale dal
Primo Concilio Ecumenico Vaticano nel 1870. Il quarto capitolo della
Costituzione Dommatica “Pastor aeternus”, sulla Chiesa di Cristo,
promulgata il 18 luglio 1870, dichiara:
“Con l’approvazione del Secondo Concilio di Lione, i Greci hanno professato: «La Santa Chiesa Romana ha il sommo e pieno primato e principato su tutta la Chiesa Cattolica, che essa riconosce, con verità e umiltà, di avere ricevuto, con la pienezza del potere, dallo stesso Signore nella persona del beato Pietro, principe e capo degli apostoli, di cui il Romano Pontefice è il successore. E come ha il dovere di difendere soprattutto la verità della fede, così le dispute che sorgessero a proposito della fede devono essere risolte da suo giudizio” (29).
La
definizione dommatica esprime chiaramente che la pienezza del potere del Romano
Pontefice è necessaria affinché la Fede Apostolica sia salvaguardata e promossa
nella Chiesa universale.
Inoltre,
nello stesso capitolo della “Pastor aeternus”, i Padri Conciliari
dichiarano:
“Infatti ai successori di Pietro lo Spirito Santo non è stato promesso perché manifestassero, per sua rivelazione, una nuova dottrina, ma perché con la sua assistenza custodissero santamente ed esponessero fedelmente la rivelazione trasmessa agli apostoli, cioè il deposito della fede. La loro dottrina apostolica è state accolta da tutti i venerati Padri, rispettata e seguita dai santi Dottori ortodossi che sapevano perfettamente che questa sede di Pietro rimane sempre immune da ogni errore, secondo la promessa divina del nostro Signore e Salvatore al principe dei suoi discepoli: ‘Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli’ [Lc 22:32]. Perciò questo carisma di verità e di fede, giammai defettibile, è stato accordato da Dio a Pietro e ai suoi successori su questa cattedra, perché esercitassero questo loro altissimo ufficio per la salvezza di tutti, perché l’universale gregge di Cristo, allontanato per opera loro dall’esca avvelenata dell’errore, fosse nutrito col cibo della dottrina celeste, e, eliminata ogni occasione di scisma, tutta la Chiesa fosse conservata nell’unità e, stabilita sul suo fondamento, si ergesse incrollabile contro le porte dell’inferno” (30).
Seguendo
l’insegnamento costante della Chiesa lungo i secoli, i Padri Conciliari
insegnarono che il Primato petrino, e la conseguente pienezza del potere del
Romano Pontefice, istituti da Cristo nella Sua costituzione della Chiesa quale
Suo Corpo Mistico, sono diretti esclusivamente alla salvezza delle anime
tramite la salvaguardia e la promozione della dottrina sana, trasmessa mediante
quella linea ininterrotta che è la Tradizione Apostolica.
Il n. 22
della Costituzione Dommatica “Lumen Gentium” del Secondo Concilio
Ecumenico Vaticano, utilizzò, allo stesso modo, il termine pienezza del potere.
Descrivendo il rapporto tra il Collegio dei Vescovi ed il Romano Pontefice, i
Padri Conciliari dichiararono:
“Il collegio o corpo episcopale non ha però autorità, se non lo si concepisce unito al Pontefice Romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli. Infatti il Romano Pontefice, in forza del suo Ufficio, cioè di Vicario di Cristo e Pastore di tutta la Chiesa, ha su questa una potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercitare liberamente. D’altra parte, l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo il Romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del Romano Pontefice. Il Signore ha posto solo Simone come pietra e clavigero della Chiesa (cfr. Mt 16,18-19), e lo ha costituito pastore di tutto il suo gregge (cfr. Gv 21,15 ss); ma l’ufficio di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è noto essere stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto col suo capo (cfr. Mt 18,18; 28,16-20)” (31).
L’ufficio
distinto del Romano Pontefice in rapporto al Collegio dei Vescovi ed alla
Chiesa universale è descritto nel numero seguente della Lumen Gentium con
queste parole:
“Quale successore di Pietro, il Romano Pontefice è il perpetuo e visibile principio e fondamento dell’unità sia dei vescovi sia della moltitudine dei fedeli” (32).
In una parte
precedente della stessa Costituzione Dommatica, i Padri Conciliari avevano
spiegato che:
“Sulle orme del Concilio Vaticano I e in accordo con esso, questo Sacrosanto Sinodo insegna e dichiara che Gesù Cristo pastore eterno ha edificato la santa Chiesa, inviando gli apostoli così come egli stesso era stato mandato dal Padre [cfr. Gv 20,21], e ha voluto che i loro successori i vescovi siano i pastori della Chiesa, pastori fino alla fine dei tempi. Affinché poi l’episcopato resti uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro, e in lui ha istituto il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione” (33).
Dopo
il simposio intitolato “Il Primato del Successore di Pietro”,
organizzato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e svolto dal 2 al 4
dicembre del 1996, la Congregazione pubblicò alcune considerazioni riguardanti
il concetto dell’Ufficio Petrino ed il potere ad esso conferito.
Per quanto
concerne il rapporto tra l’Ufficio Petrino e l’ufficio del Vescovo, il
documento afferma:
“Tutti i Vescovi sono soggetti della ‘sollicitudo omnium Ecclesiarum’ in quanto membri del Collegio episcopale che succede al Collegio degli Apostoli, di cui ha fatto parte anche la straordinaria figura di San Paolo. Questa dimensione universale della loro ‘episkopè’ (sorveglianza) è inseparabile dalla dimensione particolare relativa agli uffici loro affidati. Nel caso del Vescovo di Roma – Vicario di Cristo al modo proprio di Pietro come Capo del Collegio dei Vescovi –, la ‘sollicitudo omnium Ecclesiarum’ acquista una forza particolare perché è accompagnata dalla piena e suprema potestà nella Chiesa: una potestà veramente episcopale, non solo suprema, piena e universale, ma anche immediata, su tutti, sia pastori che altri fedeli. Il ministero del Successore di Pietro, perciò, non è un servizio che raggiunge ogni Chiesa particolare dall’esterno, ma è iscritto nel cuore di ogni Chiesa particolare, nella quale «è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo», e per questo porta in sé l’apertura al ministero dell’unità. Questa interiorità del ministero del Vescovo di Roma a ogni Chiesa particolare è anche espressione della mutua interiorità tra Chiesa universale e Chiesa particolare” (34).
L’Ufficio
Petrino, perciò, sia per quanto concerne la propria essenza, sia per quanto
concerne il suo esercizio, è sostanzialmente diverso da un ufficio di un
governo secolare.
Il documento
della Congregazione continua spiegando come il Romano Pontefice svolga il suo
ufficio come servizio, cioè, in obbedienza a Cristo:
“Il Romano Pontefice è – come tutti i fedeli — sottomesso alla Parola di Dio, alla fede cattolica ed è garante dell’obbedienza della Chiesa e, in questo senso, servus servorum. Egli non decide secondo il proprio arbitrio, ma dà voce alla volontà del Signore, che parla all’uomo nella Scrittura vissuta ed interpretata dalla Tradizione; in altri termini, la episkopè del Primato ha i limiti che procedono dalla legge divina e dall’inviolabile costituzione divina della Chiesa contenuta nella Rivelazione. Il Successore di Pietro è la roccia che, contro l’arbitrarietà e il conformismo, garantisce una rigorosa fedeltà alla Parola di Dio: ne segue anche il carattere martirologico del suo Primato” (35).
La
pienezza del potere del Romano Pontefice non può essere giustamente intesa ed
esercitata se non come obbedienza alla grazia di Cristo Capo e Pastore del
gregge di ogni tempo e in ogni luogo.
La
legislazione canonica
La pienezza
del potere del Romano Pontefice era così formulata nel can. 218 del Codice di
Diritto Canonico del 1917:
“Il Romano Pontefice, che è il successore di San Pietro nel primato, possiede non soltanto un primato di onore, ma supremo e pieno potere di giurisdizione nella Chiesa intera nelle materie che appartengono alla fede ed ai costumi così come in quelle che appartengono alla disciplina e al governo della Chiesa in tutto il mondo. Questo potere è veramente episcopale, ordinario ed immediato su tutte e ciascuna delle chiese e su tutti e ciascuno dei pastori e dei fedeli, ed è indipendente da ogni autorità umana” (36).
Quello
che preliminarmente è importante notare è che la pienezza del potere è un
requisito del primato del Romano Pontefice, che non è meramente onorario ma
sostanziale; in altre parole, è un requisito per l’adempimento della
responsabilità suprema, ordinaria, piena e universale di salvaguardare la
regola della fede (regula fidei) e la regola della legge (regula
iuris).
Il can. 331
del Codice di Diritto Canonico del 1983 contiene sostanzialmente la stessa
legislazione:
“Il Vescovo della Chiesa di Roma, in cui permane l’ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro, primo degli Apostoli, e che deve essere trasmesso ai suoi successori, è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; in forza del suo Ufficio egli gode, pertanto, nella Chiesa di una potestà ordinaria suprema, piena, immediata e universale sulla Chiesa, potestà che può sempre esercitare liberamente” (37).
Il
potere del Romano Pontefice è definito dagli aggettivi che lo qualificano.
È ordinario
perché è stabilmente connesso all’ufficio primaziale in forza della volontà di
Cristo stesso. Fa parte dello ‘ius divinum’. È una disposizione divina
(38). È supremo, cioè si tratta dell’autorità più alta nella gerarchia, che non
è sottomessa a nessun potere umano, mentre rimane sempre subordinata a Cristo
vivo nella Chiesa mediante la Tradizione salvaguardata e trasmessa tramite la
regola della fede e la regola del diritto. È pieno perché viene fornito con
tutte le facoltà contenute nel sacro potere di insegnare, di santificare e di
governare. In tal modo è connesso con l’esercizio del magistero infallibile e
con il magistero autentico non-infallibile (cann. 749 § 1, and 752), con il
potere legislativo e giudiziale, e con la moderazione della vita liturgica e
del culto divino della Chiesa universale. È immediato, ovvero si può esercitare
sui fedeli e i loro pastori ovunque e senza condizione, ed è universale, cioè
si estende all’intera comunità ecclesiale, a tutti i fedeli, alle Chiesa
particolari e alle loro congregazioni, ed a tutte le materie che sono soggette
alla giurisdizione e responsabilità della Chiesa.
Quello che è
evidente nella legislazione canonica è che “il Papa non esercita il potere
connesso al suo Ufficio quando egli agisce come una persona privata o semplice
membro dei fedeli” (39). Inoltre, dato il supremo carattere della pienezza del
potere affidato al Romano Pontefice, egli non ha un potere assoluto nel senso
politico contemporaneo e, perciò, è tenuto ad ascoltare Cristo e il Suo Corpo
Mistico, che è la Chiesa. Secondo le considerazioni offerte dalla Congregazione
per la Dottrina della Fede nel 1998:
“Ascoltare la voce delle Chiese è, infatti, un contrassegno del ministero dell’unità, una conseguenza anche dell’unità del Corpo episcopale e del ‘sensus fidei’ dell’intero Popolo di Dio; e questo vincolo appare sostanzialmente dotato di maggior forza e sicurezza delle istanze giuridiche – ipotesi peraltro improponibile, perché priva di fondamento – alle quali il Romano Pontefice dovrebbe rispondere. L’ultima ed inderogabile responsabilità del Papa trova la migliore garanzia, da una parte, nel suo inserimento nella Tradizione e nella comunione fraterna e, dall’altra, nella fiducia nell’assistenza dello Spirito Santo che governa la Chiesa” (40).
Così
un canonista commenta circa la pienezza del potere del Papa:
“Senza dubbio, il fine e la missione della Chiesa indicano limiti ben articolati, che però non sono di facile formulazione giuridica. Ma, se volessimo delle formulazioni giuridiche, potremmo affermare che questi limiti sono quelli che la legge divina, naturale e positiva, stabilisce. Soprattutto, il Papa deve esercitare il suo potere in comunione con tutta la Chiesa (can. 333, § 2). Perciò, questi limiti stanno in rapporto con la comunione nella Fede, nei Sacramenti e nel governo ecclesiastico (can. 205). Il Papa deve rispettare il deposito della fede – egli ha l’autorità di esprimere il Credo in un modo più adeguato ma non può agire in contrasto con la fede – , egli deve rispettare tutti e ciascuno i Sacramenti – non può sopprimere né aggiungere qualsiasi cosa che vada contro la sostanza dei Sacramenti – e, infine, egli deve rispettare la regola ecclesiale dell’istituzione divina (non può prescindere dall’episcopato e deve condividere con il Collego dei Vescovi l’esercizio del pieno e supremo potere)” (41).
Conclusione
Spero che
queste riflessioni, aventi un carattere iniziale e quindi bisognose di maggiore
approfondimento, possano aiutarvi a comprendere la necessità ed allo stesso
tempo la grande prudenza che occorre nell’esercizio della pienezza del potere
del Romano Pontefice in ordine alla salvaguardia ed alla promozione del bene
della Chiesa universale. Secondo le Sacre Scritture e la Sacra Tradizione, il
Successore di San Pietro gode di un potere che è universale, ordinario ed
immediato su tutti i fedeli. Egli è il giudice supremo dei fedeli, il quale non
ha su di sé autorità umana più alta, neanche quella di un concilio ecumenico.
Al Papa appartiene il potere e l’autorità di definire dottrine e di condannare
errori, di promulgare ed abrogare leggi, di agire quale giudice in tutte le
materie della fede e dei retti costumi, di decretare e infliggere pene, di
nominare e di rimuovere, se vi è necessità, i pastori. Poiché tale potere viene
da Dio stesso, esso è limitato dal diritto naturale e dal diritto divino, che
sono le espressioni della verità e della bontà eterna ed immutabile che vengono
da Dio, sono pienamente rivelati in Cristo e sono stati trasmessi nella Chiesa
ininterrottamente. Perciò, qualsiasi espressione della dottrina o della prassi
che non sia in conformità con la Divina Rivelazione, contenuta nelle Sacre
Scritture e nella Tradizione della Chiesa, non può configurare un esercizio autentico
del ministero Apostolico o Petrino e deve essere rifiutata dai fedeli. Come ha
dichiarato san Paolo:
“Mi meraviglio che, così in fretta, da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo voi passiate a un altro vangelo. Però non ce n’è un altro, se non che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Ma se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anàtema!” (42).
Come
cattolici devoti, dobbiamo sempre insegnare e difendere la pienezza del potere
che Cristo ha voluto conferire al Suo Vicario sulla terra. Allo stesso tempo,
però, dobbiamo insegnare e difendere quel potere entro l’insegnamento sulla
Chiesa e la difesa della Chiesa quale Corpo Mistico di Cristo, un corpo
organico di origine divina e di vita divina. Concludo con le parole del
“Decreto” di Graziano:
“Nessun mortale dovrebbe avere l’audacia di rimproverare un Papa in ragione dei suoi difetti, perché colui che ha il dovere di giudicare tutti gli uomini non può essere giudicato da nessuno, a meno che non debba essere richiamato all’ordine per aver deviato dalla fede; per il cui stato perpetuo tutti i fedeli tanto insistentemente pregano quanto loro avvertono che la sua salvezza più grandemente dipende dalla sua incolumità (43).
______________________________
(1) Cf. 2 Tm 4, 7.
(1) Cf. 2 Tm 4, 7.
(2) Mt 19, 9.
(3) “Saluto
del Santo Padre Francesco ai Padri Sinodali, 6 ottobre 2014”, La famiglia è il
futuro. Tutti i documenti del Sinodo straordinario 2014, ed. Antonio Spadaro
(Milano: Àncora Editrice, 2014), p. 118.
(4) Ibid.
(5) Cf. J. A. Watt, “The Use of the Term ‘Plenitudo
Potestatis” by Hostiensis,” in Stephen Ryan Joseph Kuttner, ed., Proceedings of
the Second International Congress of Medieval Canon Law, Boston College,12-16
August 1963 (Città del Vaticano: S. Congregatio de Seminariis et Studiorum
Universitatibus, 1965), pp. 161-187. [Watt].
(6) “Vices
nostras ita tuae credidimus charitati, ut in partem sis vocatus sollicitudinis,
non in plenitudinem potestatis.” [Ep. 14, PL 54.671], citato in Watt, p. 161.
(7) “… papal primacy as expressed in the supreme
appellate jurisdiction and the reservation of all major issues”. Watt, p. 164.
(8) “… by the time of Huguccio it had reached a high
level of development”. Watt, p. 164.
(9) Cf. Watt, p. 165.
(10) “… the qualification that the pope must avoid
decreeing anything that was sinful or might lead to sin or subversion of the
Faith”. Watt, p. 166.
(11) Cf. Watt, pp. 175-187.
(12) “… ordinary power, ‘potestas ordinaria’ or
‘ordinata’ when by virtue of his plenitudo officii, he acted
according to the law already established, … his absolute power, ‘potestas
absoluta’ when by virtue of his plenitudo potestatis, he passed
over or transcended existing law”. Watt, p. 167.
(13) “Dispensation was a use of the absolute power to
set aside existing law; suppletio was an act of absolute power
to remedy defects that had arisen either through the non-observance of existing
law or because existing law was inadequate to meet the particular
circumstances. In both cases the absolute power, the plenitudo
potestatis, stands revealed as a discretionary power over the established
legal order, a prerogative power to act for the common welfare outside that
order, if, in the pope’s judgment, circumstances made this necessary”. Watt,
pp. 167-168.
(14) “… curia business could be expedited, delays
shortened, litigation curtailed.” Watt, p. 168.
(15) … he considered that it was a power to be used
with great caution, as a power in the Pauline phrase ‘unto edification and not
for destruction,’ a discretionary power to maintain the constitution of the
Church, not to undermine it.” Watt, p. 168. Cf. 2 Cor. 13, 10.
(16) “It was axiomatic that any power which had been
given by Christ to His Church was for the purpose of fulfilling the end of the
society which He had founded, not to thwart it. Therefore the prerogative power
could only be exercised within these terms. Therefore “absolutism” (solutus
a legibus) was not licence for arbitrary government. If it was true that
the will of the prince made the law, in the sense that there was no other
authority which could make it; it was also true as a corollary that, where this
will threatened the foundations of the society whose good the will existed to
promote, it was no law. The Church was a society to save souls. Heresy and sin
impeded salvation. Any act of the pope in quantum homo which was heretical or
sinful in itself or might foster heresy or sin threatened the foundations of
society and was therefore void”. Watt, p. 173.
(17) “It was unfitting to depart from the ius
commune too frequently or to do so sine causa. The pope could do so,
but he should not, for the exercise of the plenitudo potestatis was
to further the utilitas ecclesie et salus animarum and not the
self-interest of individuals. The setting aside of the ius commune must
therefore always be an exceptional act impelled by grave reasons. If the pope
did so act sine causa or arbitrarily, he put his salvation in danger”. Watt, p.
168.
(18) He should be warned of the error of his ways and
even publicly admonished, but he could not be put on trial if he persisted in
his line of conduct”. Watt, p. 169.
(19) “… should act as a de facto check
against papal error”. Watt, p. 169.
(20) “… rectify the imperfections of the established
order or thwart those who were manipulating it for private ends”. Watt, p. 174.
(21) “… thought as a general rule the pope should be
slow to depart from the common law and he also thought that he should take the
fraternal advice of his appointed advisers before doing so”. Watt, p. 174.
(22) “… the pope must, as a duty, be disobeyed, and
the consequences of disobedience be suffered in Christian patience”. Watt, p.
173.
(23) Cf. can. 1404.
(24) Cf. Mt 18, 15-17.
(25) Cf. Gal 2, 11-21.
(26) “Quae sacri Pastores, ut pote Christum
repraesentantes, tamquam fidei magistri declarant aut tamquam Ecclesiae
rectores statuunt.” Can. 212, § 1. English translation:
(27) “… sententiam suam de his quae ad bonum
Ecclesiae pertinent sacris Pastoribus manifestent eamque, salva fidei morumque
integritate ac reverentia erga Pastores, attentisque communi utilitate et
personarum dignitate, ceteris christifidelibus notam faciant.” Can. 212, §
3.
(28) “That the concept of ecclesiastical sovereignty
expressed by this particular term had been formulated before Hostiensis wrote,
is clear from Innocent III’s decretals and the early commentary thereon.
Examination of the decretist background to early decretalist work makes it
clear that no novelty of doctrinal essence was here involved. The decretals
register a crystallization of terminology; sure mark of the maturity of the
canonist understanding of the notion in question. The Professio fidei known
to the Second Council of Lyons was but a more solemn acceptance of a position
held generally much earlier, not least among canonists, expressed now with the
help of a term which the canonists had made a technical one. In the form
adopted at Lyons, plenitudo potestatis represented two things,
both of which corresponded exactly to its canonistic history: the principle of
jurisdictional primacy as such, in all its judicial, legislative,
administrative and magisterial aspects, and more narrowly, the principal that
prelates derived their jurisdiction from the pope.
There was, however, a third level of interpretation of
the term: the plenitude of power in its purest juristic form. This was the
level at which the canonists were most deeply engaged, in that it concerned the
practical applications of supreme authority and considered its relationship to
law already in being and an ordo iuris already established. In
short, a problem of developed legal theory, the concept of the power of the
sovereign over law and the juridical order.
Progress was made with some simple distinctions about
the nature of this power. The pope’s jurisdiction was said to be exercised in a
two-fold way. There was an exercise which had a recognized and regular place,
established by existing law and translated into practice by existing
procedures: his ordinary power. There was further his extraordinary power,
inhering him personally and alone, by which – manifestation par excellence of
sovereign authority – existing law and established procedures might be suspended,
abrogated, clarified, supplemented. This was the prerogative power of the pope
supra ius; the plenitude of power seen in its most characteristic juristic form
as the right to regulate established legal machinery. Solutus a legibus,
the absolute ruler might redispose any of the mechanisms of law. In the doing
thereof, the plenitude of power was deployed in its most practical form.
Once the plenitudo officii had been
distinguished from the plenitudo potestatis and the potestas
ordinaria from the potestas absoluta (and with these
distinctions Hostiensis seems to have made his most individual contribution to
the common stock of canonist ideas on papal power), it followed logically that
the circumstances in which this power was used extra ordinarium cursum should
be examined”. Watt, pp. 172-173.
(29) “Approbante vero Lugdunensi Concilio secondo
Graeci professi sunt: ‘Sanctam Romanam Ecclesiam summum et plenum primatum et
principatum super universam Ecclesiam catholicam obtinere, quem se ab ipso
Domino in beato Petro Apostolorum principe sive vertice, cuius Romanus Pontifex
est successor, cum potestatis plenitudine recepisse veraciter et humiliter
recognoscit; et sicut prae ceteris tenetur fidei veritatem defendere, sic et,
si quae de fide subortae fuerint quaestiones, suo debent iudicio definiri’.”
Heinrich Denzinger, Enchiridion Symbolorum definitionum et
declarationum de rebus fidei et morum, 43ª edizione bilingue, ed. Peter
Hünermann, versione italiana ed. Angelo Lanzoni e Giovanni Battista
Zaccherini (Bologna: Edizioni Dehoniane, 1995), pp. 1068-1069, n. 3067.
[Denzinger].
(30)
Denzinger, pp. 1070-1071, nn. 3070-3071.
(31) “Collegium
autem seu corpus Episcoporum auctoritatem non habet, nisi simul cum Pontifice
Romano, successore Petri, ut capite eius intellegatur, huiusque integer manente
potestate Primatus in omnes sive Pastores sive fideles. Romanus enim Pontifex
habet in Ecclesiam, vi muneris sui, Vicarii scilicet Christi et totius
Ecclesiae Pastoris, plenam, supremam et universalem potestatem, quam semper libere
exercere valet. Ordo autem Episcoporm, qui collegio Apostolorum in magisterio
et regimine pastorali succedit, immo in quo corpus apostolicum continuo
perseverat, una cum Capite suo Romano Pontifice, et numquam sine hoc Capite
subiectum quoque supremae ac plenae potestatis in universam Ecclesiam exsistit,
quae quidem potestas nonnisi consentiente Roman Pontifice exerceri potest.
Dominus unum Simonem ut petram et clavigerum Ecclesiae posuit [cf. Mt
16:18-19], eumque Pastorem totius sui gregis constituit [cf. Io 21: 15-19];
illud autem ligandi ac solvendi munus, quod Petro datum est [Mt 16:19],
collegio quoque Apostolorum, suo Capiti coniuncto, tributum esse constat [Mt
18:18; 28:16-20].” Denzinger, pp. 1522-1523, n. 4146.
(32) “Romanus
Pontifex, ut successor Petri, est unitatis, tum Episcoporum tum fidelium
multitudinis, perpetuum ac visibile principium et fundamentum.” Denzinger,
pp. 1524-1525, n. 4147.
(33)
Denzinger, pp. 1516-1517, n. 4142.
(34) “89. Il
Primato del Successore di Pietro nel Mistero della Chiesa”, Congregazione per
la Dottrina della Fede, Documenti (1966-2013) (Città del Vaticano: Libreria
Editrice Vaticana, 2017), pp. 480-481, n. 6. [CDF].
(35) DF, p.
481, n. 7.
(36) “Can.
218. – § 1. Romanus Pontifex, Beati Petri in primate Successor, habet
non solum primatum honoris, sed supremam et plenam potestatem iurisdictionis in
universam Ecclesiam tum in rebus quae ad fidem et mores, tum in iis quae ad
disciplinam et regimen Ecclesiae per totum orbem diffusae pertinent.
§ 2. Haec
potestas est vere episcopalis, ordinaria et immediate tum in omnes et singulas
ecclesias, tum in omnes et singulos pastores et fidelis a quavis humana
auctoritate independens.” Versione italiana dall’autore.
(37) “Can.
331 Ecclesiae Romanae Episcopus, in quo permanet munus a Domino
singulariter Petro, primo Apostolorum, concessum et successoribus eius
transmittendum, Collegii Episcoporum est caput, Vicarius Christi atque
universae Ecclesiae his in terris Pastor; qui ideo vi muneris sui suprema,
plena, immediata et universali in Ecclesia gaudet ordinaria potestate, quam
semper libere exercere valet.” English translation: Canon Law Society of America, Code of Canon Law:
Latin-English Translation, New English Translation, Washington, D.C.: Canon Law
Society of America, 1998. [Hereafter, CLSA].
(38) Cf. cann. 131 § 1, and 145 § ; and Nota
Explicativa Praevia of Lumen Gentium.
(39) “… el Papa no ejercita esta oitestad aneja a su
oficio cunado actúa come persona privada o como simple fiel”. Eduardo Molano,
“Potestad del Romano Pontifice,” Diccionario General de Derecho Conónico, Vol.
VI (Cizur Menor [Navarra]: Editorial Aranzadi, SA, 2012), p. 304. Traduzione
italiana dall’autore. [Molano].
(40) CDF, p.
483, n. 10.
(41) Milano,
p. 306.
(42) Gal 1,
6-8.
(43) “Huius
culpas istic redarguere presumit mortalium nullus, quia cunctos ipse
iudicaturis a nemine est iudicandus, nisi deprehendatur devius; pro cuius
perpetuo statu uniuersitas fidelium tanto instantius orat, quanto suam salutem
post Deum ex illius incolumitate animaduertunt propensius pendere”. Decretum
Magistri Gratiani. Concordia Discordantium Canonum, 1a, dist. 40, c.
6, Si papa; Item ex gestis Bonifacii Martyris.
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