Oggi,
festa di S. Marco Evangelista e Rogazioni di S. Marco o Litanie maggiori, nonché Ottava di S.
Giuseppe, patrono della Chiesa universale, si è svolto a Bari il tradizionale
pellegrinaggio Summorum Pontificum.
Quantomeno
opportuno ci sembra quindi il rilancio di quest’articolo … a tema.
Ambito laziale, S. Marco evangelista, XIX sec., Latina |
Giuseppe Faccin, Martirio di S. Marco, 1906, Chiesa di S. Maria della Neve e S. Marco, Conco |
Guglielmo Ascanio, S. Marco scrive il suo vangelo, 1929, Perugia |
Una foto del pellegrinaggio di quest'oggi inviataci da un nostro amico |
GLI SGUARDI NOSTRI E IL NOSTRO CUORE SIANO
VERSO DIO!
SUL SENSO DELLA
CELEBRAZIONE “CORAM DEO” O RIVOLTI A DIO
di Dñ Julianus della Rovere
Nella mentalità popolare siamo
abituati a sentire che prima della riforma di Concilio Vaticano II il sacerdote
celebrava la Santa Messa rivolgendo le “spalle al popolo”. Questo modo di
celebrare, con altri elementi come la balaustra o il fatto che l’aria del
presbiterio era riservata al solo clero, sono stati visti come un elemento di
distanza tra clero e gente, una assenza di partecipazione e comprensione del
mistero liturgico da parte della gente. Con queste righe ci proponiamo di proporre
alla riflessione di chi vorrà continuare la lettura alcuni spunti su come
questo pensiero sia profondamente erroneo e non corrispondente al vero.
L’oggetto di riflessione è questa posizione del sacerdote “spalle al popolo”,
che inizieremo a chiamare “coram Deo“.
In contrario a questa posizione
del celebrante potremmo iniziare con l’affermare che Cristo stesso non ha dato
le “spalle agli apostoli” nell’ultima cena, pertanto anche il sacerdote non
deve o dovrebbe dare le “spalle al popolo” durante la Santa Messa. Inoltre si
potrebbe dire che non ha senso affermare che il sacerdote, agendo in persona
Christi, dia le “spalle al popolo”. Il popolo, infatti, è “assemblea adunata
nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (cfr. Ordinamento
Generale del Messale Romano, I, 16; II, 27) e popolo santo di Dio (cfr.
LG). In risposta a questa osservazione possiamo affermare che la posizione del
sacerdote “spalle al popolo” o “coram Deo” durante la celebrazione della
Messa non vuol essere un atto di scortesia nei confronti della gente adunata,
ma vuole indicare il senso della preghiera che si sta vivendo e svolgendo:
rivolgersi a Dio e rendere uno spazio sacro l’animo dei fedeli convenuti e
anche il mondo e lo spazio. Infatti, la preghiera orientata, ovvero quella
preghiera che vedeva tutti i convenuti rivolti verso oriente (o verso la Mecca
per i musulmani), era già prassi comune nell’antichità e usata anche dal
Giudaismo e all’Islam. Le costituzioni apostoliche già impongono che le chiese
siano costruite con il catino absidale rivolto ad oriente per via del fatto
che, nella preghiera, era prassi comune rivolgersi verso il punto in cui sorge
il sole. Altri Padri come Agostino, Origene e Tertulliano sottolineano come la
preghiera cristiana abbia una direzione geografica precisa: l’oriente. Infatti,
Cristo è il “sole che sorge” (cfr. Lc 2; Mt 24,27) e che viene a portare la
salvezza di Dio. Nel testo del profeta Ezechiele la stessa gloria di Dio entra
nel tempio dalla porta orientale (Ez 43,1; 44,1-3; 7,1; Zc 3,8). Con ciò si
viene a legare l’oriente alla presenza di Dio nel tempio manifestando che solo
Dio nel suo Cristo porta la luce vera all’uomo schiavo del peccato e delle
tenebre (il cui simbolismo è l’occidente luogo ove il sole tramonta e vi è
l’oscurità). Mediate questa simbologia del “coram Deo” viene posto
l’accento non solo sul tempo presente che la liturgia ci invita a vivere come
presenza viva ed attuale del mistero della Passione e morte di Nostro Signore
che, mediante la sua croce, vivifica ed illumina il mondo, ma anche sul
contesto escatologico: il Cristo viene dall’oriente per salvarci e per condurci
alla vera luce del Padre, egli è la vera luce che guida i passi dell’umanità
verso il paradiso perduto a causa del peccato dei progenitori. Circa
l’orientamento della preghiera “coram Deo” scrive san Tommaso d’Aquino:
«È preferibile che noi adoriamo
con il viso rivolto ad Oriente: primariamente, per mostrare la maestà di Dio
che ci viene manifestata attraverso il movimento del cielo che inizia ad
Oriente; secondariamente, perché il Paradiso terrestre si trovava ad Oriente e
noi cerchiamo di tornarvi; in terzo luogo, perché Cristo, che è la luce del
mondo, è chiamato Oriente dal profeta Zaccaria e perché, secondo Daniele, “è
salito al cielo, all’Oriente”; infine, perché è da Oriente che Egli tornerà,
come dicono le parole del Vangelo di San Matteo: “Come la folgore viene da
oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo”».
Tutto ciò può andare a sostegno
di quanto detto sinora, nella celebrazione “coram Deo” non vi è una
mancanza di rispetto verso la gente convenuta alla preghiera, ma un profondo
senso simbolico che vuol rendere la presenza di Dio, la sua azione nella storia
e l’attesa del Padre celeste nel suo giudizio ultimo alla fine dei tempi. Oltre
a ciò vi è sotteso anche il senso mistagogico, tanto voluto dai Padri
dell’assise del Concilio Vaticano II stesso. Teologi e liturgisti del movimento
liturgico, fedeli al grido “ad fontes” sono andati a recuperare forme e
modi antichi di celebrazione (non sempre erano antichi, ma creati ex
novo): il famoso “archeologismo liturgico” di vecchie prassi ormai in
disuso da secoli condannato dalla Chiesa mediante la condanna del Sinodo di
Pistoia, ed in seguito condannato da Pio XI nella lettera enciclica “Mediator
Dei“. Questo recupero ha un po’ tralasciato quello che è stato lo sviluppo
che ha avuto il linguaggio liturgico nel tempo pensando che la riscoperta
dell’antico avrebbe creato un clima di maggiore comprensione della celebrazione
liturgica, ma purtroppo non è stato così e Pio XII ha avuto, nella sua
enciclica, lo sguardo lungimirante di chi prevedeva ciò che sarebbe accaduto
nel tempo a lui successivo. Tornando al senso mistagogico è possibile creare il
collegamento tra lo stile celebrativo “coram Deo” e la spazialità della
chiesa che, nel suo modo di essere costruita ripropone in senso figurato il
cammino della vita di ogni fedele. Ogni uomo che abbraccia la via della fede
mediante il battesimo compie la sa rinuncia alle tenebre del peccato (che
abbiamo ricordato essere figurato nella posizione del fonte ad occidente,
all’esterno della chiesa o vicino alla porta di ingresso), in questo modo,
fatto nuova creatura l’uomo può accedere dal portale che è Cristo (cfr. Gv
10,7-9) e rivolgere la sua vita a Cristo – Dio che ha la sua presenza simbolica
nella luce dell’occidente e in seguito, quando i tabernacoli presero il posto
centrale sull’altare nel presbiterio, anche nella presenza reale
dell’Eucaristia. Attraverso questo linguaggio mistagogico si viene ad
illuminare il senso del popolo che cammina attraverso quella che è la sua vita
terrena verso il Regno di Dio, verso il paradiso. La mistagogia del cammino
fatto da ogni cristiano mediante il battesimo ed il suo ministero e grado nella
chiesa diventa raffigurazione terrena di quella chiesa militante, popolo in
cammino che, abbattendo il peccato nella sua esistenza umana si rivolge a
Cristo che viene come luce di salvezza dall’oriente.
Riassumendo il senso dell’altare
rivolto ad oriente e della celebrazione “coram Deo” vuol essere:
1. cosmico sacrale:
cioè la liturgia non è solo qualcosa di limitato ai convenuti al Sacrificio
dell’Altare, ma essa racchiude non solo i partecipanti, ma all’umanità tutta
che apre il cuore a Dio e, non rifiutandolo, si lascia condurre al cielo;
ingloba anche quello che è il mondo naturale che attende la venuta di Cristo
che rivelerà in modo definitivo la salvezza che ha operato mediante il
sacrificio della croce (cfr. Rm 8, 22-27).
2. escatologico: la
celebrazione “coram Deo” esprime al meglio, così come abbiamo potuto
leggere anche nel pensiero dell’Aquinate, il senso di attesa che ogni cristiano
deve possedere in cuor suo sapendo che Cristo viene come sole che sorge per
portarci con Lui nel paradiso.
3. mistagogico: ci fa
fare memoria, ogniqualvolta entriamo in chiesa, di quello che è il cammino
della nostra salvezza che, attraverso il battesimo, rinunzia al peccato per
mettersi alla luce di Dio mediante la figura del popolo in cammino verso il
Regno che è anticipato dal banchetto al Corpo e Sangue di Cristo (riti di
comunione della Messa) a noi donati dopo il Sacrificio della Croce avvenuto
sull’altare (parte sacrificale della Messa).
Alle due obiezioni iniziali si
può provare a rispondere, in modo non esaustivo, affermando che l’altare verso
il popolo come “innovazione” è tratta dal pensiero di Lutero così come viene
spiegato anche nel Cerimoniale di Wüttemberg. L’eretico di Sassonia aveva in
odio il pensare la messa come sacrificio e desiderava renderla più conforme
alla cena in modo da eliminare il senso di Messa come memoriale vivo ed attuale
del sacrificio di Cristo sulla croce. Studi come quelli di Klaus Gamber o Mons.
Laise o altri studiosi dimostrano come ai tempi di Cristo non vi era l’uso di
cenare intorno alla tavola come lo conosciamo noi oggi, ma era invalso l’uso di
essere tutti sullo stesso lato del tavolo lasciando il lato libero da
commensali per il servizio del personale di sala o dei servi. Attraverso un
ricorso maggiore a quello che è il motivo conviviale dell’Eucaristia e nel caso
del protestantesimo, si ha la caduta del senso del sacrificio, o meglio del
convito sacrificale ove senza la morte dell’Agnello Pasquale che è il Signore
Gesù, non vi può essere nessun banchetto. La Messa non è commemorazione
dell’ultima cena, ma è il Calvario ove con la morte di Cristo ci viene donato
il suo Corpo e Sangue come nutrimento di immortalità; Cristo stesso nel giovedì
santo, all’ultima cena, anticipa in senso mistico il suo venerdì santo e
comanda di continuare a fare in questo modo. In questa concezione non c’è
bisogno dello scambio di sguardi tra celebrante e popolo, ma vi deve essere un
unico punto di convergenza della mente, del cuore e degli occhi: la croce e
questa ancora viva e presente sull’altare, così la celebrazione “coram Deo”
centrerebbe meglio l’attenzione ed eviterebbe che l’attenzione cada sul
celebrante o sul popolo.
Alla seconda obiezione si può
rispondere affermando che il senso dell’oriente liturgico manifesta in modo
eminente il senso del popolo in cammino tanto desiderato dal Concilio Vaticano
II. Infatti, il popolo con il sacerdote sono rivolti verso un unico punto che è
Dio, essi camminano verso il Regno promesso nelle loro esistenza temporali ed
attendono il compimento definitivo di ogni tempo nel quale Cristo verrà come
giudice dei vivi e dei morti. Proprio in questo camminare verso Dio si
manifesta il “doppio sacerdozio”: battesimale e ministeriale-gerarchico che
differiscono per grado ed essenza mettendo in piena luce il senso del
sacerdozio ministeriale cattolico romano apostolico. Il sacerdote agisce in
persona di Cristo e, come mediatore, offre a Dio la vittima pura, santa ed
immacolata che è lo stesso Cristo, egli così rinnova il sacrificio di Cristo in
modo incruento ogni giorno ad ogni Messa, ma sale all’altare per portare le
preghiere del popolo a Dio, per offrire il frutto del sacerdozio battesimale
che è l’offerta di una vita santa a Dio Padre (cfr. Rm 12,1-2). Appare evidente
quella che è l’unità tra il popolo ed il sacerdote: egli è uno del popolo
costituito per offrire a Dio la vittima perfetta mediante la partecipazione
all’unico vero sacerdozio di Cristo, ma anche per portare al popolo i doni di
Dio ed il prezioso Corpo e Sangue di Cristo che sarà nutrimento di salvezza e
farmaco di immortalità. Inoltre si palesa anche l’unità del popolo di Dio al
sacerdote perché che attraverso i differenti ministeri, questi può presentare
la sua lode a Dio onnipotente e offrire la sua esistenza vissuta in coerenza
alle leggi divine. Nel sacerdote coesistono queste due tipologie di sacerdozio,
egli è ministro ordinato di Dio e partecipa dell’unica vera mediazione di
Cristo sacerdote (cfr. 1Tm 2,5), ed al contempo è rappresentante agli occhi del
Padre divino di tutto il popolo mediante il suo essere battezzato.
La celebrazione “coram Deo”
manifesta non una distanza tra il sacerdote ed il popolo, ma mette in evidenza
il fatto che egli è colui che agisce come ministro ed ambasciatore di Dio
perché costituito sacerdote mediante il sacramento dell’Ordine Sacro, colui che
è datore delle cose sacre. Ancora, per il fatto che egli è in testa al popolo
di Dio, ne diviene portavoce ed guida verso il Regno riassumendo mediante la
figura celebrativa il senso della mediazione sacerdotale cristiana che per
secoli ha fatto fiorire tante vocazioni e messo in chiaro che il sacerdote non
è “l’operatore sociale” o l'”animatore” della comunità cristiana. In
conclusione non possiamo fare altro che auspicare che ci sia una riscoperta del
linguaggio simbolico e mistagogico delle forme liturgiche che la Chiesa ci ha
tramandato come monumento di fede e storia e che si sono condensate nel rito
Gregoriano della Messa e non tanto una proposta di un linguaggio nuovo che
inventa segni e linguaggi liturgici magari ripescandoli dalla storia antica ma
che nel tempo sono decaduti perché già all’epoca poco fruttuosi spiritualmente
o con il pericolo potessero creare delle deviazioni nella fede pregata e creduta
dagli uomini.
Fonte: Ecclesia Æternam, 20.4.2018
Nessun commento:
Posta un commento