Sante Messe in rito antico in Puglia

domenica 22 luglio 2018

Santa Maria Maddalena, la testimone di Cristo

Nella festa di S. Maria Maddalena, l’Apostola apostolorum, rilanciamo questo contributo, risalente a quattro anni fa, di Cristina Siccardi.




Philippe de Champaigne, S. Maria Maddalena penitente, 1668-70, National Museum of Western Art, Tokyo

Santa Maria Maddalena, la testimone di Cristo

di Cristina Siccardi

Quando il Figlio di Dio entrò nella storia, Maria Maddalena fu fra coloro che maggiormente lo amarono, dimostrandolo. Quando giunse il tempo del Calvario, Maria Maddalena era insieme a Maria Santissima e a san Giovanni, sotto la Croce (Gv. 19,25). Non fuggì per paura come fecero i discepoli, non lo rinnegò per paura come fece il primo Papa, ma rimase presente ogni ora, dal momento della sua conversione, fino al Santo Sepolcro. La Chiesa celebra la sua festa il 22 luglio.
Non parole d’amore, ma atti d’amore ci consegnano i Vangeli sulla figura della Maddalena, colei che aveva lavato (con le lacrime del pentimento), asciugato, baciato i piedi di Cristo. A quella vista il fariseo, scandalizzato, che aveva invitato Gesù a casa sua, pensò fra sé: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice». Gesù lesse quell’indebito giudizio e gli disse: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco» (Lc. 7, 39-47).
Non a caso per il Messale romano, nel giorno dedicato a Maria Maddalena, è stata scelta una lettura del Cantico dei Cantici: «Mi alzerò e perlustrerò la città, i vicoli, le piazze, ricercherò colui che amo con tutta l’anima. L’ho cercato, ma non l’ho trovato. Mi incontrarono i vigili di ronda in città: “Avete visto colui che amo con tutta l’anima?”» (Ct. 3,2), un amore perseverante che il Signore premiò, rendendola degna di essere «apostola degli apostoli»: fu la prima ad annunciare la sua resurrezione.
San Gregorio Magno ha parole straordinarie (Om. 25,1-2. 4-5; PL 76,1189-1193) per colei che fece di Cristo l’unica ragione di vita. «Ella si recò la Domenica di Pasqua al Sepolcro, con gli unguenti, per onorare il Signore. Ma non lo trovò: “Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva” (Gv. 20,10-11). In questo fatto dobbiamo considerare quanta forza d’amore aveva invaso l’anima di questa donna, che non si staccava dal sepolcro del Signore, anche dopo che i discepoli se ne erano allontanati. (…) Accadde perciò che poté vederlo essa sola che era rimasta per cercarlo; perché la forza dell’opera buona sta nella perseveranza, come afferma la voce stessa della Verità: “Chi persevererà sino alla fine, sarà salvato” (Mt. 10, 22). Cercò dunque una prima volta, ma non trovò, perseverò nel cercare, e le fu dato di trovare. (…) I santi desideri crescono col protrarsi. Se invece nell’attesa si affievoliscono, è segno che non erano veri desideri. (…) “Donna perché piangi? Chi cerchi?” (Gv. 20,15). Le viene chiesta la causa del dolore, perché il desiderio cresca, e chiamando per nome colui che cerca, s’infiammi di più nell’amore di lui. “Gesù le disse: Maria!” (Gv. 20,16). Dopo che l`ha chiamata con l’appellativo generico (…) senza essere riconosciuto, la chiama per nome come se volesse dire: Riconosci colui dal quale sei riconosciuta. Io ti conosco non come si conosce una persona qualunque, ma in modo del tutto speciale».
Maria si risveglia dall’incubo: «Rabbunì!» («Maestro!»). L’umile penitente Maddalena, diventa testimone del trionfo del Crocifisso. Ora vorrebbe stare lì, in adorazione, e invece no: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv. 20, 17). Porterà Lei l’annuncio agli Apostoli.

sabato 21 luglio 2018

La vita consacrata sottostimata: autolesionismo dello stesso cattolicesimo

Pubblichiamo volentieri questo simpatico contributo del nostro amico Franco Parresio; articolo quanto mai attuale anche a seguito della recente polemica sollevata dall’Istruzione vaticana Ecclesiae Sponsae Imago, in special modo dal § 88, che renderebbe, secondo fondate voci critiche, la verginità … non più necessaria, o meglio non più requisito necessario per accedere all’Ordo virginum (cfr. M. Gatti, "La verginità non è necessaria". E le Spose di Cristo insorgono, in Il Giornale, 17.7.2018, nonché in Corrispondenza romana, 20.7.2018; O. Rudgard, Consecrated virgins need not be virgins, says Vatican, in The Telegraph, July 16th, 2018; V. Ecclesiae Sponsae Imago, in Consecrated Virginity). 
Buona lettura, dunque.

Edmund Blair Leighton, Maternity, 1917, collezione privata

La vita consacrata sottostimata: autolesionismo dello stesso cattolicesimo

di Franco Parresio

Da quando Bergoglio, incontrando più di un anno fa (sabato 28 gennaio 2017 nella Sala Clementina) i rappresentanti degli istituti di vita consacrata e delle società di vita apostolica, riuniti in Sessione Plenaria per riflettere sul tema della fedeltà e degli abbandoni (vqui), ha parlato di vera e propria «“emorragia” che indebolisce la vita consacrata e la vita stessa della Chiesa», si è visto un fiorire di articoli su questo scottante tema; uno è quello del teologo Giulio Meiattini, benedettino della Scala di Noci, dal titolo C’è posto per la vita consacrata? La debolezza dell’ecclesiologia recente, pubblicato su Apulia Teologica. Rivista della Facoltà Teologica Pugliese (anno 2, luglio-dicembre 2017, pp. 435-464). 
Luise Max-Ehrler,
The Latest Trends, 1920
È proprio il Meiattini ad usare le due espressioni forti che fanno da titolo a questo articolo, incolpando «la teologia corrente (che si insegna e che si studia)», che, con la «svolta antropologica» e la «conversione pastorale», ha finito per sottostimare «uno stile di vita che “rinuncia” in vista di un trascendente non verificabile» (ivi, p. 436).
«Ora, se è vero che “l’attacco specifico ai religiosi”, manifestatosi dalla rivoluzione francese fino alle leggi di secolarizzazione dell’Ottocento e alle persecuzioni comuniste nel secolo scorso, “manifesta che la loro vita è una caratteristica vitale del cattolicesimo”, che appunto si voleva colpire in loro, e se è vero che “l’ecologia cattolica subisce una vera crisi per il disboscamento della foresta, rappresentata dalle comunità religiose”, allora c’è da domandarsi se il silenzio, la sottovalutazione o il raro e modesto apprezzamento che la vita religiosa ha ricevuto nella più qualificata riflessione ecclesiologica post-conciliare non manifestino, in modo sotterraneo, una forma di autolesionismo dello stesso cattolicesimo. […] Tacere sulla vita consacrata o presentarla in modo insufficiente e marginale è un vulnus per l’intera Chiesa. Direi perciò, e ancora di più, che non si tratta neppure semplicemente di una debolezza dell’ecclesiologia attuale, ma di un segno di debolezza dell’ecclesiologia in quanto tale» (ivi, pp. 460-461).

Alla luce di quest’ultima battuta mi è sorto un simpatico sospetto: che il buon Don Giulio abbia letto il mio articolo (pubblicato qualche mese prima del suo) su questo blog dal titolo La crisi del tomismo e il “pensiero debole” a proposito della emorragia di religiosi (vqui), nel quale – guarda caso – lo cito. Ma il sospetto diventa meno simpatico giacché anche la sua analisi appare come il goffo tentativo autoassolutorio, rifuggendo la scomoda autocritica e puntando il dito contro la «neo-manualistica ecclesiologica post-conciliare, dalla quale risulta un prevalente oblio della vita religiosa e/o consacrata» (Meiattini, op. cit., p. 437). Mi verrebbe da chiedergli: quanto gli stessi ordini religiosi sono stati e sono capaci di autopromuoversi? Poco o nulla, e per giunta male… molto male! E questo dal momento che i religiosi si comportano da secolari, anzi di più, con una mentalità tutta mondana (vedi l’abbigliamento firmato indossato da molti di loro). Un amico mi riferiva scandalizzato di un giovanissimo frate con i sopraccigli depilati secondo la moda corrente. Io stesso ho visto un padre cappuccino (non più giovane), come questo frate, in più vestito con jeans un po’ laceri, ma nuovi e, per giunta, costosi, perché così si usa oggi. Alla faccia della povertà vera e anche di quella evangelica!

Pietro Aldi,
Fra Filippo Lippi corteggia la sua modella Lucrezia Buti,
1879, Kelvingrove Art Gallery and Museum, Glasgow
Questi religiosi si salvano solo perché appaiano simpatici agli occhi di quelli che affollano (oramai pochi) le sagrestie. Ma non incantano nessuno!

Ma il problema, che sembrerebbe riguardare più gli ordini di vita attiva, riguarda pure quelli di vita contemplativa, anch’essi oramai seriamente in crisi di identità, tutt’una con la crisi di vocazioni: tanto in entrata, tanto in uscita. Soprattutto quest’ultima, significata dalla sopradetta emorragia di religiosi, che ogni anno, in modo impressionante, abbandonano la vita consacrata.

Che cosa li induce all’abbandono? La durezza della vita religiosa? O non piuttosto la mollezza e la rilassatezza con la quale molti conventi e monasteri vivono la propria regola?

Qui non voglio cavalcare la polemica sollevata circa una ventina di anni fa in Via col vento in Vaticano – libro scandalo pubblicato da un gruppo di ex officiali di Curia con lo pseudonimo de “I Millenari” (vqui) –, in cui un capitolo (il diciannovesimo) mette sullo stesso piano «potere, vegetanza e celibato», ma far riflettere sul fatto che c’è poco da scherzare… quantunque si cerchi di mascherare il tutto col prenderci per mano, abbracciarci e baciarci come vecchi amici (pur conoscendoci molto superficialmente!), e – perché no!? – banchettando ad ogni occasione, nel rispetto della regola oramai consolidata che tutto debba finire a tarallucci e vino. Tanto alla fine ciò che conta è: vogliamoci bene!

Concordo con Meiattini quando scrive: «Il capitolo VI della Lumen gentium e il decreto Perfectae caritatis è come se non fossero mai stati scritti» (Meiattini, op. cit., p. 438); ma mi chiedo, e gli chiedo: solo colpa del post Concilio con «opere di ecclesiologia che tacciono del tutto sull’argomento» (ivi, p. 437)? O non già del Concilio stesso, a più di cinquant’anni dalla sua conclusione ricordato ancora con l’incipit della Gaudium et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo»? Una frase, questa, ripetuta non molti giorni fa dall’arcivescovo di Taranto, intervenuto a Il libro possibile di Polignano a Mare (BA). Quella frase – per come è da sempre enfatizzata – costituisce, secondo me, il vero “vulnus per l’intera Chiesa”! E ciò già all’indomani della conclusione del Concilio. Una prova? L’inchiesta, prima e dopo il Concilio, di Sergio Zavoli sulla vita claustrale femminile. In particolare ricordo l’intervista a una giovanissima monaca carmelitana, che, da dietro la grata, parlava di piena realizzazione di sé, nonostante le signorili provocazioni di Zavoli; la stessa, qualche anno dopo la conclusione del Concilio, contattò il nostro giornalista, per metterlo al corrente della sua nuova scelta di vita: la ex monaca, non più giovanissima, appariva a colori e vestita con abiti secolari, più disinvolta e sicura di sé. Aveva lasciato il carmelo insieme ad una consorella, per condurre con questa, da consacrata laica, una vita nel mondo. Oggi, con ogni probabilità, sarebbe rimasta monaca, dal momento che non è più il mondo a cercare i conventi, bensì il contrario. La dimostrazione qualche giorno fa di una carmelitana, autorizzata dalla sua superiora a uscire dalla rigida clausura per… portate il proprio cane di razza ad un concorso di bellezza. Ci mancava la suora cinofila! Forse per dirci ancora una volta che suora o frate è bello? Certo, se si è nel mondo e del mondo! Un mondo che applaude, rimanendo indifferente al messaggio cristiano della salvezza.

Allora come adesso è quell’incipit dianzi ricordato della Gaudium et spes a dover essere seriamente interrogato. Perché da esso dipende tutto il resto, in primis l’interpretazione in chiave mondanistica delle stesse costituzioni conciliari, tra cui spicca la Sacrosanctum Concilium, dove la troppa comprensibilità della Liturgia ha portato questa a svuotarsi della cosa più seria e più importante per l’uomo: il Sacro. E questo Don Giulio dovrebbe capirlo, insegnando al Sant’Anselmo, dove – ho motivi di credere – sia stato confezionata proprio la Costituzione Conciliare sulla Sacra Liturgia. La riforma liturgica parla benedettino! Lo sosteneva nelle sue lezioni un noto professore di Teologia liturgica, formatosi al Sant’Anselmo negli anni immediatamente dopo il Concilio, non perdendo occasione di esaltare quello ritenuto il padre della riforma liturgica: Odo Casel. Ma, allora, perché oggi tra i più agonizzanti ci sono proprio i monasteri benedettini che hanno propugnato la riforma liturgica, a differenza di quelli che, invece, non vi hanno aderito e che sono addirittura in crescita? Perchè la loro è innanzitutto una crisi di identità! Lo dimostrano le sperimentazioni sincretistiche col buddismo tibetano iniziate dal trappista Thomas Merton cinquant’anni fa e portate avanti sino ai giorni nostri (si sente sovente parlare di monasteri benedettini che proprongono corsi di esercizi spirituali con tecniche yoga). Senza tener minimamente conto che il buddismo è religiosamente ateo. È chiaro che un giovane, seriamente intenzionato ma scarsamente motivato dai diretti superiori e confratelli, resiste poco in monastero. Tanto vale essere un buon laico piuttosto che un cattivo religioso… sebbene anche da buon laico non è affatto semplice vivere oggigiorno il proprio cristianesimo. Ma è importante che l’inclito Ordine Benedettino (come è chiamato nell’incipit della Mediator Dei) torni a risplendere dell’originaria bellezza, amando la liturgia gregoriana, che trova la sua più alta espressione nell’usus antiquior del Rito Romano, sull’esempio di quei pochi monasteri in decisa crescita perché lo hanno abbracciato… a differenza di tutti gli altri che, invece, pur storicamente importanti e prestigiosi, rischiano di chiudere, rimanendo tuttavia irremovibili sulla assoluta bontà della riforma liturgica, dichiarata dal magistero bergogliano “irreversibile”… esattamente come il coma.

Intanto stiamo a vedere. Chi vivrà vedrà.

mercoledì 11 luglio 2018

L'apostasia dilaga: eccone un altro: il sig. Nogaro, "vescovo" (si fa per dire) emerito di Caserta .....



"And so the Catholic Church continues on its path of aiding and abetting Europe’s civilizational and cultural suicide — not unwittingly, but with its eyes open. .... The Catholic Church was once one of the foremost bulwarks of defense in the jihad against Europe. But those days are long gone, to the degree that those who call attention to the fact that Europe faces a resurgence today of the same threat that it faced for centuries are ruthlessly harassed and silenced by Catholic authorities" (Steve Skojec, Italian Bishop: Ready to “Turn All the Churches Into Mosques”, in Onepeterfive, July 10, 2018).

Ciò a riprova del tradimento della neo-Chiesa di quella che è stata la Chiesa cattolica per quasi duemila anni, la Chiesa dei martiri iberici, di S. Pio V, dei santi Martiri di Otranto, dei santi crociati .... . Siamo, insomma, di fronte ad un'altra religione. 

sabato 7 luglio 2018

Il Summorum a undici anni dalla promulgazione: una opportunità e una sfida

Nell’anniversario del m.p. Summorum Pontificum, pubblichiamo questo breve saggio del prof. Vito Abbruzzi.

Il Summorum a undici anni dalla promulgazione: una opportunità e una sfida

di Vito Abbruzzi

Il Summorum Pontificum ha compiuto undici anni. Noi non vogliamo festeggiarlo (come su un blog qualche anno fa) con un: «Buon compleanno, Summorum!», bensì con una riflessione – serena e seria – su di esso, a partire dalla sua promulgazione. E l’occasione mi viene da una discussione polemica sostenuta pochi giorni fa tra me e una persona molto critica nei confronti del Motu Proprio in questione.
Questa persona, che pur indisponendomi, ho ringraziato e ringrazio ancora per la sua franchezza, ha puntato il dito proprio contro il Summorum, mentre io lo difendevo a spada tratta. Senza peli sulla lingua, lo ha definito un “indultino” dato agli amanti dei cosiddetti “pizzi e merletti” di casa nostra. In altre parole: un contentino per soddisfare le voglie estetiche dei non pochi tradizionalisti fedeli a Roma, preoccupati più della forma che della sostanza, dal momento che lo stesso Summorum non ne farebbe mistero, affermando che «non pochi fedeli aderirono e continuano ad aderire con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche, le quali avevano imbevuto così profondamente la loro cultura e il loro spirito».
Confesso che a me quelle espressioni hanno dato molto fastidio. Mi ha irritato quella riguardo i “pizzi e merletti”, che non mi riguarda affatto; e soprattutto quella che riduce il Summorum a banale indulto concesso per le ragioni dianzi esposte, quando, invece, rappresenta – per me, per noi che vi abbiamo aderito – una pagina straordinaria del Magistero della Chiesa. E proprio perché così, una opportunità e una sfida.
Una opportunità innanzitutto di crescita, di riscoperta e riqualificazione del Mistero, in linea con la bimillenaria tradizione della Chiesa, rappresentata dai Sommi Pontefici, i quali, secondo quanto insegna Benedetto XVI nell’incipit della sua Lettera Apostolica sulla “Liturgia romana anteriore alla riforma del 1970”, «fino ai nostri giorni ebbero costantemente cura che la Chiesa di Cristo offrisse alla Divina Maestà un culto degno, “a lode e gloria del Suo nome” ed “ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa”». E ciò per non vanificare le intenzioni di un documento «frutto di lunghe riflessioni, di molteplici consultazioni e di preghiera» (Lettera ai Vescovi di accompagnato al Motu Proprio); visto e considerato che, ancora ad oggi, «notizie e giudizi fatti senza sufficiente informazione hanno creato non poca confusione. Ci sono reazioni molto divergenti tra loro che vanno da un’accettazione gioiosa ad un’opposizione dura, per un progetto il cui contenuto in realtà non era conosciuto» (ivi).
30 marzo 1987 : La polizia francese, su richiesta di 
Monsignor Louis-Paul-Armand Simonneaux, Vescovo di Versailles,
irrompe nella chiesa parrocchiale di Saint Louis di Port Marly
e  strappa a viva forza dall'altare l'eroico

padre Bruno de Blignières,
che celebrava secondo il secolare rito della Chiesa Romana,
e sgombera la chiesa a manganellate.
Questa foto testimonia la persecuzione
cui fu sottoposta la Messa Romana dopo il Concilio.
Altro che "mai abrogata"!
Un’opposizione dura al Summorum viene fatta proprio a partire da una espressione utilizzata da esso, ritenuta da non pochi esperti di Diritto Canonico errata ed erronea: “Numquam abrogatam”: «È lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato».
Ho interpellato al riguardo un amico avvocato e canonista, il quale mi ha confermato, citandomi alcuni documenti importanti del Magistero (ivi compresa una celebre allocuzione di papa Montini, v. qui) e documenti della Curia romana, che non lasciano spazio ad equivoci: quel Messale fu effettivamente abrogato (qui e qui). Persino il compianto Cardinale Giuseppe Siri di Genova, del resto, scrivendo ad un monaco inglese che gli chiedeva come si dovesse comportare in campo liturgico nel dubbio tra vecchio e nuovo rito, rispondeva: «Il potere col quale Pio V ha fissato la sua riforma liturgica è lo stesso potere di Paolo VI. L’aver riformato l’Ordo implica la sua sostituzione all’antico» (lettera del 6 settembre 1982). Ma allo stesso tempo mi ha rassicurato – e di questo lo ringrazio – che il Summorum non può essere liquidato come “indultino”! Ecco le sue parole: «Il Summorum in realtà non è un indultino, ma una legge nuova che ha ripristinato il rito antico in maniera generale e legittima. L’indulto era quello concesso da Giovanni Paolo II», le cui norme sono «stabilite dai documenti anteriori “Quattuor abhinc annos” e “Ecclesia Dei”» (Summorum Pontificum, art. 1). È quanto leggiamo al n. 2 dell’Universae Ecclesiae, l’Istruzione applicativa del Summorum: «Con tale Motu Proprio il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha promulgato una legge universale per la Chiesa con l’intento di dare una nuova normativa all’uso della Liturgia Romana in vigore nel 1962».
Di qui, allora, la sfida: soprattutto ai pizzi e merletti, che pure a me, e a quelli come me, stanno sullo stomaco. Ma serve una seria spiritualità liturgica, congiunta ad un’altrettanta pubblica e seria testimonianza di vita, con presa di posizione nei confronti di determinate e pur gravi vicende dei nostri giorni! Cosa che, con rammarico, noto manca a tutto il tradizionalismo: fuori e dentro la Chiesa. Da anni porto avanti, inascoltato, gli insegnamenti e la figura dell’Abate Caronti: insigne liturgista, autore dei messalini più celebri editi fino alla vigilia dell’entrata in vigore del Messale di Paolo VI, nonché redattore della Mediator Dei. Insomma, un vero campione. Uno che della “pietà liturgica” ha fatto una missione, per tutta la vita (anche in punto di morte). Ma, ahimè!, caduto in disgrazia, perché, già da vivo, ritenuto antiquato e fuori moda. Non così il suo antagonista principale: Odo Casel, superesaltato dagli stessi benedettini, che ravvisano in lui – a torto – il diretto erede e continuatore del padre del Movimento Liturgico: l’abate dom Prosper Guéranger. Quando, invece, lo sarebbe, a giusta ragione, il Caronti. E con lui l’altro gigante, sempre espressione dell’inclito ordine benedettino: il beato Ildefonso Schuster. Noi come Scuola Ecclesia Mater ne raccogliamo l’eredità lasciataci dall’uno e dall’altro a proposito del modus celebrandi: «l’azione liturgica sia celebrata con solennità, con ordine, e con decoro» (Caronti), pensando innanzitutto alla “edificazione dei presenti”, come annota lo stesso Schuster: «Ho ricordato l’edificazione dei presenti e studiatamente ho evitato la parola: fedeli. Spesso, infatti, nelle chiese delle abbazie benedettine assistono dei protestanti, degli ebrei, delle persone senza alcuna religione. L’esperienza dimostra che un coro ben eseguito, delle funzioni celebrate con ordine, con maestà, con devota pompa possono fare su quelle anime una profonda impressione».
E ne raccogliamo l’eredità ben consci, insieme a Mons. Bux, che «abbiamo smarrito nell’approccio alla liturgia l’essenziale, perdendoci dietro tecnicismi estenuanti ed estetismi evanescenti».
Il Summorum, allora, sia un terreno non di scontro, bensì di dialogo e di riconciliazione: ad intra ma anche ad extra della Chiesa, sereni del fatto che «la Lettera Apostolica, Summorum Pontificum Motu Proprio data, del Sommo Pontefice Benedetto XVI del 7 luglio 2007, entrata in vigore il 14 settembre 2007, ha reso più accessibile alla Chiesa universale la ricchezza della Liturgia Romana» (Universae Ecclesiae, n. 1).

martedì 3 luglio 2018

Inedita intervista a D. Nicola Bux sul Corpus Domini e sul significato dell'Eucaristia

In anteprima assoluta, pubblichiamo quest'inedita intervista di don Nicola Bux sul Corpus Domini.

Intervista a D. Nicola Bux sul Corpus Domini

a cura di Giuliano Risulli

Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che la processione è un sacramentale istituito dalla Chiesa, per ottenere effetti spirituali. Il Vaticano II ricorda che, per mezzo dei sacramentali, gli uomini sono preparati a ricevere l’effetto principale dei sacramenti, che è la Grazia di Dio, e a santificare le circostanze della vita (cfr. CCC 1667). In particolare, la processione con l’Ostia Consacrata, è una professione di fede e un atto di adorazione (culto latreutico) (cfr. CCC 1378). La processione è, inoltre, espressione della pietà dei fedeli, che accompagna la vita sacramentale (cfr. CCC 1674) pertanto non sono ammissibili atteggiamenti in contrasto con tali caratteristiche (salutare persone, fotografare, chiacchierare ecc.).

Mons. Bux, la Chiesa Universale ha celebrato un mese fa la Solennità del Corpo e del Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo. Potrebbe riassumere in poche righe il motivo o l’avvenimento per il quale fu istituita questa festa?
Il fatto è dato dal “miracolo di Bolsena”, dove un sacerdote boemo ebbe dubbi sulla presenza reale di Gesù Cristo, sotto le specie del pane e del vino, e al momento di pronunziare le parole della consacrazione, vide tramutarsi il pane in carne e sangue. Tutto ciò sull’altare della chiesa di S. Cristina, bagnando il corporale e la pietra sacra della mensa. Il corporale fu portato ad Orvieto, perché in quel tempo il papa si trovava lì. Per questo motivo il papa, decise di istituire la festa del Corpus Domini, cioè del Corpo del Signore. Il corporale ( cioè quel lino sottostante le specie consacrate, che viene posto dal sacerdote sull’altare e aperto all’offertorio ) è custodito in un reliquiario prezioso, che riproduce la facciata del celeberrimo duomo di Orvieto, e portato in processione, in quanto è una reliquia eucaristica. Il corporale è macchiato dal sangue di Gesù Cristo, quindi, è degno di essere mostrato nella processione e adorato. San Tommaso d’Aquino, fu incaricato dal papa Urbano IV, che aveva appunto istituito e esteso la festa a tutta la chiesa universale - Festa che già in Belgio, era già celebrata a Liegi - di comporre l’ufficio della festa del Corpus Domini e della Messa. Ecco perché abbiamo quei famosi inni eucaristici che, ancora oggi, sono un condensato di pietà e di dottrina: per esempio, il Pange Lingua, con le ultime due strofe Tantum Ergo Sacramentum, che vengono cantate prima della benedizione eucaristica. Altri inni celebri sono il Lauda Sion e l’Adoro Te devote. Si può aggiungere che il Corpus Domini intende solennizzare, cioè mettere davanti a tutti, fedeli e non, una volta l’anno, il mistero dell’Eucaristia, che è stato istituito da Gesù il giovedì santo: quel giorno e i seguenti,non può ricevere adeguata e piena attenzione, perché la Chiesa è intenta, nel triduo pasquale, al mistero della passione e della risurrezione del Signore.

Come ogni anno, a Bari, dopo la celebrazione eucaristica presieduta dall’arcivescovo Francesco Cacucci in Cattedrale, si è snodata la processione del Santissimo Sacramento, attraverso alcune strade della città. Quali sono state le sue impressioni, considerando che un numero sempre minore di clero e fedeli, partecipa a questa Solennità, così importante per la Chiesa universale, e lo fa con scarso interesse, spesso con irriverenza, quasi non si renda più conto dell’importanza dell’adorazione rivolta a Nostro Signore?
Non è il primo anno che partecipo alla processione, ma andando indietro agli anni del concilio e a quelli immediatamente seguenti, si è notato un progressivo impoverimento di questa importante manifestazione di fede. Non appena per il numero dei fedeli, che chiaramente è enormemente diminuito, basti vedere le foto; e questo ovviamente va imputato al processo di inimmaginabile secolarizzazione, come diceva Giovanni Paolo II, che ha colpito anche l’Italia. Non solo per il ridottissimo numero di giovani presenti, ma anche per il numero dei religiosi. Le religiose poi, erano quasi invisibili. Per non parlare poi di taluni frati e chierici che si improvvisavano fotografi con gli smartphone o chiacchieravano, dimenticando che stavano partecipando ad un sacramentale: la processione per rendere onore al Santissimo Sacramento. Certo, qualcuno potrebbe obiettare: non bisogna soffermarsi sugli aspetti numerici, e poi, meglio pochi ma buoni; ma un vero pastore, non sarebbe troppo contento di tale constatazione, perché il Signore vuole che tutti gli uomini siano salvi e lo seguano. In verità, v’è una serie di aspetti, che vanno rilevati, e dimostrano una sorta di banalizzazione della missione della Chiesa. Si tratta della crisi della fede, perché la fede nel Santissimo Sacramento richiede uno slancio: ‘quantum potes tantum aude’, dice la sequenza del Corpus Domini: impegna tutto il tuo fervore, Egli supera ogni lode... Uno sforzo di lode e di glorificazione, che passa attraverso diversi fattori, quali le preghiere o i canti. Per non dire della solennizzazione, che è conferita dai segni della liturgia. Ciò detto, in base alle indicazioni diffuse dall’ufficio liturgico, alla processione del Corpus Domini di Bari dovevano essere presenti cinque vicariati e tre parrocchie. Ogni vicariato è composto mediamente da cinque parrocchie, perciò parliamo di almeno una trentina di parrocchie. Poniamo che, mediamente, un parroco riesca, realisticamente, a condurre cinquanta fedeli; avremmo una media di millecinquecento persone, altrimenti diventa ridicolo parlare di vicariati. Invece, secondo la Polizia, la stima dei fedeli davanti alla piazza della cattedrale, e poi dietro il Santissimo Sacramento, si aggirava intorno alle duecento persone, a voler abbondare. Le confraternite: la città di Bari ne conta circa una dozzina. Esse sono state talmente ben curate negli ultimi decenni, e si sono così accresciute di numero, che non partecipa quasi più nessuna; a voler dedurre dagli stendardi, ne erano presenti solo tre. Terz’ordini, associazioni e movimenti erano in numero sparuto, pressoché invisibile, perché di per sé i terz’ordini e i movimenti dovevano sfilare davanti al Santissimo e non dietro. Ponendo che sfilassero davanti in due file, dal punto in cui iniziava la processione, a quello in cui c’era il Sacramento si poteva contare, per essere ottimisti, un centinaio di persone. Passando all’itinerario della processione, diversi hanno osservato che era praticamente deserto - sui marciapiedi poche sporadiche unità – quindi un gesto inutile; la processione non si fa per sé stessa, ma per testimoniare la fede della chiesa di Bari davanti alla città e al popolo, fatto di gente che non va in chiesa o non crede, e viene sorpresa nel momento in cui affolla le strade. È anche vero che il Corpus Domini non si celebra più il giovedì, perché non più di precetto; siccome cade quasi sempre in una domenica estiva, le abitudini secolarizzate, hanno portato i più ad andare fuori città e a rientrare tardi; quindi fare questa processione la domenica sera significa, almeno nelle grandi città, camminare nel deserto; allora, perché non fare la processione il giovedì, pur essendo un giorno feriale? Di sera, la città è più animata, tale da essere l’ambito più idoneo per testimoniare la fede. Si tace sulla disorganizzazione, che ha consentito al traffico di continuato a scorrere sull’altra corsia per quasi metà del percorso, col rischio di coloro che procedevano in processione, perché qualche veicolo poteva investire alcuni.

Questa, a mio parere, è una processione singolare perché, a differenza di altre processioni devozionali, non viene portata una immagine o una statua, ma il Santissimo. Lei pensa che quella del Corpus Domini sia stata ridotta ad una funzione liturgica, il cui soggetto, il Santissimo appunto, ridotto ad un simbolo, non riceve più il dovuto rispetto da ecclesiastici e fedeli: si eseguono canti banali e discutibili, si chiacchiera, si scattano fotografie e addirittura si parla al cellulare?
Ecco io mi soffermerei innanzitutto sui canti. Ci sono alcuni canti, dove si parla del pane e del Signore “che è presente nel pane consacrato”. questa è un’affermazione eretica di Lutero. Il Signore non ha detto di essere presente nel pane e neppure questo pane è il mio corpo, ma ha detto “questo è il mio corpo”, dove questo indica il passaggio dal pane, che ha preso nelle mani, al corpo, perché in quel momento viene consacrato: la sostanza del pane si converte nella sostanza del corpo. Sotto – in senso ontologico e non spaziale – le apparenze o aspetto (species) del pane (oggi si direbbe fenomeno) sta il corpo di Cristo. Non è più pane ma Cristo. Le specie sulle quali è stato fatto il “rendimento di grazie”, dal greco eucharistò, sono diventate eucaristiche. Perciò si deve parlare della “presenza di Cristo sotto le specie eucaristiche”.
Un altro aspetto discutibile è costituito dalle preghiere: nei quattro formulari di preghiera dei fedeli e di intercessioni riportate nel sussidio per seguire la processione, nessuna intenzione invita a pregare per la diffusione e la crescita della fede e della speranza in Gesù Cristo, per la evangelizzazione e conversione degli uomini. Invece, prevale il modulo sociale e politico, ad esempio: "Perché nella società civile siano promosse politiche sociali che mirino a una migliore distribuzione delle entrate...". L’insistenza sui poveri, visti come indigenti materiali e non da evangelizzare, rende evidente l’omissione più grave: che l’unica responsabilità della Chiesa di fronte al mondo è l’annuncio di Cristo, che certamente, non è venuto a risolvere i problemi sociali del mondo, ma è venuto a risolvere il problema fondamentale, ovvero il bisogno della salvezza dell’uomo e quindi la sua liberazione dal peccato e dalla morte. La gran parte delle intenzioni nei formulari insistevano sempre e unicamente sulle questioni sociali, come se la Chiesa, come ha detto più volte papa Francesco, sia una ONG, che si deve occupare della risoluzione di tali questioni. Si dimentica che la prima e più grande povertà, come diceva madre Teresa di Calcutta è la non conoscenza di Dio. Nelle preghiere, non un cenno alla necessità di catechizzare, di evangelizzare, cioè di raggiungere gli uomini e le donne del nostro tempo attraverso l’annunzio del Vangelo e la catechesi. Questo denota uno scadimento generale, per cui la stessa parola ‘fede’, non viene mai pronunziata. Si parla molto di amore e di carità, ma l’amore e la carità verso il prossimo non stanno in piedi se prima non c’è l’amore per Dio. Quindi, soltanto annunziando l’amore di Dio, che è quello che si è fatto carne in Gesù Cristo, non quindi un amore generico, noi possiamo anche diffondere e praticare la virtù della carità. Ma se noi non comunichiamo Cristo al mondo, possiamo parlare quanto vogliamo, e fare solo gesti di solidarietà, come si dice oggi. La solidarietà viene spesso identificata con la carità: alla prima sono chiamati tutti gli esseri umani, per il semplice fatto che appartengono a una nazione, a un popolo, all’umanità; alla seconda invece sono chiamati tutti i cristiani che, superando il significato solidale, devono comunicare all’uomo l’amore di Dio, che è quello che salva e che redime, perché come ha detto Gesù: «I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». Quindi non risolveremo mai il problema dei poveri o della giustizia sociale. Le generazioni si susseguono l’una all’altra, e ad ogni generazione dovremo continuamente riproporre la conversione, affinché accada il vero miracolo dell’amore, che rivolgendosi a Dio, poi discenda verso i poveri. Dunque, i canti e delle preghiere, costituiscono ormai un problema, perché attraverso di essi si trasmette la fede all’uomo ed in particolare alle nuove generazioni: ma se parlano di sociologia, che fede trasmettono?

Quindi pensa che si sia persa, o quantomeno drasticamente diminuita, la fede nella presenza reale del Corpo, Sangue, Anima e Divinità (riprendendo il Concilio di Trento) di Nostro Signore Gesù nel “Sacramentum Sacramentorum”, ovvero la Santa Eucaristia, da parte di Clero e fedeli laici? Se no, perché non ci si genuflette più davanti al Santissimo, durante la processione del Corpus Domini nello specifico, o in generale entrando in Chiesa, o durante la preghiera consacratoria che il Sacerdote pronuncia nella Messa, quando avviene la transustanziazione?
Questo è sicuramente un dato di fatto, che sempre riguarda i segni della liturgia. Un teologo e liturgista del secolo scorso, Romano Guardini, ha affrontato in un libro i santi segni, spesso citato dall’arcivescovo Magrassi, dove tratta dei ‘segni’ come stare in piedi e stare in ginocchio. Ecco questi due segni non sono alternativi, come oggi erroneamente si pensa, ma sono complementari. In quale senso? Sant’Agostino dice che la quaresima e la pasqua sono due tempi emblematici della nostra vita; sulla terra, siamo pressoché sempre in quaresima, perché la vita terrena è un pellegrinaggio faticoso, fatto di sofferenze e di lacrime (san Bernardo parla di ‘valle di lacrime’ nella Salve Regina). Il mondo, è sotto il dominio del ‘principe di questo mondo’, il diavolo, e quindi l’uomo in questo mondo soffre. La quaresima è un tempo penitenziale, perché esprime la pena che noi sopportiamo vivendo nel mondo. Il tempo pasquale invece, è un tempo che ci fa pregustare, nell’arco di cinquanta giorni, quello che dovremo vivere nell’eternità. Allora, il gesto della penitenza e del riconoscimento della maestà di Dio, dinanzi al quale, come dice san Francesco d’Assisi, noi siamo dei vermi vilissimi, è proprio lo stare in ginocchio. Questa pratica esteriore significa che dobbiamo fare penitenza sempre, in special modo in quaresima, un tempo sacramentale, che richiama in realtà tutta l’esistenza. Il tempo pasquale è il tempo della risurrezione, che ci ricorda quanto avvenuto in Cristo, ma non ancora a noi. Siamo, nella fede, risorti col battesimo, ma non lo siamo ancora nella materiale, cosa che avverrà alla fine dei tempi; quindi lo stare in piedi, che è il gesto del risorto, certamente si addice al tempo pasquale. Tuttavia, questi gesti non sono alternativi, ma complementari, perché entrambi gli aspetti, penitenziale e gioioso, li viviamo sempre. Quindi, volere drasticamente, e direi anche violentemente, impedire di inginocchiarsi, addirittura arrivando all’imposizione, ha portato insipientemente certi sacerdoti ad eliminare gli inginocchiatoi, o peggio a proibire di inginocchiarsi durante la santa Messa, nei tempi previsti, non rispettando il bisogno dei fedeli, che attribuiscono al Signore, nel Santissimo Sacramento, la dovuta adorazione. Perché, come dice sant’Agostino, non si può comunicare al Corpo del Signore, se prima non lo si è adorato. Il venir meno di questi ‘santi segni’, come li chiama Guardini, ha portato alla deformazione della santa Messa e delle celebrazioni connesse con essa, come l’adorazione e la processione, ad un intrattenimento a sfondo religioso. Ciò ha fatto venir meno la riverenza e il timor di Dio, che è dovuto al Signore presente dinanzi a noi in corpo, sangue, anima e divinità. La celebrazione dell’Eucaristia si è ridotta a un rito inclusivo, perché si ritiene che ad essa debbano partecipare letteralmente cani e porci (vi sono alcune testimonianze di gente che è entrata in chiesa con il proprio cane tra le braccia, nel disinteresse del sacerdote), termine che uso in senso evangelico, perché Gesù stesso, nel Vangelo, ammonisce di non dare le cose preziose ai cani e ai porci. Ora, non essendoci nulla di più prezioso dell’Eucaristia, di cui non vanno perduti nemmeno i frammenti più piccoli, non bisogna pensare che questo tesoro inestimabile possa essere accessibile a tutti indistintamente. A questo infatti si riferisce Gesù, parlando di non dare le perle, le cose preziose ai cani. Questo ci deve far capire che all’Eucaristia, non possono partecipare tutti. Certo, può capitare che in chiesa entrino persone curiose, non credenti, o comunque cristiani credenti senza le dovute disposizioni, ma noi sappiamo bene che all’Eucaristia si accede, primo: se si è battezzati, e ricevuta la prima comunione, altrimenti che senso avrebbero l’iniziazione cristiana, il catechismo? Secondo: si è coscienti di chi si va a ricevere, non si è in peccato mortale e si è osservato il digiuno eucaristico. Tutto questo ci fa comprendere che l’Eucaristia non è un rito, un sacramento a cui può accedere chiunque, ma soltanto coloro che sono battezzati e riconciliati. Se questo non è chiaro, allora non si può capire nemmeno il senso della processione. La processione eucaristica invece, come detto, è un rito rivolto a chiunque, anche agli indifferenti, agli agnostici, a coloro che non credono, a coloro che sono in ricerca. Per questo motivo la Chiesa porta in processione, ostenta, cioè mostra (donde la parola ostensorio) in maniera solenne la sua fede, perché chi questa fede, non avendola, la sta cercando, ne riceve un monito ed un invito ad abbracciarla e a credere. Questo, però, può accadere solo se la processione ha i requisiti di solennità, di decoro, e soprattutto di fede, che finiscano per invogliare, per attrarre le pecore smarrite. Se Gesù avesse detto, quando viveva sulla terra, parole banali o avesse fatto gesti ordinari, o comunque comuni a tutti, nessuno l’avrebbe seguito. Gesù era seguito per la sua maestà, che era tale da attrarre; persino nel momento cruciale dell’arresto, gli anziani e i sommi sacerdoti caddero tramortiti, quando alla domanda di Caifa, se egli davvero fosse il Figlio di Dio, rispose: ‘Sono Io ‘. Anche sulla croce, la sua maestà rifulse, perché il centurione disse: ‘questi veramente, è il Figlio di Dio’. Quindi, dinanzi alla maestà divina, per quanto celata sotto il velo delle specie consacrate, come restare in atteggiamento di presunzione? Stare in piedi è anche l’atteggiamento del fariseo della parabola evangelica, che Gesù ha stigmatizzato, perché non era umile e diceva: ‘O Dio, ti ringrazio che non sono come quel pubblicano...’. La Chiesa ha disposto di stare in ginocchio, soprattutto durante il tempo della consacrazione e, magari, fino alla conclusione della preghiera eucaristica. L’Ordinamento Generale del Messale Romano al n.43: “Dove vi è la consuetudine che il popolo rimanga in ginocchio dall’acclamazione del Santo fino alla conclusione della preghiera eucaristica e prima della Comunione, quando il sacerdote dice: Ecco l’Agnello di Dio, tale uso può essere lodevolmente conservato”. Invece è stato sradicato con violenza! Da certi sedicenti liturgisti si sostiene che, ricevuta la Comunione, ci si debba sedere, perché – si dice - una volta che Gesù lo hai dentro di te, lui non sta più fuori: è una idiozia, perché nessuno di noi esaurisce la presenza del Signore. Se l’ho ricevuto in me, non vuol dire che Egli smetta di essere presente dinanzi a me, sopra di me, attorno a me; quindi, non viene meno la necessità del gesto massimo di adorazione, lo stare in ginocchio; tra l’altro, è anche un gesto di raccoglimento, perché quando stai in ginocchio, fai una fatica particolare e ti raccogli meglio in te stesso, per essere più disposto alla preghiera e meno incline alla distrazione, e questo aiuta a concentrarti sul mistero che hai ricevuto. Se invece ti siedi, ti rilasso, e quindi ti distrai più facilmente. È veramente incredibile che i ministri impongano atteggiamenti che non corrisponde nemmeno alle dinamiche antropologiche e psicologiche. Lo stesso n.43 ricorda che i fedeli possono stare seduti “se lo si ritiene opportuno, durante il sacro silenzio dopo la Comunione”. Alla luce di quanto detto, si deduce che fin quando non si conclude l’amministrazione della S. Comunione, non ci si debba sedere; dopo, invece sì potrebbe, ma non è obbligatorio. In conclusione, dobbiamo manifestare davanti a Dio l’umiltà, e lo stare in ginocchio è sicuramente un gesto che esprime tale virtù; inoltre, è segno della nostra sottomissione e del riconoscimento, quali semplici creature, della maestà divina del Creatore. Spesso ripeto un detto dei padri del deserto: soltanto il diavolo non si inginocchia, perché non ha le ginocchia. I cristiani orientali, durante la liturgia si prostrano continuamente a terra. Si arriva a esaltare i musulmani, che secondo alcuni pregano più di noi: ebbene si prostrano con la fronte fino a terra, ripetutamente: hanno preso questo gesto dai cristiani e dagli ebrei. Inginocchiarsi vuol dire soprattutto adorare: viene dal latino ‘ad’-’os’, cioè ‘presso la bocca’; è come accostare la bocca vicino a quella di Cristo, come l’atteggiamento degli innamorati. Quindi, adorare significa mettere la bocca vicino a quella del Signore, e questo implica grande umiltà. Come san Giovanni, il discepolo che il Signore amava, il quale, durante l’ultima cena, accostatosi al petto di Gesù, toccò il cuore di Cristo; quasi a voler ricevere tutto da lui, attingere a lui. A proposito del gesto di Giovanni, sant’Agostino osserva: ‘quod amando biberat, evangelizando eruptavit’, che significa: quello che Giovanni, amando, aveva bevuto, lo ha effuso con l’evangelizzazione. Quindi, attingiamo all’Eucaristia e, quanto più è possibile la adoriamo, prima e dopo essercene nutriti.

Non vorrei essere considerato un “contestatore” del Concilio Vaticano II, anche perché io e lei, essendoci una sostanziale differenza di età, siamo nati in due diversi momenti della storia della Chiesa. Lei ad esempio, posso tranquillamente affermare, ha assistito a quella che, de facto, è stata la riforma liturgica, introdotta dopo il Vaticano II. Io invece, ho sviluppato la fede quando la riforma era stata così ampiamente attuata, quindi parliamo degli anni ‘80. Ma quelli a cui assistiamo sovente oggi, a me sembrano, oltre che abusi liturgici, delle pratiche che, in nome della riforma liturgica, hanno senz’altro contribuito alla disintegrazione della fede in occidente. E questo lo si constata benissimo dal fatto che la pietà popolare e la devozione al Santissimo Sacramento sono diminuite fortemente, giungendo ai minimi storici. Lei pensa che le cause prime di questo crollo della fede siano attribuibili essenzialmente, o in parte, alle riforme liturgiche introdotte dal Vaticano II? Il Vaticano II davvero prevedeva queste riforme?
Questa è una storia che ormai sanno in molti. È fatta di luci e ombre, ossia teoremi, abusi, indulti e reati vari, a cui la liturgia è andata soggetta nel dopo concilio. Possiamo dire sinteticamente che il Vaticano II, nella Costituzione sulla liturgia, al paragrafo 22, dopo aver detto che essa è regolata dalla Sede Apostolica e, a norma di diritto, dal Vescovo, al comma C, recita: “Di conseguenza nessun altro, assolutamente, dice che nessuno, assolutamente, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica”. Basta confrontarsi con questa affermazione per capire cosa è accaduto. Si può dire che è stato il Vaticano II a permettere gli abusi? Il sacerdote dovrebbe sapere che non ha alcun potere, né di natura morale, né di natura liturgica. Queste due, inoltre, sono strettamente collegate, perché la morale cristiana è una morale sacramentale: come non possiamo mutare i comandamenti di Dio, così non possiamo mutare le norme immutabili della liturgia, che il Signore stesso ha stabilito nell’Antica e nella Nuova Alleanza, affinché fosse preservata la purezza del culto al lui dovuto, evitata l’idolatria, resa a lui la gloria e salvato l’uomo.

Sarà forse un caso, ma, guardando i filmati degli anni cinquanta/sessanta, nella processione del Corpus Domini, vi erano alcuni elementi rituali e segni, che facevano intendere e ben comprendere la presenza reale di Cristo nel sacramento eucaristico. Faccio riferimento al baldacchino e all’ombrello coi quali, in segno di riverenza, si accompagnava l’Ostensorio, ai petali di fiori che venivano lanciati sul percorso della processione. Molti liturgisti innovatori, contemporanei o successivi al Vaticano II, ritengono che questi elementi siano antiquati ed inutili; molto spesso, col pretesto che essi allontanassero il popolo dei fedeli da Dio, anziché avvicinarlo. Eppure a me pare che, da quando essi sono stati abbandonati, non sia cresciuto il numero dei fedeli, anzi, mai come ai nostri giorni, si sta assistendo all’allontanamento da Dio. Arrivati a questo punto, non pensa che la crisi di fede che oggi la cattolicità sta vivendo, sia causata dal crollo della Liturgia?
A tal proposito dobbiamo dire che l’idea, cosiddetta trionfalistica, cioè che la liturgia non deve cedere a elementi che in qualche modo la solennizzino, è una sciocchezza: basti considerare lo splendore del rito bizantino. Dice la Costituzione liturgica, che le nuove forme devono scaturire da quelle già esistenti e che i riti devono risplendere per nobile semplicità: nobile, in italiano, vuol indicare un livello superiore, eccellente, perfetto, cosa che si coniuga con la semplicità, che significa capacità di comunicare il significato essenziale. Di conseguenza, la solennità è data da segni e atti straordinari. D’altronde, non siamo soliti, nelle festività, o in speciali circostanze, utilizzare il servizio da tavola migliore , proprio per solennizzare quel particolare giorno, e indossare un abito nuovo o ricercato? Questa è anche un’esigenza dell’essere umano, per distinguere la feria dalla festa. Quindi perché scandalizzarsi, che in una festa così solenne, proprio perché accade una volta all’anno, si faccia ricorso a quegli elementi rituali, che servono proprio a marcare la differenza? Se non esistesse questa differenza, non ci sarebbe neanche il motivo di fare una volta l’anno una determinata festa, ma si ripeterebbe lo stesso rito della feria. I riti, che nei secoli si sono sviluppati e attestati, servono a marcare l’importanza del Santissimo Sacramento, al quale vanno attribuiti gli onori dovuti.
Basterebbe assistere alle processioni degli Orientali, per rimanere colpiti: tappeti di fiori su cui camminano clero e fedeli, paramenti preziosi, bande musicali, canti solenni, icone e reliquie, in ordine perfetto, insomma, tutto ciò che è possibile fare per dare gloria a Dio. La processione del Corpus Domini a cui abbiamo assistito, vede il clero sfilare in ordine sparso, impegnato a mandare saluti invece che a pregare e cantare, con paramenti casual, per non parlare dell’abbigliamento sottostante, come le scarpe da ginnastica, magari a colori, analogo abbigliamento, utilizzato anche dai ministranti. Chi di noi si presenterebbe in tal maniera a una cerimonia speciale? Gesù Cristo, Signore del Cielo e della terra, merita d’essere trattato così? Non ci meraviglieremo, se la gente comune non è attratta dall’attuale maniera di celebrare la liturgia e di fare le manifestazioni esterne, che assomigliano ormai sempre più a marce sindacali. Da alcuni decenni, tutti i tentativi di innovazione, nella speranza che sempre più gente aderisca alla fede, hanno invece causato un’emorragia di fedeli senza precedenti. È stata una debacle progressiva, che ha trascinato sempre più in basso la liturgia. Basta partecipare alla cerimonia di apertura delle olimpiadi, per notare che è tutto ridondante, tutto è spettacolo. Dimenticheranno i cristiani – come dice l’Apostolo – di essere spettacolo, agli angeli e al mondo? Quindi devono mostrare il meglio di se stessi, ovvero la corrispondenza tra verità e realtà: la verità è Cristo, la realtà è Cristo. La cosa più saggia di fronte a tale decadenza, è di invertire la tendenza sociologista e pseudo solidale, per l’elevato livello di secolarizzazione che la liturgia cattolica ha raggiunto, e che di fatto, ha già causato la crisi della fede.

lunedì 2 luglio 2018

Festa della Visitazione della B.V.M. a S. Elisabetta

Secondo il calendario tradizionale, questa festa coincide con la data odierna, non già con il 31 maggio. In questo giorno si celebra la Visitazione di Maria alla cugina Elisabetta, sebbene, in verità, essa, successiva all'Ottava della Natività del Battista (allorché fu posto al figlio di Elisabetta e Zaccaria il nome di Giovanni), coincide propriamente col periodo in cui terminò la visita di Maria alla cugina, allorché ella fece ritorno a Nazareth.