Intervista a D. Nicola Bux sul Corpus Domini
a cura di Giuliano Risulli
Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che la
processione è un sacramentale istituito dalla Chiesa, per ottenere effetti
spirituali. Il Vaticano II ricorda che, per mezzo dei sacramentali, gli uomini
sono preparati a ricevere l’effetto principale dei sacramenti, che è la Grazia
di Dio, e a santificare le circostanze della vita (cfr. CCC 1667). In
particolare, la processione con l’Ostia Consacrata, è una professione di fede e
un atto di adorazione (culto
latreutico) (cfr. CCC 1378). La processione è, inoltre, espressione
della pietà dei fedeli, che accompagna la vita sacramentale (cfr. CCC
1674) pertanto non sono ammissibili atteggiamenti in contrasto con tali
caratteristiche (salutare persone, fotografare, chiacchierare ecc.).
Mons. Bux, la Chiesa Universale ha celebrato un mese fa la
Solennità del Corpo e del Sangue di Nostro Signore Gesù Cristo. Potrebbe
riassumere in poche righe il motivo o l’avvenimento per il quale fu istituita
questa festa?
Il fatto è dato dal “miracolo di Bolsena”, dove un sacerdote
boemo ebbe dubbi sulla presenza reale di Gesù Cristo, sotto le specie del pane
e del vino, e al momento di pronunziare le parole della consacrazione, vide
tramutarsi il pane in carne e sangue. Tutto ciò sull’altare della chiesa di S. Cristina,
bagnando il corporale e la pietra sacra della mensa. Il corporale fu portato ad
Orvieto, perché in quel tempo il papa si trovava lì. Per questo motivo il papa,
decise di istituire la festa del Corpus
Domini, cioè del Corpo del Signore. Il corporale ( cioè quel lino
sottostante le specie consacrate, che viene posto dal sacerdote sull’altare e
aperto all’offertorio ) è custodito in un reliquiario prezioso, che riproduce
la facciata del celeberrimo duomo di Orvieto, e portato in processione, in
quanto è una reliquia eucaristica. Il corporale è macchiato dal sangue di Gesù
Cristo, quindi, è degno di essere mostrato nella processione e adorato. San
Tommaso d’Aquino, fu incaricato dal papa Urbano IV, che aveva appunto istituito
e esteso la festa a tutta la chiesa universale - Festa che già in Belgio, era
già celebrata a Liegi - di comporre l’ufficio della festa del Corpus Domini e della Messa. Ecco perché
abbiamo quei famosi inni eucaristici che, ancora oggi, sono un condensato di
pietà e di dottrina: per esempio, il Pange
Lingua, con le ultime due strofe Tantum
Ergo Sacramentum, che vengono cantate prima della benedizione eucaristica.
Altri inni celebri sono il Lauda Sion e
l’Adoro Te devote. Si può aggiungere che il Corpus Domini intende
solennizzare, cioè mettere davanti a tutti, fedeli e non, una volta l’anno, il
mistero dell’Eucaristia, che è stato istituito da Gesù il giovedì santo: quel
giorno e i seguenti,non può ricevere adeguata e piena attenzione, perché la
Chiesa è intenta, nel triduo pasquale, al mistero della passione e della
risurrezione del Signore.
Come ogni anno, a Bari, dopo la celebrazione eucaristica
presieduta dall’arcivescovo Francesco Cacucci in Cattedrale, si è snodata la processione
del Santissimo Sacramento, attraverso alcune strade della città. Quali sono
state le sue impressioni, considerando che un numero sempre minore di clero e
fedeli, partecipa a questa Solennità, così importante per la Chiesa universale,
e lo fa con scarso interesse, spesso con irriverenza, quasi non si renda più
conto dell’importanza dell’adorazione rivolta a Nostro Signore?
Non è il primo anno che partecipo alla processione, ma andando
indietro agli anni del concilio e a quelli immediatamente seguenti, si è notato
un progressivo impoverimento di questa importante manifestazione di fede. Non
appena per il numero dei fedeli, che chiaramente è enormemente diminuito, basti
vedere le foto; e questo ovviamente va imputato al processo di inimmaginabile
secolarizzazione, come diceva Giovanni Paolo II, che ha colpito anche l’Italia.
Non solo per il ridottissimo numero di giovani presenti, ma anche per il numero
dei religiosi. Le religiose poi, erano quasi invisibili. Per non parlare poi di
taluni frati e chierici che si improvvisavano fotografi con gli smartphone
o chiacchieravano, dimenticando che stavano partecipando ad un sacramentale: la
processione per rendere onore al Santissimo Sacramento. Certo, qualcuno
potrebbe obiettare: non bisogna soffermarsi sugli aspetti numerici, e poi,
meglio pochi ma buoni; ma un vero pastore, non sarebbe troppo contento di tale
constatazione, perché il Signore vuole che tutti gli uomini siano salvi e lo
seguano. In verità, v’è una serie di aspetti, che vanno rilevati, e dimostrano
una sorta di banalizzazione della missione della Chiesa. Si tratta della crisi
della fede, perché la fede nel Santissimo Sacramento richiede uno slancio: ‘quantum potes tantum aude’, dice la
sequenza del Corpus Domini: impegna
tutto il tuo fervore, Egli supera ogni lode... Uno sforzo di lode e di glorificazione, che passa attraverso
diversi fattori, quali le preghiere o i canti. Per non dire della
solennizzazione, che è conferita dai segni della liturgia. Ciò detto, in base
alle indicazioni diffuse dall’ufficio liturgico, alla processione del Corpus Domini di Bari dovevano essere
presenti cinque vicariati e tre parrocchie. Ogni vicariato è composto
mediamente da cinque parrocchie, perciò parliamo di almeno una trentina di
parrocchie. Poniamo che, mediamente, un parroco riesca, realisticamente, a
condurre cinquanta fedeli; avremmo una media di millecinquecento persone,
altrimenti diventa ridicolo parlare di vicariati. Invece, secondo la Polizia,
la stima dei fedeli davanti alla piazza della cattedrale, e poi dietro il
Santissimo Sacramento, si aggirava intorno alle duecento persone, a voler
abbondare. Le confraternite: la città di Bari ne conta circa una dozzina. Esse
sono state talmente ben curate negli ultimi decenni, e si sono così accresciute
di numero, che non partecipa quasi più nessuna; a voler dedurre dagli stendardi,
ne erano presenti solo tre. Terz’ordini, associazioni e movimenti erano in
numero sparuto, pressoché invisibile, perché di per sé i terz’ordini e i
movimenti dovevano sfilare davanti al Santissimo e non dietro. Ponendo che
sfilassero davanti in due file, dal punto in cui iniziava la processione, a
quello in cui c’era il Sacramento si poteva contare, per essere ottimisti, un
centinaio di persone. Passando all’itinerario della processione, diversi hanno
osservato che era praticamente deserto - sui marciapiedi poche sporadiche unità
– quindi un gesto inutile; la processione non si fa per sé stessa, ma per
testimoniare la fede della chiesa di Bari davanti alla città e al popolo, fatto
di gente che non va in chiesa o non crede, e viene sorpresa nel momento in cui
affolla le strade. È anche vero che il Corpus
Domini non si celebra più il giovedì, perché non più di precetto; siccome
cade quasi sempre in una domenica estiva, le abitudini secolarizzate, hanno
portato i più ad andare fuori città e a rientrare tardi; quindi fare questa
processione la domenica sera significa, almeno nelle grandi città, camminare
nel deserto; allora, perché non fare la processione il giovedì, pur essendo un
giorno feriale? Di sera, la città è più animata, tale da essere l’ambito più
idoneo per testimoniare la fede. Si tace sulla disorganizzazione, che ha
consentito al traffico di continuato a scorrere sull’altra corsia per quasi
metà del percorso, col rischio di coloro che procedevano in processione, perché
qualche veicolo poteva investire alcuni.
Questa, a mio parere, è una processione singolare perché, a
differenza di altre processioni devozionali, non viene portata una immagine o
una statua, ma il Santissimo. Lei pensa che quella del Corpus Domini sia stata ridotta ad una funzione liturgica, il cui
soggetto, il Santissimo appunto, ridotto ad un simbolo, non riceve più il
dovuto rispetto da ecclesiastici e fedeli: si eseguono canti banali e
discutibili, si chiacchiera, si scattano fotografie e addirittura si parla al
cellulare?
Ecco io mi soffermerei innanzitutto sui canti. Ci sono alcuni
canti, dove si parla del pane e del Signore “che è presente nel pane
consacrato”. questa è un’affermazione eretica di Lutero. Il Signore non ha
detto di essere presente nel pane e neppure questo pane è il mio corpo, ma ha
detto “questo è il mio corpo”, dove questo indica il passaggio dal pane,
che ha preso nelle mani, al corpo, perché in quel momento viene consacrato: la
sostanza del pane si converte nella sostanza del corpo. Sotto – in senso
ontologico e non spaziale – le apparenze o aspetto (species) del pane (oggi
si direbbe fenomeno) sta il corpo di Cristo. Non è più pane ma Cristo. Le
specie sulle quali è stato fatto il “rendimento di grazie”, dal greco eucharistò,
sono diventate eucaristiche. Perciò si deve parlare della “presenza di
Cristo sotto le specie eucaristiche”.
Un altro aspetto
discutibile è costituito dalle preghiere: nei quattro formulari di preghiera
dei fedeli e di intercessioni riportate nel sussidio per seguire la
processione, nessuna intenzione invita a pregare per la diffusione e la crescita
della fede e della speranza in Gesù Cristo, per la evangelizzazione e
conversione degli uomini. Invece, prevale il modulo sociale e politico, ad
esempio: "Perché nella società civile siano promosse politiche sociali che
mirino a una migliore distribuzione delle entrate...". L’insistenza sui
poveri, visti come indigenti materiali e non da evangelizzare, rende evidente l’omissione
più grave: che l’unica responsabilità della Chiesa di fronte al mondo è l’annuncio
di Cristo, che certamente, non è venuto a risolvere i problemi sociali del
mondo, ma è venuto a risolvere il problema fondamentale, ovvero il bisogno
della salvezza dell’uomo e quindi la sua liberazione dal peccato e dalla morte.
La gran parte delle intenzioni nei formulari insistevano sempre e unicamente
sulle questioni sociali, come se la Chiesa, come ha detto più volte papa
Francesco, sia una ONG, che si deve occupare della risoluzione di tali
questioni. Si dimentica che la prima e più grande povertà, come diceva madre
Teresa di Calcutta è la non conoscenza di Dio. Nelle preghiere, non un cenno
alla necessità di catechizzare, di evangelizzare, cioè di raggiungere gli
uomini e le donne del nostro tempo attraverso l’annunzio del Vangelo e la
catechesi. Questo denota uno scadimento generale, per cui la stessa parola ‘fede’,
non viene mai pronunziata. Si parla molto di amore e di carità, ma l’amore e la
carità verso il prossimo non stanno in piedi se prima non c’è l’amore per Dio.
Quindi, soltanto annunziando l’amore di Dio, che è quello che si è fatto carne
in Gesù Cristo, non quindi un amore generico, noi possiamo anche diffondere e
praticare la virtù della carità. Ma se noi non comunichiamo Cristo al mondo,
possiamo parlare quanto vogliamo, e fare solo gesti di solidarietà, come si
dice oggi. La solidarietà viene spesso identificata con la carità: alla prima
sono chiamati tutti gli esseri umani, per il semplice fatto che appartengono a
una nazione, a un popolo, all’umanità; alla seconda invece sono chiamati tutti
i cristiani che, superando il significato solidale, devono comunicare all’uomo
l’amore di Dio, che è quello che salva e che redime, perché come ha detto Gesù:
«I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». Quindi non
risolveremo mai il problema dei poveri o della giustizia sociale. Le
generazioni si susseguono l’una all’altra, e ad ogni generazione dovremo
continuamente riproporre la conversione, affinché accada il vero miracolo dell’amore,
che rivolgendosi a Dio, poi discenda verso i poveri. Dunque, i canti e delle
preghiere, costituiscono ormai un problema, perché attraverso di essi si
trasmette la fede all’uomo ed in particolare alle nuove generazioni: ma se
parlano di sociologia, che fede trasmettono?
Quindi pensa che si sia persa, o quantomeno drasticamente
diminuita, la fede nella presenza reale del Corpo, Sangue, Anima e Divinità
(riprendendo il Concilio di Trento) di Nostro Signore Gesù nel “Sacramentum Sacramentorum”, ovvero la
Santa Eucaristia, da parte di Clero e fedeli laici? Se no, perché non ci si
genuflette più davanti al Santissimo, durante la processione del Corpus Domini nello specifico, o in
generale entrando in Chiesa, o durante la preghiera consacratoria che il
Sacerdote pronuncia nella Messa, quando avviene la transustanziazione?
Questo è sicuramente un dato di fatto, che sempre riguarda i
segni della liturgia. Un teologo e liturgista del secolo scorso, Romano
Guardini, ha affrontato in un libro i santi segni, spesso citato dall’arcivescovo
Magrassi, dove tratta dei ‘segni’ come stare in piedi e stare in ginocchio.
Ecco questi due segni non sono alternativi, come oggi erroneamente si pensa, ma
sono complementari. In quale senso? Sant’Agostino dice che la quaresima e la
pasqua sono due tempi emblematici della nostra vita; sulla terra, siamo
pressoché sempre in quaresima, perché la vita terrena è un pellegrinaggio
faticoso, fatto di sofferenze e di lacrime (san Bernardo parla di ‘valle di
lacrime’ nella Salve Regina). Il mondo, è sotto il dominio del ‘principe
di questo mondo’, il diavolo, e quindi l’uomo in questo mondo soffre. La
quaresima è un tempo penitenziale, perché esprime la pena che noi sopportiamo
vivendo nel mondo. Il tempo pasquale invece, è un tempo che ci fa pregustare,
nell’arco di cinquanta giorni, quello che dovremo vivere nell’eternità. Allora,
il gesto della penitenza e del riconoscimento della maestà di Dio, dinanzi al
quale, come dice san Francesco d’Assisi, noi siamo dei vermi vilissimi, è
proprio lo stare in ginocchio. Questa pratica esteriore significa che dobbiamo
fare penitenza sempre, in special modo in quaresima, un tempo sacramentale, che
richiama in realtà tutta l’esistenza. Il tempo pasquale è il tempo della
risurrezione, che ci ricorda quanto avvenuto in Cristo, ma non ancora a noi.
Siamo, nella fede, risorti col battesimo, ma non lo siamo ancora nella materiale,
cosa che avverrà alla fine dei tempi; quindi lo stare in piedi, che è il gesto
del risorto, certamente si addice al tempo pasquale. Tuttavia, questi gesti non
sono alternativi, ma complementari, perché entrambi gli aspetti, penitenziale e
gioioso, li viviamo sempre. Quindi, volere drasticamente, e direi anche
violentemente, impedire di inginocchiarsi, addirittura arrivando all’imposizione,
ha portato insipientemente certi sacerdoti ad eliminare gli inginocchiatoi, o peggio
a proibire di inginocchiarsi durante la santa Messa, nei tempi previsti, non
rispettando il bisogno dei fedeli, che attribuiscono al Signore, nel Santissimo
Sacramento, la dovuta adorazione. Perché, come dice sant’Agostino, non si può
comunicare al Corpo del Signore, se prima non lo si è adorato. Il venir meno di
questi ‘santi segni’, come li chiama Guardini, ha portato alla deformazione
della santa Messa e delle celebrazioni connesse con essa, come l’adorazione e
la processione, ad un intrattenimento a sfondo religioso. Ciò ha fatto venir
meno la riverenza e il timor di Dio, che è dovuto al Signore presente dinanzi a
noi in corpo, sangue, anima e divinità. La celebrazione dell’Eucaristia si è
ridotta a un rito inclusivo, perché si ritiene che ad essa debbano partecipare
letteralmente cani e porci (vi sono alcune testimonianze di gente che è entrata
in chiesa con il proprio cane tra le braccia, nel disinteresse del sacerdote),
termine che uso in senso evangelico, perché Gesù stesso, nel Vangelo, ammonisce
di non dare le cose preziose ai cani e ai porci. Ora, non essendoci nulla di
più prezioso dell’Eucaristia, di cui non vanno perduti nemmeno i frammenti più
piccoli, non bisogna pensare che questo tesoro inestimabile possa essere
accessibile a tutti indistintamente. A questo infatti si riferisce Gesù,
parlando di non dare le perle, le cose preziose ai cani. Questo ci deve far
capire che all’Eucaristia, non possono partecipare tutti. Certo, può capitare
che in chiesa entrino persone curiose, non credenti, o comunque cristiani
credenti senza le dovute disposizioni, ma noi sappiamo bene che all’Eucaristia
si accede, primo: se si è battezzati, e ricevuta la prima comunione, altrimenti
che senso avrebbero l’iniziazione cristiana, il catechismo? Secondo: si è coscienti
di chi si va a ricevere, non si è in peccato mortale e si è osservato il
digiuno eucaristico. Tutto questo ci fa comprendere che l’Eucaristia non è un
rito, un sacramento a cui può accedere chiunque, ma soltanto coloro che sono
battezzati e riconciliati. Se questo non è chiaro, allora non si può capire
nemmeno il senso della processione. La processione eucaristica invece, come
detto, è un rito rivolto a chiunque, anche agli indifferenti, agli agnostici, a
coloro che non credono, a coloro che sono in ricerca. Per questo motivo la
Chiesa porta in processione, ostenta, cioè mostra (donde la parola ostensorio)
in maniera solenne la sua fede, perché chi questa fede, non avendola, la sta
cercando, ne riceve un monito ed un invito ad abbracciarla e a credere. Questo,
però, può accadere solo se la processione ha i requisiti di solennità, di
decoro, e soprattutto di fede, che finiscano per invogliare, per attrarre le
pecore smarrite. Se Gesù avesse detto, quando viveva sulla terra, parole banali
o avesse fatto gesti ordinari, o comunque comuni a tutti, nessuno l’avrebbe
seguito. Gesù era seguito per la sua maestà, che era tale da attrarre; persino
nel momento cruciale dell’arresto, gli anziani e i sommi sacerdoti caddero
tramortiti, quando alla domanda di Caifa, se egli davvero fosse il Figlio di
Dio, rispose: ‘Sono Io ‘. Anche sulla croce, la sua maestà rifulse, perché il
centurione disse: ‘questi veramente, è il Figlio di Dio’. Quindi, dinanzi alla
maestà divina, per quanto celata sotto il velo delle specie consacrate, come
restare in atteggiamento di presunzione? Stare in piedi è anche l’atteggiamento
del fariseo della parabola evangelica, che Gesù ha stigmatizzato, perché non
era umile e diceva: ‘O Dio, ti ringrazio che non sono come quel pubblicano...’. La Chiesa ha disposto di stare in ginocchio, soprattutto
durante il tempo della consacrazione e, magari, fino alla conclusione della
preghiera eucaristica. L’Ordinamento Generale del Messale Romano al n.43: “Dove
vi è la consuetudine che il popolo rimanga in ginocchio dall’acclamazione del
Santo fino alla conclusione della preghiera eucaristica e prima della
Comunione, quando il sacerdote dice: Ecco l’Agnello di Dio, tale uso può essere
lodevolmente conservato”. Invece è stato sradicato con violenza! Da certi
sedicenti liturgisti si sostiene che, ricevuta la Comunione, ci si debba
sedere, perché – si dice - una volta che Gesù lo hai dentro di te, lui non sta
più fuori: è una idiozia, perché nessuno di noi esaurisce la presenza del
Signore. Se l’ho ricevuto in me, non vuol dire che Egli smetta di essere
presente dinanzi a me, sopra di me, attorno a me; quindi, non viene meno la
necessità del gesto massimo di adorazione, lo stare in ginocchio; tra l’altro,
è anche un gesto di raccoglimento, perché quando stai in ginocchio, fai una
fatica particolare e ti raccogli meglio in te stesso, per essere più disposto
alla preghiera e meno incline alla distrazione, e questo aiuta a concentrarti
sul mistero che hai ricevuto. Se invece ti siedi, ti rilasso, e quindi ti distrai
più facilmente. È veramente incredibile che i ministri impongano atteggiamenti
che non corrisponde nemmeno alle dinamiche antropologiche e psicologiche. Lo
stesso n.43 ricorda che i fedeli possono stare seduti “se lo si ritiene
opportuno, durante il sacro silenzio dopo la Comunione”. Alla luce di quanto
detto, si deduce che fin quando non si conclude l’amministrazione della S. Comunione,
non ci si debba sedere; dopo, invece sì potrebbe, ma non è obbligatorio. In
conclusione, dobbiamo manifestare davanti a Dio l’umiltà, e lo stare in
ginocchio è sicuramente un gesto che esprime tale virtù; inoltre, è segno della
nostra sottomissione e del riconoscimento, quali semplici creature, della
maestà divina del Creatore. Spesso ripeto un detto dei padri del deserto:
soltanto il diavolo non si inginocchia, perché non ha le ginocchia. I cristiani
orientali, durante la liturgia si prostrano continuamente a terra. Si arriva a
esaltare i musulmani, che secondo alcuni pregano più di noi: ebbene si
prostrano con la fronte fino a terra, ripetutamente: hanno preso questo gesto
dai cristiani e dagli ebrei. Inginocchiarsi vuol dire soprattutto adorare:
viene dal latino ‘ad’-’os’, cioè ‘presso la bocca’; è come accostare la bocca
vicino a quella di Cristo, come l’atteggiamento degli innamorati. Quindi,
adorare significa mettere la bocca vicino a quella del Signore, e questo
implica grande umiltà. Come san Giovanni, il discepolo che il Signore amava, il
quale, durante l’ultima cena, accostatosi al petto di Gesù, toccò il cuore di Cristo;
quasi a voler ricevere tutto da lui, attingere a lui. A proposito del gesto di
Giovanni, sant’Agostino osserva: ‘quod
amando biberat, evangelizando eruptavit’, che significa: quello che
Giovanni, amando, aveva bevuto, lo ha effuso con l’evangelizzazione. Quindi,
attingiamo all’Eucaristia e, quanto più è possibile la adoriamo, prima e dopo
essercene nutriti.
Non vorrei essere considerato un “contestatore” del Concilio
Vaticano II, anche perché io e lei, essendoci una sostanziale differenza di
età, siamo nati in due diversi momenti della storia della Chiesa. Lei ad
esempio, posso tranquillamente affermare, ha assistito a quella che, de facto, è stata la riforma liturgica,
introdotta dopo il Vaticano II. Io invece, ho sviluppato la fede quando la riforma
era stata così ampiamente attuata, quindi parliamo degli anni ‘80. Ma quelli a
cui assistiamo sovente oggi, a me sembrano, oltre che abusi liturgici, delle
pratiche che, in nome della riforma liturgica, hanno senz’altro contribuito
alla disintegrazione della fede in occidente. E questo lo si constata benissimo
dal fatto che la pietà popolare e la devozione al Santissimo Sacramento sono
diminuite fortemente, giungendo ai minimi storici. Lei pensa che le cause prime
di questo crollo della fede siano attribuibili essenzialmente, o in parte, alle
riforme liturgiche introdotte dal Vaticano II? Il Vaticano II davvero prevedeva
queste riforme?
Questa è una storia che ormai sanno in molti. È fatta di luci
e ombre, ossia teoremi, abusi, indulti e reati vari, a cui la liturgia è andata
soggetta nel dopo concilio. Possiamo dire sinteticamente che il Vaticano II,
nella Costituzione sulla liturgia, al paragrafo 22, dopo aver detto che essa è
regolata dalla Sede Apostolica e, a norma di diritto, dal Vescovo, al comma C,
recita: “Di conseguenza nessun altro, assolutamente, dice che nessuno,
assolutamente, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere
o mutare alcunché in materia liturgica”. Basta confrontarsi con questa
affermazione per capire cosa è accaduto. Si può dire che è stato il Vaticano II
a permettere gli abusi? Il sacerdote dovrebbe sapere che non ha alcun potere,
né di natura morale, né di natura liturgica. Queste due, inoltre, sono
strettamente collegate, perché la morale cristiana è una morale sacramentale:
come non possiamo mutare i comandamenti di Dio, così non possiamo mutare le
norme immutabili della liturgia, che il Signore stesso ha stabilito nell’Antica
e nella Nuova Alleanza, affinché fosse preservata la purezza del culto al lui
dovuto, evitata l’idolatria, resa a lui la gloria e salvato l’uomo.
Sarà forse un caso, ma, guardando i filmati degli anni
cinquanta/sessanta, nella processione del Corpus Domini, vi erano alcuni
elementi rituali e segni, che facevano intendere e ben comprendere la presenza
reale di Cristo nel sacramento eucaristico. Faccio riferimento al baldacchino e
all’ombrello coi quali, in segno di riverenza, si accompagnava l’Ostensorio, ai
petali di fiori che venivano lanciati sul percorso della processione. Molti
liturgisti innovatori, contemporanei o successivi al Vaticano II, ritengono che
questi elementi siano antiquati ed inutili; molto spesso, col pretesto che essi
allontanassero il popolo dei fedeli da Dio, anziché avvicinarlo. Eppure a me
pare che, da quando essi sono stati abbandonati, non sia cresciuto il numero
dei fedeli, anzi, mai come ai nostri giorni, si sta assistendo all’allontanamento
da Dio. Arrivati a questo punto, non pensa che la crisi di fede che oggi la
cattolicità sta vivendo, sia causata dal crollo della Liturgia?
A tal proposito dobbiamo dire che l’idea, cosiddetta
trionfalistica, cioè che la liturgia non deve cedere a elementi che in qualche
modo la solennizzino, è una sciocchezza: basti considerare lo splendore del
rito bizantino. Dice la Costituzione liturgica, che le nuove forme devono
scaturire da quelle già esistenti e che i riti devono risplendere per nobile
semplicità: nobile, in italiano, vuol indicare un livello superiore,
eccellente, perfetto, cosa che si coniuga con la semplicità, che significa
capacità di comunicare il significato essenziale. Di conseguenza, la solennità
è data da segni e atti straordinari. D’altronde, non siamo soliti, nelle
festività, o in speciali circostanze, utilizzare il servizio da tavola migliore
, proprio per solennizzare quel particolare giorno, e indossare un abito nuovo
o ricercato? Questa è anche un’esigenza dell’essere umano, per distinguere la
feria dalla festa. Quindi perché scandalizzarsi, che in una festa così solenne,
proprio perché accade una volta all’anno, si faccia ricorso a quegli elementi
rituali, che servono proprio a marcare la differenza? Se non esistesse questa
differenza, non ci sarebbe neanche il motivo di fare una volta l’anno una
determinata festa, ma si ripeterebbe lo stesso rito della feria. I riti, che
nei secoli si sono sviluppati e attestati, servono a marcare l’importanza del
Santissimo Sacramento, al quale vanno attribuiti gli onori dovuti.
Basterebbe assistere alle processioni degli Orientali, per
rimanere colpiti: tappeti di fiori su cui camminano clero e fedeli, paramenti
preziosi, bande musicali, canti solenni, icone e reliquie, in ordine perfetto,
insomma, tutto ciò che è possibile fare per dare gloria a Dio. La processione
del Corpus Domini a cui abbiamo assistito, vede il clero sfilare in
ordine sparso, impegnato a mandare saluti invece che a pregare e cantare, con
paramenti casual, per non parlare dell’abbigliamento sottostante, come
le scarpe da ginnastica, magari a colori, analogo abbigliamento, utilizzato
anche dai ministranti. Chi di noi si presenterebbe in tal maniera a una
cerimonia speciale? Gesù Cristo, Signore del Cielo e della terra, merita d’essere
trattato così? Non ci meraviglieremo, se la gente comune non è attratta dall’attuale
maniera di celebrare la liturgia e di fare le manifestazioni esterne, che
assomigliano ormai sempre più a marce sindacali. Da alcuni decenni, tutti i
tentativi di innovazione, nella speranza che sempre più gente aderisca alla
fede, hanno invece causato un’emorragia di fedeli senza precedenti. È stata una
debacle progressiva, che ha
trascinato sempre più in basso la liturgia. Basta partecipare alla cerimonia di
apertura delle olimpiadi, per notare che è tutto ridondante, tutto è
spettacolo. Dimenticheranno i cristiani – come dice l’Apostolo – di essere
spettacolo, agli angeli e al mondo? Quindi devono mostrare il meglio di se
stessi, ovvero la corrispondenza tra verità e realtà: la verità è Cristo, la
realtà è Cristo. La cosa più saggia di fronte a tale decadenza, è di invertire
la tendenza sociologista e pseudo solidale, per l’elevato livello di
secolarizzazione che la liturgia cattolica ha raggiunto, e che di fatto, ha già
causato la crisi della fede.
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