Le parole di questa domanda sono di scandalo per molti: Dio non ci
induce certo in tentazione! Di fatto, san Giacomo afferma: «Nessuno, quando è
tentato, dica: “Sono tentato da Dio”; perché Dio non può essere tentato dal
male e non tenta nessuno al male» (1,13).
Ci aiuta a fare un passo avanti il ricordarci della parola
del Vangelo: «Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere
tentato dal diavolo» (Mt 4,1). La tentazione viene dal diavolo, ma nel compito messianico
di Gesù rientra il superare le grandi tentazioni che hanno allontanato e
continuano ad allontanare gli uomini da Dio. Egli deve, come abbiamo visto,
sperimentare su di sé queste tentazioni fino alla morte sulla croce e aprirci
in questo modo la via della salvezza. Così, non solo dopo la morte, ma in essa
e durante tutta la sua vita deve in certo qual modo «discendere negli inferi»,
nel luogo delle nostre tentazioni e sconfitte, per prenderci per mano e
portarci verso l’alto. La Lettera agli Ebrei ha sottolineato in modo tutto
particolare questo aspetto, mettendolo in risalto come parte essenziale del
cammino di Gesù: «Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere
sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la
prova» (2,18). «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire
le nostre infermità, essendo stato Lui stesso provato in ogni cosa, a
somiglianza di noi, escluso il peccato» (4,15).
Uno sguardo al Libro di Giobbe, in cui sotto tanti aspetti
si delinea già il mistero di Cristo, può fornirci ulteriori chiarimenti. Satana
schernisce l’uomo per schernire in questo modo Dio: la sua creatura, che Egli
ha formato a sua immagine, è una creatura miserevole. Quanto in essa sembra
bene, è invece solo facciata. In realtà all’uomo – a ogni uomo – interessa sempre
e solo il proprio benessere. Questa è la diagnosi di Satana, che l’Apocalisse
definisce «l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusava davanti al
nostro Dio giorno e notte» (Ap 12,10). La diffamazione dell’uomo e della creazione è in ultima
istanza diffamazione di Dio, giustificazione del suo rifiuto.
Satana vuole dimostrare la sua tesi con Giobbe, il giusto:
se solo gli venisse tolto tutto, allora egli lascerebbe presto perdere anche la
sua religiosità. Così Dio concede a Satana la libertà di mettere alla prova
Giobbe, anche se entro limiti ben definiti: Dio non lascia cadere l’uomo, ma
permette che venga messo alla prova. Qui traspare già in modo sommesso e non ancora
esplicito il mistero della vicarietà, che prende una forma grandiosa in Isaia
53: le sofferenze di Giobbe servono alla giustificazione dell’uomo. Mediante la
sua fede provata nella sofferenza, egli ristabilisce l’onore dell’uomo. Così le
sofferenze di Giobbe sono anticipatamente sofferenze in comunione con Cristo,
che ristabilisce l’onore di noi tutti al cospetto di Dio e ci indica la via per
non perdere, neppure nell’oscurità più profonda, la fede in Dio.
Il Libro di Giobbe può anche esserci d’aiuto nel
discernimento tra prova e tentazione. Per maturare, per trovare davvero sempre
più la strada che da una religiosità di facciata conduce a una profonda unione
con la volontà di Dio, l’uomo ha bisogno della prova. Come il succo dell’uva
deve fermentare per divenire vino di qualità, così l’uomo ha bisogno di
purificazioni, di trasformazioni che per lui sono pericolose, che possono
provocarne la caduta, che però costituiscono le vie indispensabili per giungere
a se stessi e a Dio. L’amore è sempre un processo di purificazioni, di rinunce,
di trasformazioni dolorose di noi stessi e così una via di maturazione. Se Francesco
Saverio poté pregare Dio dicendo: «Ti amo, non perché puoi donarmi il paradiso
o l’inferno, ma semplicemente perché sei quello che sei – mio re e mio Dio»,
era stato certamente necessario un lungo percorso di purificazioni interiori
per giungere a quest’ultima libertà – un percorso di maturazioni, in cui era in
agguato la tentazione, il pericolo della caduta – e tuttavia un percorso
necessario.
Così possiamo ora interpretare la sesta domanda del Padre nostro già in maniera un po’ più concreta. Con essa diciamo a Dio: «So che ho bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se tu decidi di sottopormi a queste prove, se – come nel caso di Giobbe – dai un po’ di mano libera al Maligno, allora pensa, per favore, alla misura limitata delle mie forze. Non credermi troppo capace. Non tracciare troppo ampi i confini entro i quali posso essere tentato, e siimi vicino con la tua mano protettrice quando la prova diventa troppo ardua per me». In questo senso san Cipriano ha interpretato la domanda. Dice: quando chiediamo «e non c’indurre in tentazione», esprimiamo la consapevolezza «che il nemico non può fare niente contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore e devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre tentazioni niente è lecito al Maligno, se non gliene vien data di là la facoltà» (De dom. or. 25).
Così possiamo ora interpretare la sesta domanda del Padre nostro già in maniera un po’ più concreta. Con essa diciamo a Dio: «So che ho bisogno di prove affinché la mia natura si purifichi. Se tu decidi di sottopormi a queste prove, se – come nel caso di Giobbe – dai un po’ di mano libera al Maligno, allora pensa, per favore, alla misura limitata delle mie forze. Non credermi troppo capace. Non tracciare troppo ampi i confini entro i quali posso essere tentato, e siimi vicino con la tua mano protettrice quando la prova diventa troppo ardua per me». In questo senso san Cipriano ha interpretato la domanda. Dice: quando chiediamo «e non c’indurre in tentazione», esprimiamo la consapevolezza «che il nemico non può fare niente contro di noi se prima non gli è stato permesso da Dio; così che ogni nostro timore e devozione e culto si rivolgano a Dio, dal momento che nelle nostre tentazioni niente è lecito al Maligno, se non gliene vien data di là la facoltà» (De dom. or. 25).
E poi, ponderando il profilo psicologico della tentazione,
egli spiega che ci possono essere due differenti motivi per cui Dio concede al
Maligno un potere limitato. Può accadere come penitenza per noi, per smorzare
la nostra superbia, affinché sperimentiamo di nuovo la povertà del nostro
credere, sperare e amare e non presumiamo di essere grandi da noi: pensiamo al fariseo
che racconta a Dio delle proprie opere e crede di non aver bisogno di alcuna
grazia. Cipriano, purtroppo, non specifica poi il significato dell’altro tipo
di prova: la tentazione che Dio ci impone ad gloriam – per la sua gloria.
Ma in questo caso non dovremmo ricordarci che Dio ha messo un carico particolarmente
gravoso di tentazioni sulle spalle delle persone a Lui particolarmente vicine,
i grandi santi, da Antonio nel deserto fino a Teresa di Lisieux nel pio mondo
del suo Carmelo? Tali persone stanno, per così dire, sulle orme di Giobbe come
apologia dell’uomo, che è al contempo difesa di Dio. Ancor più: sono in modo
del tutto particolare in comunione con Gesù Cristo, che ha sofferto fino in
fondo le nostre tentazioni. Sono chiamate a superare, per così dire, nel
proprio corpo, nella propria anima le tentazioni di un’epoca, a sostenerle per
noi, anime comuni, e ad aiutarci nel passaggio verso Colui che ha preso su di
sé il gravame di tutti noi.
Nella preghiera che esprimiamo con la sesta domanda del
Padre nostro deve così essere racchiusa, da un lato, la disponibilità a
prendere su di noi il peso della prova commisurata alle nostre forze;
dall’altro, appunto, la domanda che Dio non ci addossi più di quanto siamo in
grado di sopportare; che non ci lasci cadere dalle sue mani. Pronunciamo questa
richiesta nella fiduciosa certezza per la quale san Paolo ci ha donato le
parole: «Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze,
ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla»
(1 Cor 10,13).
Fonte: Joseph Ratzinger – Benedetto XVI, Gesù di Nazaret.
Dal Battesimo alla Trasfigurazione, Città del Vaticano – Milano, 2007, pp.
118-121
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