Mons. Nicola Bux rilascia al noto giornalista vaticanista Aldo
Maria Valli una bella intervista.
Lo stesso ricorda alcuni profili
problematici del “magistero” dell’attuale vescovo di Roma. Se ne potrebbero
aggiungere, effettivamente, pure altri. Basti ricordare la famosa lettera
al giornalista E. Scalfari (non le interviste, dove, peraltro, vi sono
affermazioni assai gravi, ma che non sono entrate nel “magistero” ufficiale del
medesimo), che nega l’esistenza di una legge morale naturale oggettiva, al di
fuori dell’uomo, cadendo nel soggettivismo, nel relativismo e nella c.d. etica
della situazione («… Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è
quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa,
infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o
come male. …»). Si tratta della traduzione, in ambito morale, del
principio kantiano secondo cui ognuno è legge a se stesso («Il cielo
stellato al di sopra di me, la legge dentro di me»: espressione realmente e
metafisicamente mostruosa perché Dio, “il cielo stellato”, sarebbe il
noumeno, che starebbe oltre l’uomo e quindi non sarebbe realmente conoscibile
così come è, ma solo come apparirebbe, mentre la legge morale starebbe dentro
l’uomo e quindi sarebbe soggettiva, autonoma e indipendente da Dio, così che
l’uomo fosse legge a se stesso). Per approfondimenti sul tema, rinviamo a Dalla
Nouvelle Théologie alla Nuova Morale della Situazione, in Sì
sì, no no, Anno XXXX, 2014, fasc. 13.
Anche Amoris laetitia, giustamente, osserva Mons.
Bux, pone molti problemi. Per di più, proprio in relazione a questo documento ed alla
pubblicazione dei Criteri stabiliti dalla regione
ecclesiastica di Buenos Aires, plauditi – come noto – dallo stesso Vescovo di
Roma, e pubblicati sugli Acta Apostolicae Sedis nell’ottobre
scorso (v. il nostro contributo qui)
il problema si è aggravato, giacché numerose conferenze episcopali, nazionali e
regionali, si sono subito affrettate a sposare in pieno quelle direttive.
Pensiamo, ad es., in primis ai vescovi della regione
ecclesiastica dell’Emilia Romagna. Ma non solo a loro evidentemente. Parimenti
la questione si è aggravata a seguito di una nuova missiva dello stesso vescovo
di Roma, questa volta al patriarca di Lisbona, il card. Manuel Clemente, che
riprende i criteri degli argentini e che da sempre – è noto – è a favore della
comunione ai divorziati c.d. risposati. Anche qui la lettera di Bergoglio del
giugno 2018, plaudiva a questo provvedimento, additandolo quasi a mo’ di
esempio, riconoscendo nello stesso «lo sforzo di un pastore e di un padre …,
consapevole del dovere di accompagnare i suoi fedeli» (cfr. Pope
personally thanks Portuguese cardinal for Amoris guidelines,
in Catholic
Herald, Jul. 13, 2018; trad. it. di S. Paciolla, Papa ringrazia
Patriarca Lisbona per Linee Guida su Amoris Laetitia, in Il
blog di Sabino Paciolla, 13.7.2018; Il cardinal-patriarca di
Lisbona dà l’esempio accompagnando le coppie in seconda unione, in Aleteia,
17.7.2018; Papa agradece Patriarca de Lisboa por documento sobre
aplicação de Amoris Laetitia, in Acidigital, 13 Ju. 2018. Per il testo, v. Pope Francis’
letter of thanks to Patriarch of Lisbon on Amoris Laetitia note,
in Actualitade Religiosa, 12 de julho de 2018. I criteri del patriarca
portoghese, dal titolo Nota para a receção do capítulo VIII da
exortação apostólica ‘Amoris Laetitia’, sono qui e
sono stati presentati il 13 febbraio scorso, v. qui; il
testo della missiva del vescovo di Roma è qui).
E
sorvoliamo sul grave vulnus aperto con la nota questione circa
la presunta anti-evangelicità della pena capitale, a cui si riferisce Mons. Bux
e che noi abbiamo richiamato qui,
evidenziando come si tratti di un insegnamento dissonante rispetto al magistero
perenne della Chiesa ed alla stessa Rivelazione. Insomma, delle dissonanze su
cui la Chiesa, prima o poi, con serena obiettività, dovrà interrogarsi per
essere ancora credibile. Auspichiamo che questa intervista possa contribuire ad
aprire questo dibattito sereno, che si estenda anche alla valutazione – come
indicato dallo stesso Mons. Bux, al quale non sfuggono le problematiche
pratiche che un’ipotetica accusa di “eresia” possa porre (sebbene in linea
teorica possa sollevarsi nei confronti di un papa) – circa la rinuncia, o pretesa
tale, di Benedetto XVI. Anzi, questo sarebbe proprio l’auspicio: che questo
profilo sia approfondito nella giusta ottica storico-giuridica valutando la
natura giuridica dell’atto e le sue conseguenze.
Monsignor Nicola Bux: “L’unità si fa nella verità”
La questione
degli abusi sessuali nella Chiesa ha un po’ messo in disparte il dibattito
su Amoris laetitia e su tutto ciò che ne era seguito
a proposito di aderenza del magistero alla retta dottrina. Ma, com’è ovvio, le
questioni sono collegate. Appare dunque il caso di riprendere il filo della
discussione e lo facciamo con uno specialista, monsignor Nicola Bux, teologo
consultore della Congregazione per le cause dei santi, dopo esserlo stato in
quella della dottrina della fede, del culto divino e dell’ufficio delle
celebrazioni pontificie.
Autore, fra
numerosi altri libri, del saggio Pietro ama e unisce. La
responsabilità del papa per la Chiesa universale (Edizioni
Studio Domenicano), monsignor Bux è appena rientrato in Italia dall’Argentina,
dove, a Buenos Aires, è stato invitato al XXI Encuentro de formacion catolica,
sul tema La liturgia, fuente y expresion de la fe.
Don Nicola, eresia e
scisma, parole che sembravano sparite dal vocabolario dei cattolici, stanno
tornando al centro di numerose analisi e osservazioni sulla situazione attuale
della Chiesa. Vogliamo fare un po’ il punto sullo status quaestionis dopo Amoris
laetitia e il successivo dibattito?
Mi sembra che
dopo la pubblicazione, avvenuta il 24 settembre 2017, della Correctio filialis de haeresibus propagatis (Correzione filiale in ragione della propagazione di eresie), e la Dichiarazione promulgata a Roma, dalla
conferenza del 7 aprile scorso, dove intervennero i cardinali Brandmüller e
Burke, l’idea che il papa stesso, mediante il suo magistero, sia incorso in
affermazioni eretiche è ormai al centro di un vasto dibattito, che di giorno in
giorno si fa sempre più appassionato. All’origine c’è l’esortazione
apostolica Amoris laetitia, nella quale,
secondo i quaranta firmatari della Correctio (saliti
nel frattempo a duecentocinquanta, senza contare le migliaia di adesioni
collegate all’iniziativa) sarebbero rintracciabili ben sette proposizioni
eretiche riguardanti il matrimonio, la vita morale e la ricezione dei
sacramenti.
È appena il
caso di notare che i problemi, almeno per quanto riguarda Amoris laetitia, si sono notevolmente aggravati e
complicati. Come noto, sono stati pubblicati sugli Acta Apostolicae Sedis la lettera di papa
Bergoglio ai vescovi argentini della regione di Buenos Aires ed i criteri
indicati da questi ultimi per l’accesso alla comunione da parte dei divorziati
passati a nuove nozze, il tutto accompagnato da un rescritto ex audientia SS.mi del cardinale segretario di
Stato, che, su approvazione del papa, considera questi due precedenti documenti
come espressione del “magistero autentico” dell’attuale papa e, quindi, come
magistero a cui prestare devoto ossequio di intelletto e volontà.
Parallelamente,
il cardinale Brandmüller, uno dei quattro porporati dei dubia (gli altri sono Burke, Meisner e Caffarra,
gli ultimi due nel frattempo scomparsi) in un articolo ha rilanciato l’idea,
che anch’io avevo manifestato, di una professione di fede da parte del papa.
A questo proposito,
don Nicola, anche alla luce delle dichiarazioni del cardinale Müller sulla
necessità di una pubblica disputatio su Amoris
laetitia e delle parole del segretario di Stato della Santa Sede, cardinale
Parolin, secondo il quale “all’interno della Chiesa è importante dialogare”, è
realistico immaginare che dal papa possa arrivare una risposta e che si possa giungere
a una sua professione di fede per dissipare dubbi e ombre?
L’unità
autentica della Chiesa si fa nella verità. La Chiesa è stata posta dal
Fondatore – Colui che ha detto: “Io sono la verità” – come “la colonna e il
fondamento della verità” (1 Tim 3, 15).
Senza la verità non sussiste l’unità, e la carità sarebbe una finzione. L’idea
che la Chiesa sia una federazione di comunità ecclesiali, un po’ come le
comunità protestanti, renderebbe difficile al papa fare una professione di fede
cattolica. Infatti, dopo i due ultimi sinodi, si sono fatte strada una fede e
una morale che potremmo definire, almeno, a due velocità: prova ne sia che in
taluni luoghi non è possibile dare la comunione ai divorziati risposati e in
altri sì. Non pochi vescovi e parroci, pertanto, si trovano in grande imbarazzo,
a causa di una situazione pastorale instabile e confusa. Stando così le cose,
mi sembra realistico pensare a un “tavolo” all’interno della Chiesa, per capire
che cosa sia cattolico e cosa non lo sia: un confronto dottrinale, dal quale
soltanto dipende la pastorale. Lo sviluppo dottrinale trae sempre giovamento
dal dibattito. L’esempio viene da Joseph Ratzinger, che prima da prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede, poi da papa ha ricevuto vari teologi
dissenzienti, confrontandosi con loro.
E se il confronto non
ci sarà?
Temo che si
approfondirà l’apostasia e si allargherà lo scisma di fatto. Proprio il
confronto razionale e caritatevole all’interno della Chiesa renderebbe
necessaria la professione di fede del papa, con abiura, evidentemente, degli
eventuali errori ed opinioni erronee dichiarate sino a quel momento, per
riaffermare la fede cattolica quale termine di paragone, regola della fede di
ogni cattolico. Tra l’altro questa situazione è diventata ancor più urgente a
seguito delle ultime novità introdotte dal papa, come quella relativa alla
definizione di “antievangelicità” della pena capitale: definizione svolta, in
maniera discutibile, mutando un articolo del Catechismo della Chiesa
Cattolica secondo una visione decisamente storicistica, e che pone una
serie di problemi. Pure di coscienza. Tanto più che i precedenti catechismi,
penso a quello Romano o Tridentino o a quello cosiddetto Maggiore
di San Pio X, insegnavano la legittimità della pena capitale e la sua piena
conformità alla Divina Rivelazione. Il catechismo tridentino addirittura
definiva la norma, che consentiva all’autorità statale di comminare ad un reo,
colpevole di gravi delitti, la giusta pena, non esclusa quella capitale, come “legge
divina”. Ed i problemi, dicevo, sono notevoli, perché o si ammette che la
Chiesa abbia insegnato la legittimità di qualcosa di anti-evangelico
praticamente da duemila anni o si deve ammettere che sia stato papa Bergoglio
ad errare, ritenendo anti-evangelico ciò che, al contrario, è conforme almeno
astrattamente alla Rivelazione. La questione è molto delicata. Ma prima o poi
dovrà porsi. E non solo per la pena capitale.
Molti si chiedono: se
il papa si sente libero di cambiare un articolo del Catechismo secondo
le mutate esigenze del popolo di Dio o la diversa sensibilità dell’uomo d’oggi,
potrà farlo anche in altri punti, ancora più rilevanti?
È un
interrogativo davvero inquietante e, del pari, una legittima preoccupazione
quella di tenere indenne il depositum fidei dalle
sensibilità contingenti della società di oggi o di domani.
Tornando alla
domanda iniziale, sarebbe necessaria una professione simile a quella che Paolo
VI fece nel 1968, al fine di riaffermare ciò che è cattolico, di fronte agli
errori e alle eresie che si erano diffuse subito dopo il concilio Vaticano II,
in specie a causa della pubblicazione del Catechismo olandese. Nel
nostro caso, però, si tratterebbe di riaffermare alcune verità sui sacramenti,
sulla morale e sulla dottrina sociale della Chiesa, e parimenti rigettare
quanto di dubbio o erroneo possa essersi diffuso, pure involontariamente, su tali
temi.
Qualcuno ha osservato
che l’iniziativa della Correctio, per quanto clamorosa, non è una
novità, perché già ai tempi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, e ancor
prima di Paolo VI, vi furono manifesti e petizioni di teologi, chierici e
laici, sia a carattere individuale sia organizzati. Si trattò di prese di
posizione di studiosi i quali, ritenendo che il Concilio Vaticano II,
attraverso l’anti-dogmatismo o lo sviluppo disomogeneo del dogma, avesse introdotto
una rottura con la Chiesa precedente, accusavano quei pontefici di centralismo
e di non apertura alle istanze della modernità. Lei trova che si tratti davvero
di un’analogia con quanto sta avvenendo oggi?
No, perché
quello era un attacco non-cattolico al magistero cattolico. In modo speculare,
altri teologi e laici, che nutrivano sospetti sul Concilio, manifestavano la
contrarietà ad ogni sana innovazione. In entrambi i casi si trattò di proteste
e non di correzione. Ora i primi, collocati nei posti chiave dell’establishment
ecclesiastico, tacciono o conducono una difesa d’ufficio, senza mai entrare nel
merito delle eresie che vengono contestate, in particolare, all’esortazione
apostolica Amoris laetitia. Occorre ricordare
che San Pio X, nell’enciclica Pascendi, avverte
che non confessare mai chiaramente la propria eresia, è il comportamento tipico
dei modernisti, perché in tal modo possono occultarsi all’interno della Chiesa.
Ma perché secondo lei
sarebbe auspicabile una professione di fede? E se il papa, come tutto lascia pensare,
non la farà, che cosa potrebbe succedere?
Nel Decreto di
Graziano (pars I, dist. 40, cap.VI) vi è questo canone: “Nessun mortale avrà la
presunzione di parlare di colpa del papa, poiché, incaricato di giudicare
tutti, egli non dev’essere giudicato da alcuno, a meno che non devii dalla fede”.
L’allontanamento e la deviazione dalla fede si chiama eresia, parola che viene dal greco “airesis” e vuol dire scelta e assolutizzazione di
una verità, minimizzando o negando le altre che sono nel novero delle verità
cattoliche (ricordo a questo proposito che von Balthasar scrisse un saggio
intitolato “La verità è sinfonica”). Ovviamente la deviazione
deve essere manifesta e pubblica. E in caso di eresia manifesta, secondo
san Roberto Bellarmino, il papa può essere giudicato. Ricordo che Bellarmino fu
anche prefetto del Sant’Uffizio, figura che ha proprio la funzione di
sorvegliare sul rispetto dell’ortodossia della fede da parte di tutti, compreso
il papa, il quale peraltro è il primo a dover svolgere tale funzione di
controllo. Il papa è chiamato dal Signore a diffondere la fede cattolica, ma
per farlo deve dimostrarsi capace di difenderla. Gli ortodossi – i cristiani d’Oriente
separati da Roma – si chiamano così proprio perché hanno sottolineato il
primato della vera fede quale condizione della vera Chiesa. Altrimenti la
Chiesa cessa di essere colonna e fondamento della verità. Di conseguenza, chi
non difende la vera fede decade da ogni incarico ecclesiastico, patriarcale,
eparchiale eccetera.
Scusi don Nicola, sta
dicendo che in caso di eresia, proprio come un cristiano eretico cessa di
essere membro della Chiesa, anche il papa cessa di essere papa e capo del corpo
ecclesiale, e perde ogni giurisdizione?
Sì, l’eresia
intacca la fede e la condizione di membro della Chiesa, che sono la radice e il
fondamento della giurisdizione. Questo è il pensiero dei padri della Chiesa, in
specie di Cipriano, che ebbe a che fare con Novaziano, antipapa durante il
pontificato di papa Cornelio (cfr Lib. 4, ep. 2). Ogni
fedele, compreso il papa, con l’eresia si separa dall’unità della Chiesa. È
noto che il papa è nello stesso tempo membro e parte della Chiesa, perché la
gerarchia è all’interno e non sopra la Chiesa, come affermato in Lumen gentium (n. 18). Di
fronte a questa eventualità, così grave per la fede, alcuni cardinali, o anche
il clero romano o il sinodo romano, potrebbero ammonire il papa con la
correzione fraterna, potrebbero “resistergli in faccia” come fece Paolo con
Pietro ad Antiochia; potrebbero confutarlo e, se necessario, interpellarlo al
fine di spingerlo a ravvedersi. In caso di pertinacia del papa nell’errore,
bisogna prendere le distanze da lui, in conformità con ciò che dice l’Apostolo
(cfr. Tito 3,10-11). Inoltre la sua eresia e la sua
contumacia andrebbero dichiarate pubblicamente, perché egli non provochi danno
agli altri e tutti possano premunirsi. Nel momento in cui l’eresia fosse
notoria e resa pubblica, il papa perderebbe ipso facto il
pontificato. Per la teologia e il diritto canonico, pertinace è l’eretico che
mette in dubbio una verità di fede coscientemente e volontariamente, cioè con
la piena coscienza che tale verità sia un dogma e con la piena adesione della
volontà.
Ricordo che si
può avere ostinazione o pertinacia in un peccato d’eresia commesso anche solo
per debolezza. Inoltre, se il papa non volesse mantenere l’unione e la
comunione con l’intero corpo della Chiesa, come quando tentasse di scomunicare
tutta la Chiesa o di sovvertire i riti liturgici fondati sulla tradizione
apostolica, potrebbe essere scismatico. Se il papa non si comporta da papa e
capo della Chiesa, né la Chiesa è in lui né lui è nella Chiesa. Disobbedendo
alla legge di Cristo, oppure ordinando ciò che è contrario al diritto naturale
o divino, ciò che è stato ordinato universalmente dai concili o dalla Sede
apostolica, il papa si separa da Cristo, che è il capo principale della Chiesa
e in rapporto al quale si costituisce l’unità ecclesiale. Papa Innocenzo III
dice che si deve obbedire al papa in tutto, fino a che egli non si rivolti
contro l’ordine universale della Chiesa: in tal caso, a meno che non sussista
una ragionevole causa, non va seguito, perché, comportandosi così, non è più
soggetto a Cristo e quindi si separa dal corpo della Chiesa. Non nascondo,
però, che quanto indicato, sebbene sia limpido e liscio nella teoria, nella
pratica incontra non poche difficoltà; inconvenienti anche di carattere
canonistico».
Ammettiamo, comunque,
che si possa arrivare a un tal punto. Quali le conseguenze per la fede e per la
Chiesa?
Chi vuol essere
papa non può rinnegare la verità cattolica, anzi, deve aderirvi in toto se
vuole rivendicare l’autorità magisteriale. Vale infatti ciò che Ratzinger
scriveva anni fa, sottolineando che il papa non può “imporre una propria opinione”,
ma deve “richiamare proprio il fatto che la Chiesa non può fare ciò che vuole e
che anch’egli, anzi proprio lui, non ha facoltà di farlo”, perché “in materia
di fede e di sacramenti, come circa i problemi fondamentali della morale”, la
Chiesa può solo “acconsentire alla volontà di Cristo”. Nel caso di opposizione
tra il testo di un documento pontificio e altre testimonianze della Tradizione,
è lecito a un fedele istruito, e che abbia accuratamente studiato la questione,
sospendere o negare il suo assenso al documento stesso. Nel caso di Amoris laetitia c’è chi ha dimostrato che il
documento è farraginoso e contraddittorio in non pochi punti, e le citazioni di
san Tommaso sono apposte a proposizioni che sostengono cose contrarie al
pensiero dell’Angelico. Si comprende, quindi, quanto ebbe a scrivere Joseph
Ratzinger: “Al contrario, sarà possibile e necessaria una critica a pronunciamenti
papali, nella misura in cui manca a essi la copertura nella Scrittura e nel
Credo, nella fede della Chiesa universale. Dove non esiste né l’unanimità della
Chiesa universale né una chiara testimonianza delle fonti, là non è possibile
una decisione impegnante e vincolante; se essa avvenisse formalmente, le
mancherebbero le condizioni indispensabili e si dovrebbe perciò sollevare il
problema circa la sua legittimità” (Joseph Ratzinger, Fede, ragione, verità e amore, Lindau, 2009, p. 400).
In breve, se il papa non custodisce la dottrina, non può esigere la disciplina;
se poi perdesse la fede cattolica, decadrebbe dalla Sede apostolica. “Il potere
delle chiavi di Pietro non si estende fino al punto che il Sommo Pontefice
possa dichiarare ‘non peccato’ quello che è peccato, oppure ‘peccato’ quello
che non è peccato. Ciò sarebbe, infatti, chiamare male il bene, e bene il male,
la qualcosa è, sempre è stata e sarà lontanissima da colui che è il Capo della
Chiesa, colonna e fondamento della verità” (cfr. Roberto Bellarmino, De Romano Pontifice, lib. IV cap. VI, p. 214, e
anche Lumen gentium, n. 25). Di conseguenza il papa che,
quale persona privata, si identificasse con l’eresia, non sarebbe più Sommo
Pontefice o Vicario di Cristo sulla terra.
Lei stesso, però, ha
detto che ci sono difficoltà pratiche non di poco conto…
Per un papa, in
effetti, vige una sorta di immunità da giurisdizione. Per cui, sebbene in
teoria si dica che i cardinali possono accertare la sua eresia, certamente
nella pratica la cosa diventerebbe difficoltosa, a causa del fondamentale
principio Prima sedes a nemine iudicatur,
ripreso dal can. 1404 c.i.c. Nessuna chiesa, in quanto figlia, può giudicare la
madre, cioè la Sede apostolica. Ancor meno alcuna pecora del gregge può ergersi
a giudicare il proprio pastore. Se guardiamo come è stato applicato questo
principio nella storia della Chiesa, e del papato in particolare, notiamo che anche
in caso di accusa di eresia, o addirittura vera e propria apostasia del papa,
tutto si è concluso con un nulla di fatto. Faccio un paio di esempi. Il primo
che mi viene in mente è quello del papa Marcellino. Questi, secondo le fonti
antiche, in special modo il Liber Pontificalis,
dinanzi alla grande persecuzione dioclezianea del IV secolo d.C., avrebbe
ceduto ed avrebbe offerto incenso agli idoli, avrebbe cioè apostatato, sebbene
ciò non sarebbe del tutto storicamente certo (per esempio, alcuni autori e
storici della Chiesa antica, come Eusebio di Cesarea e Teodoreto di Ciro,
negano questa circostanza, affermando che questo papa rifulse, invece, durante
la Grande persecuzione). A seguito di ciò, sarebbe stato convocato un sinodo a
Sinuessa, località tra Roma e Capua, nei pressi dell’attuale Mondragone, nel
303 con lo scopo di accertare e dichiarare l’apostasia del papa. Ora, è vero
che gli atti di questo sinodo sono considerati apocrifi e risalenti al VI
secolo, tuttavia è indubbio che da essi emerge il chiaro rifiuto dei sinodali
di accertare e condannare Marcellino per il suo atto di apostasia. Anzi, i
sinodali chiedono allo stesso papa di giudicare il suo gesto ed auto-comminarsi
la giusta punizione, riconoscendo nei confronti del papa una sorta di immunità
da giurisdizione, proprio per quel principio che ho sopra detto e cioè che la
Prima Sede non può essere giudicata da nessuno. Per la cronaca, Marcellino,
comunque, pare si pentì del gesto, testimoniò la sua fede e morì martire. Per
questo è venerato come papa e martire il 26 aprile.
Il secondo caso
è quello di papa san Leone III e del suo famoso giuramento, rappresentato da
Raffaello in un celebre affresco della Stanza dell’incendio di Borgo nelle
celebri Stanze del Palazzo apostolico. Vi compare il papa Leone III in abiti
pontificali, che presta il suo giuramento sui Vangeli, dinanzi a Carlo Magno ed
ad una folla di dignitari, laici ed ecclesiastici, ed al popolo di Dio, il 23
dicembre dell’anno 800, nella Basilica di San Pietro. Il papa era accusato – sebbene
le fonti antiche non siano molto precise al riguardo – di spergiuro ed
adulterio (non si sa con chi) da parte dei nipoti del predecessore, papa
Adriano I. Venuto a Roma Carlo Magno per mettere ordine tra coloro che
appoggiavano il papa e gli oppositori, il papa, liberamente, “senza essere
giudicato e corretto da nessuno, spontaneamente e volontariamente”, si purificò
dinanzi a Dio delle colpe, dichiarando e professando la sua innocenza dalle
accuse mossegli. Il papa concluse: “Questo dichiaro spontaneamente per eliminare
ogni sospetto: non già che ciò sia prescritto dai canoni, neppure che così io
voglia creare un precedente ed imporre un tale uso nella santa Chiesa ai miei
successori ed ai miei confratelli nell’episcopato”.
Nel dipinto di
Raffaello compare una scritta: Dei non hominum est episcopos
iudicare, cioè: Tocca a Dio, non agli uomini
giudicare i vescovi. Si tratta di un’allusione alla conferma, data
nel 1516 dal Concilio Lateranense V, della bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, in cui si
sanzionava il principio secondo il quale la responsabilità del pontefice è
giudicabile solo da Dio.
Insomma, tante
difficoltà pratiche…
Un’ulteriore
difficoltà è, poi, nell’individuazione degli esatti contorni di un’eresia.
Guardi, a differenza del passato, la teologia non è più affidabile, ma è
diventata una sorta di arena nella quale converge tutto ed il suo contrario.
Per cui, affermata una verità, vi sarà sempre qualcuno disposto a difendere l’esatto
contrario. Come vede, ci sono non poche difficoltà pratiche, teologiche e
giuridiche alla questione del giudizio del papa eretico. Forse – e lo dico
proprio da un punto di vista pratico – sarebbe più agevole esaminare e studiare
più accuratamente la questione relativa alla validità giuridica della rinuncia
di papa Benedetto XVI, se cioè essa sia piena o parziale (“a metà”, come
qualcuno ha detto) o dubbia, giacché l’idea di una sorta di papato collegiale
mi sembra decisamente contro il dettato evangelico. Gesù non disse, infatti, “tibi dabo claves …” rivolgendosi a Pietro e ad
Andrea, ma lo disse solo a Pietro! Ecco perché dico che, forse, uno studio
approfondito sulla rinuncia potrebbe essere più utile e proficuo, nonché aiutare
a superare problemi che oggi ci sembrano insormontabili. È stato scritto: “Giungerà
anche un tempo delle prove più difficili per la Chiesa. Cardinali si opporranno
a cardinali e vescovi a vescovi. Satana si metterà in mezzo a loro. Anche a
Roma ci saranno grandi cambiamenti” (Saverio Gaeta, Fatima, tutta la verità, 2017, p. 129). E questo grande
cambiamento, con papa Francesco, lo possiamo vedere in maniera palpabile,
stante la chiara intenzione di segnare una linea di discontinuità o rottura con
i precedenti pontificati. Questa discontinuità – una rivoluzione – genera
eresie, scismi e controversie di varia natura. Tutte, però, possono ricondursi
al peccato. E questo lo constatava già Origene: “Dove c’è il peccato, lì
troviamo la molteplicità, lì gli scismi, lì le eresie, lì le controversie.
Dove, invece, regna la virtù, lì c’è unità, lì comunione, grazie alle quali
tutti i credenti erano un cuor solo e un’anima sola” (In Ezechielem homilia, 9,1, in Sources Chrétiennes 352, p. 296).
Anche la liturgia ha
risentito di tutto ciò, e lei lo ha scritto più volte nei suoi libri…
Esatto. Si
celebra come se Dio non fosse presente, un’animazione mondana. Ma qui ci
confortano le parole che sant’Atanasio di Alessandria rivolgeva ai cristiani
che soffrivano sotto gli ariani: “Voi rimanete al di fuori dei luoghi di culto,
ma la fede abita in voi. Vediamo: che cosa è più importante, il luogo o la
fede? La vera fede, ovviamente. Chi ha perso e chi ha vinto in questa lotta,
chi mantiene la sede o chi osserva la fede? È vero, gli edifici sono buoni,
quando vi è predicata la fede apostolica; essi sono santi, se tutto vi si
svolge in modo santo… Voi siete quelli che sono felici, voi che rimanete dentro
la Chiesa per la vostra fede, che la mantenete salda nei fondamenti come sono
giunti fino a voi dalla tradizione apostolica, e se qualche esecrabile
gelosamente cerca di scuoterla in varie occasioni, non ha successo. Essi sono
quelli che si sono staccati da essa nella crisi attuale. Nessuno, mai, prevarrà
contro la vostra fede, amati fratelli, e noi crediamo che Dio ci farà
restituire un giorno le nostre chiese. Quanto più i violenti cercano di
occupare i luoghi di culto, tanto più essi si separano dalla Chiesa. Essi
sostengono che rappresentano la Chiesa, ma in realtà sono quelli che sono a
loro volta espulsi da essa e vanno fuori strada” (Coll. Selecta SS. Eccl. Patrum.
Caillu e Guillou, vol. 32, pp. 411-412). Preghiamo, però, che la
Divina Provvidenza intervenga a favore della Chiesa, affinché non accada che
possiamo trovarci dinanzi all’eventualità che ho descritto; lo auspicava, a
meno di un mese dalla rinuncia di Benedetto XVI, anche l’insigne canonista
gesuita padre Gianfranco Ghirlanda, al termine di un importante articolo (La Civiltà Cattolica, 2 marzo 2013).
In conclusione,
possiamo dire che l’eresia non consiste solo nel diffondere dottrine false, ma
anche nel tacere la verità sulla dottrina e sulla morale?
Certamente sì.
Se a qualcuno desse fastidio il termine dottrina, usi il termine insegnamento,
perché entrambi sono la traduzione del greco didachè. Dove manca
la dottrina, vi sono problemi morali, come stiamo vedendo! Quando il papa e i
vescovi fanno questo, utilizzano il loro ufficio per distruggerlo. Dice sant’Agostino:
pascono se stessi, cercano i propri interessi, non già gli interessi di Gesù
Cristo, proclamano la sua parola ma per diffondere le loro idee. Il nome di
Gesù Cristo, diceva il cardinale Biffi, è diventato una scusa per parlare d’altro:
migrazioni, ecologia eccetera. Così non siamo più unanimi nel parlare (1 Cor
1,10) e la Chiesa è divisa.
A proposito, si
evitino ulteriori modifiche ai testi del messale romano in lingua italiana, in
specie al Padre Nostro, perché produrrebbero
ulteriori divisioni tra i fedeli.
A cura di Aldo Maria
Valli
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