Il 18 dicembre è la Festa dell’Aspettazione
del Parto della Vergine Maria, stabilita per la chiesa di Toledo dal papa
S. Martino I con proprio decreto, il quale così intendeva stabilizzare una
ricorrenza celebrata in quella chiesa locale da tempo immemorabile (v. L’Aspettazione
della Santa Vergine. Un’antica tradizione di Toledo per contemplare i Desideri
di Maria negli ultimi otto giorni di Avvento, in Vigiliae Alexandrinae, 18.12.2014,
nonché in Radiospada, 20.12.2014):
Virgo
Dei Genitrix,
Quem
totus non capit orbis,
in
tua se clausit viscera factus Homo,
canta la liturgia in un celebre inno.
Parimenti in questo giorno l’Antifona maggiore
che si canta, durante i Vespri, al Magnificat ed al versetto alleluiatico del
Vangelo è la II: O Adonai.
In questo giorno, pertanto, proseguendo la
lettura della Sacrosanctum Concilium
del Concilio Vaticano II, pubblichiamo un breve commento ai capp. I e II della
Costituzione del nostro amico "Nicola Canali".
Commento ai capitoli I e II della Costituzione «Sacrosanctum
Concilium
di Nicola Canali
L’importanza dei capitoli I e II della Costituzione sulla Sacra Liturgia
del Concilio Ecumenico Vaticano II è facilmente desumibile dai titoli:
“Principi generali per la riforma e l’incremento della sacra liturgia” e “Il
mistero eucaristico”. Essi, infatti, rappresentano la base teologico-dottrinale
di tutto il documento.
La prima parte del I capitolo dopo aver ricordato che il Signore Gesù
Cristo ha inviato gli Apostoli «perché attuassero, per mezzo del Sacrificio e
dei Sacramenti, sui quali s’impernia tutta la vita liturgica, l’opera della
salvezza che annunciavano» (SC 6), richiamando la Mediator Dei del
Venerabile Pio XII, asserisce che «la
Liturgia è ritenuta come l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo; in essa,
per mezzo di segni sensibili, viene significata e, in modo ad essi proprio,
realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal Corpo Mistico di
Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale»
(SC 7c).
Orbene, la liturgia terrena imita quella celeste e la distanza dal
prototipo obbliga la Chiesa al rinnovamento di sé stessa. Per tale ragione i
principi ispiratori della riforma, contenuti in questi primi numeri della
Costituzione, desiderano far risaltare la natura e l’importanza della liturgia
cattolica, il cui fine è la gloria e l’adorazione del Signore. Essa è il
“luogo” dell’incontro con le tre Persone divine, è l’incontro di Cristo
con noi: la preghiera che egli, unito al corpo ecclesiale, rivolge al Padre è
la voce della Sposa; soprattutto «è l’opera
della redenzione» (SC 2), atto del pellegrinaggio terreno (SC 8).
Alla luce di tali premesse non può suonare strano il puntuale avvertimento
secondo il quale «prima che gli uomini
possano accostarsi alla Liturgia, bisogna che siano chiamati alla fede e si convertano»
(SC 9).
Capiamo da questi tratti essenziali che la liturgia non può replicare le
mode del mondo, perché è una novità assoluta: il culto cristiano è Cristo nella
sua divino-umanità, che ha introdotto nel mondo l’inno di lode al Padre. Perciò
in essa Egli è presente (SC 7a): lo Spirito rende possibile il suo sacrificio,
in quanto Egli, risorto, è entrato nel tempo una volta per sempre. Come dice la
liturgia bizantina Egli è «l’offerente e
l’offerto, il recipiente e il dono», perché «niente nel suo essere o agire è passato per sempre, eccetto le modalità
storiche della sua manifestazione».
La memoria di Cristo si fa ogni domenica e ogni giorno dell’anno, sicché
la liturgia «non è una rappresentazione
fredda e priva di vita degli eventi del passato o un semplice e vuoto ricordo
di un tempo passato. Ma piuttosto Cristo stesso sempre vivente nella sua Chiesa».
É questo l’esercizio del suo sacerdozio, grazie allo Spirito che espande l’energia
divina, la grazia (SC 10b); così la presenza di Cristo cambia nel suo essere l’uomo,
toccando e santificando tutti i momenti della vita, unendo gli uomini e
proponendo la Chiesa quale segno di salvezza che raccoglie i dispersi (SC 2).
Adesso si può comprende meglio perché la liturgia viene definita «il culmine verso cui tende l’azione della
Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù» (SC 10a).
La seconda parte del I capitolo è invece dedicata alla formazione
liturgica dei presbiteri e dei laici. Essa viene raccomandata al fine di
favorire una partecipazione consapevole dell’intero corpo ecclesiale al mistero
celebrato. Sembra superfluo evidenziare come, a distanza di parecchi decenni,
la formazione dei chierici, e di conseguenza quella dei laici, non appaia per
nulla migliorata né approfondita, ma anzi sembra che, sia nei luoghi di
formazione al presbiterato, sia nell’ambito della catechesi e della
predicazione il richiamo del documento conciliare sia stato sistematicamente
disatteso. In particolare, una volta scemato il fervore dei primi anni della riforma
liturgica, la maggior parte dei veri contributi scientifici, al netto di quelli
erronei o fantasiosi, sono apparsi ripetitivi ed incapaci di toccare il cuore
della questione.
La terza parte del I capitolo, infine, si occupa della riforma della
Sacra Liturgia. Essa è la più corposa e probabilmente la più controversa della
sezione.
In essa viene subito chiarito che la Liturgia «consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di
parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o anche
devono variare, qualora in esse si fossero insinuati elementi meno rispondenti
alla intima natura della stessa Liturgia, o si fossero resi meno opportuni»
(SC 21). Tuttavia, dopo aver enunciato questo importante principio, nel
prosieguo delle norme circa la riforma, si riscontra una tensione fra la
salvaguardia della sacralità e solennità della Liturgia da un lato, e la
preoccupazione di rendere il rito più “comprensibile” e di più facile fruizione
dall’altro, che si è rivelata, in alcuni casi, fonte di ambiguità ed ha
prestato il fianco ad interpretazioni ed applicazioni estreme e discutibili.
Infatti, appare difficile conciliare l’affermazione «non si introducano innovazioni se non quando
lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che
le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già
esistenti» (SC 23a) con quanto è stato operato in fase di attuazione della
riforma stessa. Il non individuare i criteri dell’utilità menzionata e l’espressione
“in qualche maniera” sono elementi, se si vuole anche piccoli, che evidenziano
un nuovo modo di procedere ed un uso problematico del linguaggio, che pervade
la quasi totalità dei documenti del concilio. La mancanza di organicità e la
non utilità di alcune modifiche od introduzioni, insieme alla carenza dell’accurata
investigazione teologica, storica e pastorale prevista dalla medesima
costituzione quale condizione imprescindibile per i mutamenti (SC 23a), è stata
evidenziata da diversi studiosi quali Bouyer, Jungmann, Ratzinger, Gherardini.
Ecco un esempio di ambiguità e scarsa chiarezza: se nel n. 34 la
costituzione liturgica raccomanda che i riti «non abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni», in quello
successivo si legge che nei riti «siano
previste quando necessario, brevi didascalie da farsi con formule prestabilite
o simili, dal sacerdote o dal ministro competente, ma solo nei momenti più
opportuni» (SC 35). Orbene, è possibile riscontrare come, sia il nuovo
messale, sia la prassi liturgica odierna, abbia quasi completamente disatteso
la prima raccomandazione ed esasperato la seconda, fino a giungere a liturgie
dove l’eloquenza dei segni è subissata da una colluvie di parole e didascalie
che impediscono ai primi di parlare al cuore del fedele. Senza dimenticare che
un tale atteggiamento è figlio di quel razionalismo illuminista che ha tentato
per svariati secoli di penetrare anche nella Liturgia, trovando sempre la ferma
opposizione della Sede Apostolica, e che si caratterizza per un uso del
concetto di “comprensione” non adatto alla realtà che la Santa Messa è.
Infatti, in questo ambito, comprendere non vuol dire rendersi maestri, ma
lasciarsi coinvolgere dalla Liturgia. Non sarà mai totalmente possibile capire
la Liturgia, non solo perché essa è il mistero di Cristo, ma perché è essa che
comprende noi. È il cuore che deve intelligere e ciò è molto più
profondo del capire nozioni, riti e simboli nei loro aspetti biblici o
antropologici e così via. Oltre all’intelligenza ed al cuore, per entrare in
essa ci vuole anche l’immaginazione, la memoria, e tutti i cinque sensi. Più
che di spiegazione la Liturgia ha bisogno d’essere vissuta con la fede.
Un altro aspetto problematico è senza dubbio rappresentato dalla
questione degli adattamenti. Appare subito chiaro che la preoccupazione dell’assise
conciliare è rivolta alle terre di missione ed alle aree geografiche
provenienti da culture spirituali profondamente diverse da quella europea,
intimamente segnata e plasmata dal cristianesimo. Tuttavia la stessa
“sostanziale unità” del rito romano, di cui il documento più volte impone la
salvaguardia, sembra esposta ad una progressiva e lenta erosione dalla
possibilità di introdurre adattamenti non solo in grandi aree, ma anche in aree
più piccole facenti parte delle prime; sebbene non si comprenda quale reale e
necessaria utilità spirituale o pastorale possa richiedere una così ampia
diversificazione nell’ambito di quello che è e rimane, è bene ricordarlo, il
culto pubblico ed integrale della Chiesa. Per completezza, però, occorre
segnalare come la costituzione vieti l’introduzione di variazioni o pratiche
che non siano confacenti alla natura stessa della Liturgia, cosa, purtroppo,
che si è ampiamente verificata e non propriamente in territori di missione.
Un ultimo interessante aspetto da segnalare per quanto concerne questo I
capitolo è il richiamo reiterato al rispetto ed alla corretta applicazione del
diritto e delle norme liturgiche. Basti ricordare il n. 28 che recita: «Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno,
ministro o semplice fedele, svolgendo il proprio ufficio, si limiti a compiere
tutto e soltanto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è
di sua competenza».
Per quanto concerne il II capitolo, invece, esso è interamente dedicato
alla riforma dell’ordinamento della Messa ed alla semplificazione dei riti.
Senza entrare troppo nel merito della questione, si può evidenziare che le
varie indicazioni offerte dalla costituzione risentono della tensione
dualistica evidenziata in precedenza, di una non sempre adeguata idea di
partecipazione, che influirà profondamente nelle scelte operate in sede di
attuazione della riforma e di alcune importanti imprecisioni storico pratiche,
come nel caso della concelebrazione. Importante ed apprezzabile è la
sottolineatura dello stretto rapporto tra Liturgia e Sacra Scrittura ed il
richiamo ad una maggiore presenza non solo quantitativa della seconda nella
prima.
A conclusione di questa breve riflessione sembra
opportuno evidenziare come la natura della Liturgia venga correttamente e
chiaramente espressa dalla costituzione liturgica, facendo riferimento sia alla
Tradizione, sia al Magistero precedente. Ciò che appare problematico, invece,
sono alcune linee guida e determinati principi per l’attuazione della riforma,
in quanto strettamente legati ad un particolare modo di intendere la
partecipazione attiva dei fedeli, che appare una preoccupazione preponderante
ed a tratti eccessivamente considerata. Inoltre, guardando al nuovo Messale,
che dovrebbe essere il frutto dell’attuazione della riforma liturgica voluta
dal concilio, non si può non notare come vi siano delle incongruenze e come
esso abbia disatteso alcune indicazioni della costituzione liturgica; basterà
qui ricordare quelle riguardanti la lingua latina, da conservare nella
celebrazione, ed il gregoriano, definito canto proprio della liturgia romana.
Nessun commento:
Posta un commento