In questo
giorno l’Antifona maggiore che si canta, durante i Vespri, al Magnificat ed al
versetto alleluiatico del Vangelo è la III: O Radix Jesse.
Proseguiamo la lettura della Sacrosanctum Concilium, pubblicando il
commento al suo cap. III di don Matteo de Meo.
Commento al capitolo III della Costituzione Sacrosanctum Concilium
di Don Matteo De Meo
«La mia breve
riflessione critica sulla Costituzione Liturgica Sacrosanctum Concilium parte da una domanda di fondo: nel parlare
di crisi postconciliare, di riforma liturgica ambiguamente applicata, di deriva
liturgica, ecc., si deve o no chiamare in causa anche il Concilio?
Negli studi e negli esami critici del
Vaticano II, rifioriti con un certo vigore nel seppur breve pontificato di
Benedetto XVI, emerge in maniera inequivocabile che un “postconcilio”
evidentemente presuppone un Concilio con i suoi contenuti.
Mi riferisco in particolar modo a tutti
quegli autori che fanno esplicitamente riferimento a Mons. Gherardini, i quali
affermano che la riforma liturgica così come è stata, ed è ancor oggi
applicata, presuppone una certa qual ambiguità presente negli stessi contenuti
della Costituzione Sacrosanctum Concilium.
Questa ha sì riaffermato concetti tradizionali, tuttavia «i neomodernisti
disseminarono il testo di passaggi che permettevano di leggerlo e applicarlo in
chiave eversiva» (cfr.
B. Gherardini, Il Vaticano II. Alle radici d’un equivoco,
Lindau, Torino 2012; Id., Contrappunto conciliare, Lindau, Torino
2013).
Non sono poche, infatti, quelle parti che nel
documento sono suscettibili a diverse interpretazioni, a volte anche opposte
fra di loro. Tutto ciò ha reso possibili numerosi cambiamenti e discutibili
innovazioni. Per fare solo qualche esempio più evidente: pur riaffermando la
centralità dell’uso liturgico del latino, che resta la lingua ufficiale della
Chiesa, si è nello stesso tempo ammesso la possibilità di numerose eccezioni a
favore della lingua volgare (Sacrosanctum
Concilium 36 §2); e come il principio stesso dell’innovazione liturgica vi
sia in realtà ammesso in modo abbastanza facile, all’art. 21.
Credo che proprio alla Sacrosanctum Concilium (art. 22 §2 e art. 40) si deve la diffusione
del principio della “creatività” in liturgia, sotto forma iniziale di
“esperimenti” da approvarsi con la dovuta cautela, si capisce, e sotto il controllo
formale della Santa Sede; controllo ridottosi spesso nei fatti alla semplice
presa d’atto. Non dimentichiamoci che lo schema approvato della Sacrosanctum Concilium fu con forza
criticato dal cardinal Ottaviani e da tutti i più autorevoli rappresentanti
della Curia. In esso si nota subito la tendenza a favore del cambiamento e
della semplificazione dei riti (artt. 35, 50.2, 117.2), di renderli «più
facili», «più
comprensibili», «più
chiari» all’uomo del
nostro tempo (artt. 21.2, 34, 59.2, 72, 77.1, 79.1, 90.2, 92). Un’esigenza che
non venne mai presa in considerazione nel precedente Magistero, che aveva come
caposaldo la difesa e la custodia dell’immutabilità del rito, inevitabile
riflesso dell’immutabilità del dogma. Dobbiamo prendere atto che con questo
metodo, pur affermando la necessità del latino come lingua ufficiale della
Chiesa e della sua liturgia e, quindi, del suo mantenimento e della sua
custodia, si è di fatto messo in atto un sistema per usare maggiormente la
lingua volgare, sotto l’egida del principio della sperimentazione (artt. 63,
65, 76, 77, 78, 101, 113).
Ma proseguiamo dando una lettura sintetica di
questo III capitolo, evidenziando solo alcuni passaggi “ambigui” in modo da
poter suscitare un ulteriore desiderio di approfondimento del testo stesso.
I primi articoli scorrono senza problemi di
sorta, ma già nei numeri 62 e 63 si affacciano le prime ambiguità là dove si impone di adeguare “alle esigenze del nostro
tempo” e “alla necessità delle singole regioni” i rituali. In questo modo non
si è favorito di fatto la disgregazione di quell’unità formale del rito che
aveva da sempre garantito l’universalità, ovvero la cattolicità della Chiesa? Si
è demandato, inoltre, alle autorità ecclesiastiche particolari la competenza di
revisione e di giudizio pur rivendicando il diritto di revisione alla Sede
Apostolica. In questo modo di fatto si è messo in moto quel meccanismo per cui
oggi ogni diocesi si fa la sua liturgia, senza mettere in conto gli
innumerevoli abusi liturgici che oramai imperversano nelle parrocchie.
Se una certa restaurazione del catecumenato
può anche essere positiva, chiediamoci - dato che si vuol sempre far
riferimento alla Chiesa delle origini - perché nell’art. 64 non si è nemmeno
accennato all’antica distinzione tra Messa
dei catecumeni (letture ed omelia), alla fine della quale veniva
pronunciato “l’extra omnes”, cioè “fuori tutti i non battezzati”, e Messa dei fedeli (S. Sacrificio e
Comunione), riservata a coloro, che erano stati rigenerati nel fonte
battesimale?
L’art. 65 apre un varco all’inserimento nel
rito cattolico di «elementi dell’iniziazione
(a cosa?) in uso presso ogni popolo».
Un’opera che secondo i più autorevoli rappresentanti della missio ad gentes (come per esempio il compianto Piero Gheddo, venuto
a mancare giusto un anno fa) «ha
limitato quell’opera di civilizzazione di cui sono stati da sempre fautori i
missionari in terre pagane, impedendo ai popoli nelle terre di missione di
crescere».
Nell’art. 67 non si capisce che cosa nel
vecchio rito del battesimo dei bambini non fosse adatto «alla
loro reale condizione». Inoltre, si
evince dal nuovo rituale una eliminazione della dimensione trascendente e
sacrale a favore di una dimensione antropologica e sociale...!!!
Il nuovo battesimo di un bambino o di un
adulto (non cattolici) già battezzati, di cui all’art. 69, era in maniera ottimale regolato
dal battesimo sub conditione, cioè
nel caso che il primo fosse stato valido, cosa possibile, perché chiunque può
battezzare facendo “quello che vuole la Chiesa”, il secondo sarebbe stato
nullo. C’era una reale esigenza di inventarsi nuovi rituali?
Negli articoli dal 71 all’80 si chiede di
riformare un po’ tutti i riti: dalla Cresima all’estrema unzione, dall’ordinazione
al matrimonio, dai sacramentali alla professione religiosa: è evidente una
certa volontà di cambiamento tout court
di tutti gli antichi riti e le antiche tradizioni! È palese l’intenzione di far
piazza pulita di secoli di storia e tradizioni, ritenute impropriamente
incomprensibili dai fedeli. Invece, con molta facilità, si sorvola nel caso di
conversione di un adulto sulla necessità dell’abiura, che confermava la sincerità e la consapevolezza della
scelta compiuta.
L’art. 81, poi, in maniera molto concisa e
lapidaria, elimina del tutto la dimensione del lutto dal rito funebre, che
nella liturgia antica – a torto ritenuta non più adatta ai tempi moderni – è
ricco di significati: esprime, con il colore
nero dei paramenti e l’assenza di
benedizioni, il lutto ed invita a pregare per le anime dei defunti. Il rito
scaturito dalla riforma, invece, con gli alleluia
e le benedizioni come nelle messe per
i vivi, ha perso questa caratteristica. Inoltre il colore viola non indica il lutto, ma la penitenza, per la quale il
defunto è oramai fuori tempo massimo: ben pochi, dopo il funerale, visto “che è
già in Paradiso”, pregheranno per la sua povera anima.
In conclusione, Sacrosanctum
Concilium stabilisce all’art. 4 che i riti esistenti
vadano conservati e in ogni modo favoriti e che «dove
sia necessario, essi siano riveduti con cautela nell’integrità e nello spirito
della sana tradizione». Il Concilio,
quindi, raccomanda cautela, prudenza, rispetto della tradizione per ogni
innovazione che si rendesse necessaria. Ma nello stesso tempo dissemina il
documento di varchi che permettono il contrario.
Si veda ad esempio l’art. 14, in cui si dice
che i fedeli devono essere condotti ad una piena,
conscia ed attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche. Ora, questa actuosa participatio (attiva
partecipazione) è ricorrente anche nel Magistero anteriore. Che cosa
intendevano, allora, i Padri conciliari raccomandando l’actuosa participatio? Il documento citato prosegue col dire che, «al
fine di conseguire quella piena, conscia e attiva partecipazione, i pastori d’anime
devono tendere con zelo a tale effetto per mezzo della necessaria educazione
del popolo dei fedeli». Una
raccomandazione che sarebbe superflua, se si fosse pensato ad una riforma della
liturgia come poi avvenne di fatto, in cui il linguaggio è quello quotidiano e
la musica ancor più ordinaria. Tanto meno la partecipazione attiva deve
necessariamente consistere in una... attività. Come ha chiarito molto bene, tra
gli altri, Giovanni Paolo II, «la
partecipazione attiva non preclude la attiva passività [bellissimo ossimoro, N.d.A.] del silenzio, della compostezza
e dell’ascolto: anzi, la richiede perfino. I fedeli non sono passivi, ad
esempio, quando ascoltano le letture o l’omelia, o seguono le preghiere del
celebrante e i canti e la musica della liturgia. Queste sono esperienze di
silenzio e di immobilità, ma sono nel loro modo profondamente attive»
(Giovanni Paolo II, Discorso ai vescovi
della Conferenza Episcopale Stati Uniti d’America del 9.10.1998).
I Padri conciliari non richiesero, quindi,
una riforma liturgica che portasse ad una facile e immediata comprensione dei
gesti e dei testi della S. Messa da parte dei fedeli; al contrario chiesero che
il rito, per natura avvolto di sacralità e di mistero, fosse reso accessibile e
partecipato tramite l’educazione religiosa dei fedeli. Poiché è forma di
consapevole e attiva partecipazione anche la semplice reverente assistenza al
rito.
In questo senso, troviamo la chiave di
interpretazione dell’intera Costituzione Liturgica al n. 23: «Non
vi deve essere alcuna innovazione a meno che non lo richieda il vero e
accertato bene della Chiesa».
Non solo: il medesimo articolo continua dicendo che «occorre
aver cura che ogni nuova forma [liturgica] adottata cresca in qualche modo
organicamente dalle forme già esistenti».
Ecco quindi sancito (vanamente, purtroppo) un duplice vincolo ad ogni
innovazione: essa dev’essere veramente utile e opportuna, perché la regola è la
conservazione dell’esistente, e in ogni caso quell’innovazione di cui sia
accertata la sicura utilità dev’essere tale che si inserisca in un’evoluzione
organica: quindi senza cesure, invenzioni, ritorni a forme arcaicizzanti».
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