In
questo giorno l’Antifona maggiore che si canta, durante i Vespri, al Magnificat
ed al versetto alleluiatico del Vangelo è la V: O Oriens.
Proseguiamo la lettura della Sacrosanctum Concilium, pubblicando il commento al suo cap. VI dell’Avv. Giannicola D’Amico.
Commento al cap. VI della Sacrosanctum Concilium e le
prime applicazioni della Cost. Liturgica in materia musicale
di Giannicola D’Amico
Il primo lungo documento conciliare, che non ha carattere dogmatico
(come la Dei Verbum) o pastorale (come la Gaudium et spes)
ma quasi disciplinare, ripensava la liturgia come “opera di Cristo sacerdote e
del suo Corpo che è la Chiesa”, ponendosi dunque come pietra miliare nel
cammino magisteriale della Chiesa circa il recupero della sacerdotalità
dell’intera Chiesa, quale Corpo mistico di Cristo.
La musica viene, in questo panorama, considerata un vero segno liturgico
(seguendo una certa tradizione), che partecipa della “dimensione sacramentale”
della liturgia, né la si può più pensare come elemento prevalentemente
decorativo, ed occupa nel documento un capitolo apposito.
Il capitolo VI, infatti, intitolato De musica sacra,
contiene gli articoli 112-121 che analizzano e sintetizzano le questioni
inerenti musica e canto sacro e la liturgia, richiamando in molti punti il Motu
proprio di S. Pio X del 1903 ed il Magistero degli ultimi sessanta anni.
Le stesse categorie di santità, bontà di forme e universalità vengono
ulteriormente rielaborate:
- la santità, in
seguito all’affermazione per cui «Musica sacra tanto sanctior erit quanto
arctius cum actione liturgica connectetur» (n. 128), è intesa soprattutto
come convenienza e pertinenza del servizio musicale con una data struttura
rituale;
- l’arte vera vede
tramontare qualunque adesione aprioristica a repertori e stili storicamente
definiti, con una apertura a quelle forme che, fornite di debite
caratteristiche, possano ammettersi al servizio del culto divino («Ecclesia
autem omnes verae artis formas, debitis praeditas dotibus, probat easque in cultum
divinum admittit»). In proposito non può negarsi però che, se dai tempi del
Motu proprio di Pio X la polifonia palestriniana era stata additata a
ineguagliato modello di composizione rispondente allo spirito della liturgia (e
lo sarà ancora dopo il Concilio), tutto il Magistero aveva sempre sottolineato
la perfetta dignità a ricoprire funzioni liturgiche di molta musica moderna e
contemporanea;
- l’universalità
invero viene posta in un certo modo in secondo ordine, a significare una sorta
di capacità “comprensiva” della liturgia (e, di conseguenza, della musica
liturgica), che doveva essere “accoglienza delle culture” piuttosto che
esportazione di una cultura, portando a compimento spunti magisteriali giacenti
fin dai provvedimenti di Benedetto XIV per la Missioni.
Quanto al canto gregoriano, riallacciandosi al magistero di Pio X e Pio
XII, si affermava solennemente «La Chiesa riconosce nel canto gregoriano il
canto proprio della Liturgia romana: perciò esso, a parità di condizioni, deve
avere il posto principale nelle azioni liturgiche» (art. 116) indicando che,
pur nell’equilibrio di trattamento degli altri generi musicali (“cœteris
paribus”), il canto gregoriano è da preferirsi per diritto nativo.
Si completava il percorso di definizione dello status (giuridico) del
canto gregoriano, intrapreso agli albori del Novecento: esso passava da
“proprio della Chiesa romana” nel Motu proprio di Pio X del 1903, a pertinente «ad
latinum potissimum Ecclesiae Ritum romanum» nell’Enc. Musicæ sacræ
disciplina del 1955, a «sacer Ecclesiae romanae cantus»
nell’Istruzione del 1958, a «liturgiae romanae proprium» della Sacrosanctum Concilium con formulazione
sicuramente più esatta.
Si stabiliva che il patrimonio del canto sacro (polifonia, canto
popolare) fosse custodito ed aumentato e veniva indicato nell’organo a canne,
lo strumento liturgico per eccellenza, subordinando l’uso degli altri strumenti
all’apprezzamento prudente dell’autorità ecclesiastica.
Alcune novità erano introdotte dalla messa in luce del munus ministeriale
proprio dei cantori all’interno dell’assemblea liturgica: giuridicamente si
trattava di un autonomo tertium genus di funzioni, distinte da
quelle del clero e da quelle dei fedeli, ove sino ad allora i partecipanti
laici della schola erano investiti di una funzione supplente
di prerogative tipicamente clericali, tanto che per questo il canto sacro era
sempre stato appannaggio degli uomini cui si conferiva l’Ordine minore del
lettorato (riservato al sesso maschile) ed i cantori partecipavano così all’azione
liturgica.
Le norme conciliari, se da un lato ampliavano il ruolo dell’assemblea
nell’azione liturgica (recependo i portati del movimento liturgico), dall’altro
non abolivano affatto il tradizionale ruolo della schola cantorum e
del solista, soggetti che continuavano ad essere largamente previsti in
un’ottica di rinnovata attenzione alle dinamiche interne dell’azione liturgica,
presieduta da un celebrante cui si affidavano ampie responsabilità anche in
sede musicale, soprattutto nel canto della liturgia solenne.
Non possiamo sottacere che dalla riforma liturgica trarrà le mosse una
pessima applicazione della stessa che porterà a prevalere certamente quel
pensiero che, fin dai primi tempi del post- Concilio, voleva la Chiesa in stato
di “perpetuo concilio”, con la avventurosa ipotesi di dover tutto a
continuamente mettere in discussione, in un’ottica di equivoca partecipazione
attivistica alla
liturgia.
Rappresentanti di tale orientamento sedettero nei primi organismi
preposti alla riforma.
Con il Motu proprio Sacram liturgiam del 25 gennaio
1964, Paolo VI creò infatti il Consilium ad exequendam Costitutionem de
sacra liturgia, organismo molto complesso cui si deve la formazione della
prima fra le Istruzioni per la retta Applicazione della Costituzione sulla
sacra Liturgia del Concilio Vaticano II, ovvero l’Istruzione Inter
Oecumenici, emanata dalla Sacra Congregazione dei Riti e dal Consilium, il
26 settembre 1964, contenente i principi generali di base per l’ordinata
applicazione del rinnovamento liturgico.
L’organismo fu posto sotto la presidenza dell’arcivescovo di Bologna,
card. Giacomo Lercaro, e formato da circa quaranta gruppi di lavoro (Cœtus),
composti ognuno da pochi specialisti, ma al suo interno continuò ad
essere magna pars il contestato mons. Annibale Bugnini.
Il Cœtus XXV aveva per nome De libris cantus liturgici
revisendis et edendis sotto la presidenza di dom Eugene Cardine,
monaco di Solesmes con segretario d. Luigi Agustoni ed altri cinque membri.
L’organismo sembrava la Commissione vaticana del 1904 insediata da Pio X
per la revisione dei libri gregoriani, sessant’anni dopo e così esordì d.
Cardine nell’aprire i lavori, ma l’accordo questa volta fu pressoché perfetto.
Il primo lavoro assegnato al Cœtus riprendeva il progetto proposto dalla
Commissione vaticana: offrire un repertorio semplice alle chiese minori.
Si agì in questo solco, non fabbricando falso gregoriano, ma rifacendosi
a forme antiche che, magari, erano sopravvissute ai margini della liturgia
ufficiale (alcuni tipi di salmodia, come quella responsoriale e la c.d.
salmodia in directum ) e nonostante problemi sorti al momento
della prevista revisione prima di ciascuna pubblicazione, a causa di polemiche
agitate da alcuni ambienti di liturgisti, nel 1965 comparve il Kyriale simplex che pubblicava alcune
melodie non pubblicate nella Vaticana e nel 1967 comparve il Graduale simplex, in cui per la prima
volta compare il principio dell’intercambiabilità dei canti, precedentemente in
posizione rigorosamente fissa.
Il ritardo di oltre due anni nella pubblicazione ufficiale del Graduale
simplex in usum minorum ecclesiarum, dovuto alla sospensione
che la S. Congregazione dei Riti dispose in attesa che fossero fugati i dubbi
agitati dai liturgisti che sedevano negli stessi organismi, risultò alla fine
esiziale per lo sviluppo di un repertorio gregoriano autentico ed alla portata
delle chiese minori, poiché in quel torno di anni maturò la svolta della
concezione e prassi liturgica, dovuta alla generale (ed indiscriminata)
introduzione delle lingue volgari nella celebrazione (permessa in modo
interinale, fin dal marzo 1965, in attesa dei libri liturgici riformati).
In proposito Luigi Agustoni scrisse: «La pubblicazione rimase bloccata
per due anni. Conservo ancora la bozza ricevuta di ritorno dalla Congregazione
dei Riti senza il permesso di pubblicare. Quando giunse la concessione ormai il
gregoriano era già definitivamente scomparso dalle liturgie, soppiantato dalle
lingue nazionali anche nel canto. In questo modo il gregoriano è caduto tutto
d’un colpo, in nessun seminario si è più fatto il gregoriano, tutto è stato
abbandonato anche nei conventi per lasciarsi andare a melodiette insignificanti».
Il cap. VI della Sacrosanctum Concilium dava appunto
disposizioni circa l’istruzione musicale dei chierici e dei religiosi sicchè,
appena chiuso il Concilio, veniva emanata l’Istruzione della Congregazione dei
Seminari del 25 dicembre 1965 con cui, sulla scorta del n. 115 della Sacrosanctum
Concilium, si stabiliva: «Si curi molto la formazione e la pratica musicale
nei seminari, nei noviziati dei religiosi e delle religiose».
Poi si aggiungeva: «La musica sacra deve essere annoverata fra le
materie indispensabili all'educazione dei chierici ed è necessario che venga
insegnata con metodi idonei e per un tempo sufficiente, a partire dai primi
anni di studio fino al corso teologico. Come per tutte le altre materie, gli
alunni dovranno sostenere annualmente gli esami di musica sacra».
Infine l'Istruzione prevedeva: «Tutti gli studenti di teologia
acquisiscano una sufficiente conoscenza delle melodie gregoriane, soprattutto
di quelle maggiormente diffuse; l'esercizio frequente permetterà che fin dal
seminario vengano apprese a memoria le melodie dell'ordinario della Messa, sia
le più facili come le più elaborate comunemente usate dal popolo cristiano».
Già attorno al 1970 queste disposizioni erano state abbandonate nella
prassi quasi ovunque e soltanto in pochi istituti di formazione religiosa e
clericale si conservò un minimo di istruzione musicale degna di tale nome.
Poiché la S. Sede constatava la continua violazione della normativa
conciliare si giunse un pronunciamento ufficiale e chiarificatore.
Il 5 marzo 1967, Paolo VI, per il tramite della S. Congregazione dei
Riti, promulgava l’Istruzione Musicam sacram.
Il documento veniva pubblicato in un momento in cui alcune teorie sorte
nell’immediato post-Concilio cominciavano a sostenere che il capitolo VI
della Sacrosanctum Concilium fosse la magna charta della “rivoluzione” musicale, “finalmente” distruttiva
di un'arcaica concezione sacrale del canto liturgico, facendo leva
sull’equivoco dell’inculturazione.
L’Istruzione Musicam sacram riproponeva, in quel clima,
la continuità del Magistero: così si esprimeva al n. 4: «Musica sacra è quella
che, composta per la celebrazione del culto divino, è dotata di santità e bontà
di forme» e citava espressamente in nota il Motu proprio di Pio X.
Poi il testo precisava: «Sotto la denominazione di Musica sacra si
comprende, in questo documento: il canto gregoriano, la polifonia antica e
moderna nei suoi diversi generi, la musica sacra per organo e altri strumenti
legittimamente ammessi nella liturgia, e il canto popolare sacro, cioè
liturgico e religioso».
Le caratteristiche di santità, bontà di forme ed universalità venivano
ancora una volta indicate quali garanti di buona musica a servizio del culto,
ed ancora una volta opportunamente (sebbene implicitamente) ordinate quali
comportanti affinità spirituale della musica con la liturgia e sua pertinenza
rituale, ordinaria recepibilità da parte dell’assemblea e festività adeguata in
rapporto ai diversi gradi rubricali.
Si riassumeva il Magistero precedente e le acquisizioni conciliari circa
il modo di “cantar Messa”.
La responsabilità liturgica diveniva collettiva: è Messa “cantata” se,
chi deve cantare, canta ciò che deve cantare, e cioè celebrante e assemblea,
con la mediazione del cantore, del salmista, del coro, dell’organista, i quali
hanno il compito di servire l’assemblea, aiutandola ad esprimersi il meglio
possibile nelle parti che le sono proprie.
L’Istruzione lasciava intatta la tradizionale distinzione fra messa
letta, messa cantata e messa solenne che poi, nei fatti, si è drammaticamente
perduta.
L’elaborazione tormentatissima della Istruzione (i lavori preparatori
durarono più di due anni con l’elaborazione di ben 12 schemi) vide impegnato
personalmente Paolo VI che, da fine diplomatico, riuscì a mediare tra le
posizioni innovatrici del Consilium e le osservazioni
stringenti di alcuni musicisti.
È innegabile che la ratio legis della Musicam sacram indicava
nell’espressione latino-gregoriana del canto sacro, la più alta declinazione di
coinvolgimento liturgico dei fedeli, anche perché le traduzioni in volgare dei
testi erano, per l’epoca, francamente problematiche.
La questione della lingua liturgica funestò l’intero pontificato di
Paolo VI e qui conviene aprire una parentesi, giacché il latino è intimamente
connesso al canto gregoriano ed a tutta la musica sacra cattolica, in quanto
lingua ufficiale (ancora) dei vari riti occidentali, e per questi motivi ne
forma una pressoché indissolubile unità liturgica, culturale ed artistica.
Nel 1963 papa Montini, appena eletto, aveva promulgato la Lettera
Ap. Summi Dei Verbum, affermando ancora fortemente che lo studio
della lingua latina e delle lingue antiche fosse indissolubilmente congiunto
con la istruzione e formazione dei giovani avviati al sacerdozio.
La tenace difesa del latino si appuntava su motivazioni storiche (lingua
storicamente familiare alla Chiesa ed utilizzata per la teologia, il diritto, i
documenti ufficiali, e soprattutto per la liturgia per cui è lingua sacra,
esprimendo anche la separazione da tutto ciò che è profano, come i paramenti
sacerdotali), ecclesiologiche (segno di appartenenza visibile alla comunione
con il vescovo di Roma, successore di Pietro e vicario di Cristo, essa tutela
la coesione di fede e carità attorno al Capo visibile della Chiesa), dogmatiche
(in quanto lingua immutabile essa garantisce l’ortodossia; in proposito Paolo
VI usò una di quelle locuzioni molto poetiche e parimenti icastiche tipiche del
suo linguaggio: nell’Enciclica Mysterium fidei sostenne la
necessità di conservare certe espressioni immutabili come “tessere della
fede”).
Eppure i Padri conciliari, viste le mutate condizioni storiche rispetto
alle pronunzie tridentine, ritennero di dover concedere le lingue nazionali,
non solo nei vari riti, ma anche nella celebrazione della Messa celebrata con
il popolo, di cui in un primo momento venne salvata qualche parte in latino, in
quanto essi accolsero l’intuizione del movimento liturgico che era
semplicemente di rendere comprensibili al popolo le parti della liturgia della
Parola (istanze che già Pio XII aveva parzialmente accettato) ma ufficialmente
confermarono la liturgia romana in latino, concedendo la traduzione nelle
lingue viventi, sebbene non obbligando all’uso di esse (come ha poi confermato
la Istruzione Redemptionis sacramentum del 2004).
Durante i lavori preparatori del Concilio, in verità il card. Montini si
era pronunziato favorevolmente all’introduzione delle lingue vernacolari nella
liturgia, almeno in alcune parti della Messa, limitatamente alle parti
didattiche della messa, agli inni ed alle orazioni comunitarie, salvando
certamente l’ossatura latina del rito occidentale.
I pochissimi anni che separarono questi lavori dalla elezione al Soglio
pontificio, connotati da un subitaneo smantellamento del latino in ogni
manifestazione liturgica, avevano portato Paolo VI ad una posizione molto più
prudente, nel timore di avallare un’operazione senza precedenti nella storia
della Chiesa.
Chiuso il Concilio, le cose precipitavano giorno per giorno.
Egli dovette affrontare la questione liturgica e musicale ben presto,
anche con le Congregazioni religiose (che chiedevano di modificare l’Ufficio,
abolendo il latino ed il canto gregoriano) cui indirizzò un accorato e quasi
commovente appello in cui difendeva nobilissimamente il canto gregoriano e la
lingua latina, entrambi considerati patrimonio inalienabile della Chiesa, con
la Lett. Ap. Sacrificium laudis del 1966.
Furono parole al vento: le tendenze disgregatrici dell’antica tradizione
coinvolsero anche Ordini monastici tradizionalmente legati al canto gregoriano,
in quegli anni progressivamente emarginato dallo stesso Ufficio monastico, che
con il canto romano aveva fatto tradizionalmente corpo unico, tanto da
immedesimarsene fin da tempi remotissimi.
I vescovi poi trascurarono in modo inqualificabile che (in almeno un
luogo delle proprie diocesi) si potesse celebrare regolarmente il rito romano
in latino (come pur avevano inequivocabilmente indicato i Padri conciliari),
secondo i libri liturgici nuovi e ciò fu deleterio per la stessa sopravvivenza
della prassi gregoriana, abbandonata anche in molti cenobi benedettini.
L’ostruzionismo nei confronti delle indicazioni pontificie assunse anche
toni “sotterranei”, in materie delicatissime come la traduzione volgare dei
testi liturgici.
Emblematica la vicenda della “sparizione” dell’originale latino a fronte
dei testi tradotti nei messali di uso comune, segno di un progressivo riformare
la riforma, aldilà di essa e della ratio legis del Concilio,
nel decennio 1963-1974.
Mentre si andava preparando il nuovo testo latino del Messale Romano,
una serie di successivi passaggi con sempre più estese concessioni aveva reso
prima possibile, poi comune e generalizzato, l'uso nella liturgia, della lingua
volgare: ma mentre il dettato della Sacrosanctum Concilium (4
dicembre 1963) pur concedendo per alcuni casi la possibilità della lingua volgare,
raccomandava esplicitamente l'uso del latino, già l’Istruzione Inter
Oecumenici del 26 settembre 1964 parlava di traduzione in modo
prescrittivo, stabilendo i criteri con cui formare le commissioni demandate a
tal compito.
Nel 1967, una lettera circolare del Consilium ad exsequendam
Constitutionem de sacra Liturgia – dove mons. Bugnini aveva ampi
margini di manovra - ai presidenti delle conferenze episcopali, fissava
ulteriormente i criteri da seguire per l'approntamento delle traduzioni dei
testi liturgici: «Si deve preparare una traduzione nuova, accurata, degna.
Inoltre la traduzione deve essere letterale e integrale. Si devono prendere i
testi come sono, senza mutilazioni o semplificazioni di alcun genere.
L’adattamento all'indole della lingua parlata deve essere sobrio e discreto. I
periti accettino di buon grado questa norma, la cui applicazione è necessaria
attualmente»; e aggiungeva: «Non è opportuno bruciare le tappe. Quando verrà il
momento di nuove creazioni, allora non sarà più necessario sottostare alle
strettezze della traduzione letterale. Ma, per ora, siamo ancora al punto in
cui si deve scoprire meglio tutta la ricchezza del patrimonio liturgico e
viverne».
Evidentemente era già aperto un pericoloso varco a favore di nuove
creazioni.
Per salvaguardare la fedeltà ai testi originali, il 13 luglio di
quell'anno Paolo VI fece richiedere dalla Segreteria di Stato al Consilium,
un nuovo documento che fissasse la seguente norma: «I messali sia quotidiani
sia festivi abbiano sempre, benché con carattere più piccolo, il testo latino
accanto alla traduzione in lingua volgare».
Il successivo 10 agosto 1967 fu pubblicata, in seguito alla esplicita
richiesta di Paolo VI, questa significativa comunicazione del Consilium ai
presidenti delle conferenze episcopali, a proposito della traduzione in volgare
del Canone romano: «1. La versione da preparare, unica se si tratta di lingua
parlata in vari paesi, renda fedelmente il testo del canone romano, senza
variazioni, né omissioni, né aggiunte che la rendano difforme dal testo latino.
2. La lingua sia quella normalmente in uso nei testi liturgici, evitando le
forme troppo classiche o troppo moderne. (...) 5. È desiderio del Santo Padre
che i messali, sia quotidiani che festivi, in edizione integrale o parziale,
portino sempre a lato della versione in lingua volgare il testo latino, su
doppia colonna, o a pagine rispondenti, e non in fascicoli o libri separati, ….».
Dal tono di quest'ultima frase («È desiderio del Santo Padre ...»),
traspare come fosse mal tollerato l'intervento di Paolo VI, la cui richiesta
verrà poi di fatto disattesa.
Il 25 gennaio 1969 apparve un esteso documento ufficiale sulla
traduzione dei testi liturgici per la celebrazione con il popolo, l'istruzione
del Consilium intitolata Comme le prévoit (in francese), che
dettava le norme che i traduttori avrebbero dovuto seguire.
Il testo, solo apparentemente chiarificatore, lasciava invece spazio ad
interpretazioni discordanti che sono state perniciose in tutti i 50 anni
successivi: se da una parte si richiedono i più avanzati metodi scientifici e
un accurato studio filologico, sottolineandosi la necessità di una fedeltà
totale al testo latino, dall'altra si introduce un parallelo concetto di
traduzione “libera”.
Intervenne allora ancora Paolo VI, che il 7 febbraio di quell'anno, nel
discorso ai partecipanti al convegno organizzato dalla Commissione liturgica
nazionale italiana pose dei vincoli, ma l’intervento non servì ad arrestare il
processo di abbandono del testo latino, avviato dai riformatori e ad innescare
traduzioni erronee e fuorvianti; il 10 novembre di quello stesso anno, la Sacra
Congregazione per il Culto Divino fissò le facoltà delle Conferenze Episcopali
per le versioni in volgare dei nuovi testi liturgici, permettendo l’inserimento
di nuove formule, e regolamentando la questione della stampa del testo latino
in maniera limitativa rispetto a quanto chiesto due anni prima da Paolo VI: «In
editionibus Missalis Romani usui liturgico destinatis, quae textum popularem
exhibent, textus latinus non erit necessario imprimendus» («Nelle edizioni
del Messale Romano destinate all’uso liturgico, che presentano il testo
tradotto, non dovrà essere necessariamente stampato il testo latino»).
Così il testo latino scomparirà normalmente dai messali, anche in
appendice.
Intanto, verso la fine di quello stesso anno 1969, venne pubblicata la
prima traduzione “tipica” e ufficiale in lingua italiana.
Il 5 settembre 1970, nella Terza Istruzione per la esatta applicazione
della Costituzione sulla sacra Liturgia Liturgicae Instaurationes non
si parla ormai più della traduzione letterale richiesta tre anni prima: ciò che
Paolo VI aveva chiesto era dunque dimenticato.
Nel 1973 Paolo VI invierà mons. Bugnini, improvvisamente, pro Nunzio Ap.
in Iran.
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