venerdì 21 dicembre 2018

Commento al cap. VI della Sacrosanctum Concilium in occasione della V Antifona Maggiore

In questo giorno l’Antifona maggiore che si canta, durante i Vespri, al Magnificat ed al versetto alleluiatico del Vangelo è la V: O Oriens.





Proseguiamo la lettura della Sacrosanctum Concilium, pubblicando il commento al suo cap. VI dell’Avv. Giannicola D’Amico.

Commento al cap. VI della Sacrosanctum Concilium e le prime applicazioni della Cost. Liturgica in materia musicale

di Giannicola D’Amico

Il primo lungo documento conciliare, che non ha carattere dogmatico (come la Dei Verbum) o pastorale (come la Gaudium et spes) ma quasi disciplinare, ripensava la liturgia come “opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo che è la Chiesa”, ponendosi dunque come pietra miliare nel cammino magisteriale della Chiesa circa il recupero della sacerdotalità dell’intera Chiesa, quale Corpo mistico di Cristo.
La musica viene, in questo panorama, considerata un vero segno liturgico (seguendo una certa tradizione), che partecipa della “dimensione sacramentale” della liturgia, né la si può più pensare come elemento prevalentemente decorativo, ed occupa nel documento un capitolo apposito.
Il capitolo VI, infatti, intitolato De musica sacra, contiene gli articoli 112-121 che analizzano e sintetizzano le questioni inerenti musica e canto sacro e la liturgia, richiamando in molti punti il Motu proprio di S. Pio X del 1903 ed il Magistero degli ultimi sessanta anni.
Le stesse categorie di santità, bontà di forme e universalità vengono ulteriormente rielaborate:
- la santità, in seguito all’affermazione per cui «Musica sacra tanto sanctior erit quanto arctius cum actione liturgica connectetur» (n. 128), è intesa soprattutto come convenienza e pertinenza del servizio musicale con una data struttura rituale;
- l’arte vera vede tramontare qualunque adesione aprioristica a repertori e stili storicamente definiti, con una apertura a quelle forme che, fornite di debite caratteristiche, possano ammettersi al servizio del culto divino («Ecclesia autem omnes verae artis formas, debitis praeditas dotibus, probat easque in cultum divinum admittit»). In proposito non può negarsi però che, se dai tempi del Motu proprio di Pio X la polifonia palestriniana era stata additata a ineguagliato modello di composizione rispondente allo spirito della liturgia (e lo sarà ancora dopo il Concilio), tutto il Magistero aveva sempre sottolineato la perfetta dignità a ricoprire funzioni liturgiche di molta musica moderna e contemporanea;
- l’universalità invero viene posta in un certo modo in secondo ordine, a significare una sorta di capacità “comprensiva” della liturgia (e, di conseguenza, della musica liturgica), che doveva essere “accoglienza delle culture” piuttosto che esportazione di una cultura, portando a compimento spunti magisteriali giacenti fin dai provvedimenti di Benedetto XIV per la Missioni.
Quanto al canto gregoriano, riallacciandosi al magistero di Pio X e Pio XII, si affermava solennemente «La Chiesa riconosce nel canto gregoriano il canto proprio della Liturgia romana: perciò esso, a parità di condizioni, deve avere il posto principale nelle azioni liturgiche» (art. 116) indicando che, pur nell’equilibrio di trattamento degli altri generi musicali (“cœteris paribus”), il canto gregoriano è da preferirsi per diritto nativo.
Si completava il percorso di definizione dello status (giuridico) del canto gregoriano, intrapreso agli albori del Novecento: esso passava da “proprio della Chiesa romana” nel Motu proprio di Pio X del 1903, a pertinente «ad latinum potissimum Ecclesiae Ritum romanum» nell’Enc. Musicæ sacræ disciplina del 1955, a «sacer Ecclesiae romanae cantus» nell’Istruzione del 1958, a «liturgiae romanae proprium» della Sacrosanctum Concilium con formulazione sicuramente più esatta.
Si stabiliva che il patrimonio del canto sacro (polifonia, canto popolare) fosse custodito ed aumentato e veniva indicato nell’organo a canne, lo strumento liturgico per eccellenza, subordinando l’uso degli altri strumenti all’apprezzamento prudente dell’autorità ecclesiastica.
Alcune novità erano introdotte dalla messa in luce del munus ministeriale proprio dei cantori all’interno dell’assemblea liturgica: giuridicamente si trattava di un autonomo tertium genus di funzioni, distinte da quelle del clero e da quelle dei fedeli, ove sino ad allora i partecipanti laici della schola erano investiti di una funzione supplente di prerogative tipicamente clericali, tanto che per questo il canto sacro era sempre stato appannaggio degli uomini cui si conferiva l’Ordine minore del lettorato (riservato al sesso maschile) ed i cantori partecipavano così all’azione liturgica.
Le norme conciliari, se da un lato ampliavano il ruolo dell’assemblea nell’azione liturgica (recependo i portati del movimento liturgico), dall’altro non abolivano affatto il tradizionale ruolo della schola cantorum e del solista, soggetti che continuavano ad essere largamente previsti in un’ottica di rinnovata attenzione alle dinamiche interne dell’azione liturgica, presieduta da un celebrante cui si affidavano ampie responsabilità anche in sede musicale, soprattutto nel canto della liturgia solenne.
Non possiamo sottacere che dalla riforma liturgica trarrà le mosse una pessima applicazione della stessa che porterà a prevalere certamente quel pensiero che, fin dai primi tempi del post- Concilio, voleva la Chiesa in stato di “perpetuo concilio”, con la avventurosa ipotesi di dover tutto a continuamente mettere in discussione, in un’ottica di equivoca partecipazione attivistica alla liturgia.             
Rappresentanti di tale orientamento sedettero nei primi organismi preposti alla riforma.
Con il Motu proprio Sacram liturgiam del 25 gennaio 1964, Paolo VI creò infatti il Consilium ad exequendam Costitutionem de sacra liturgia, organismo molto complesso cui si deve la formazione della prima fra le Istruzioni per la retta Applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II, ovvero l’Istruzione Inter Oecumenici, emanata dalla Sacra Congregazione dei Riti e dal Consilium, il 26 settembre 1964, contenente i principi generali di base per l’ordinata applicazione del rinnovamento liturgico.
L’organismo fu posto sotto la presidenza dell’arcivescovo di Bologna, card. Giacomo Lercaro, e formato da circa quaranta gruppi di lavoro (Cœtus), composti ognuno da pochi specialisti, ma al suo interno continuò ad essere magna pars il contestato mons. Annibale Bugnini.
Il Cœtus XXV aveva per nome De libris cantus liturgici revisendis et edendis sotto la presidenza di dom Eugene Cardine, monaco di Solesmes con segretario d. Luigi Agustoni ed altri cinque membri.
L’organismo sembrava la Commissione vaticana del 1904 insediata da Pio X per la revisione dei libri gregoriani, sessant’anni dopo e così esordì d. Cardine nell’aprire i lavori, ma l’accordo questa volta fu pressoché perfetto.
Il primo lavoro assegnato al Cœtus riprendeva il progetto proposto dalla Commissione vaticana: offrire un repertorio semplice alle chiese minori.
Si agì in questo solco, non fabbricando falso gregoriano, ma rifacendosi a forme antiche che, magari, erano sopravvissute ai margini della liturgia ufficiale (alcuni tipi di salmodia, come quella responsoriale e la c.d. salmodia in directum ) e nonostante problemi sorti al momento della prevista revisione prima di ciascuna pubblicazione, a causa di polemiche agitate da alcuni ambienti di liturgisti, nel 1965 comparve il Kyriale simplex che pubblicava alcune melodie non pubblicate nella Vaticana e nel 1967 comparve il Graduale simplex, in cui per la prima volta compare il principio dell’intercambiabilità dei canti, precedentemente in posizione rigorosamente fissa.
Il ritardo di oltre due anni nella pubblicazione ufficiale del Graduale simplex in usum minorum ecclesiarum, dovuto alla sospensione che la S. Congregazione dei Riti dispose in attesa che fossero fugati i dubbi agitati dai liturgisti che sedevano negli stessi organismi, risultò alla fine esiziale per lo sviluppo di un repertorio gregoriano autentico ed alla portata delle chiese minori, poiché in quel torno di anni maturò la svolta della concezione e prassi liturgica, dovuta alla generale (ed indiscriminata) introduzione delle lingue volgari nella celebrazione (permessa in modo interinale, fin dal marzo 1965, in attesa dei libri liturgici riformati).
In proposito Luigi Agustoni scrisse: «La pubblicazione rimase bloccata per due anni. Conservo ancora la bozza ricevuta di ritorno dalla Congregazione dei Riti senza il permesso di pubblicare. Quando giunse la concessione ormai il gregoriano era già definitivamente scomparso dalle liturgie, soppiantato dalle lingue nazionali anche nel canto. In questo modo il gregoriano è caduto tutto d’un colpo, in nessun seminario si è più fatto il gregoriano, tutto è stato abbandonato anche nei conventi per lasciarsi andare a melodiette insignificanti».
Il cap. VI della Sacrosanctum Concilium dava appunto disposizioni circa l’istruzione musicale dei chierici e dei religiosi sicchè, appena chiuso il Concilio, veniva emanata l’Istruzione della Congregazione dei Seminari del 25 dicembre 1965 con cui, sulla scorta del n. 115 della Sacrosanctum Concilium, si stabiliva: «Si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati dei religiosi e delle religiose».
Poi si aggiungeva: «La musica sacra deve essere annoverata fra le materie indispensabili all'educazione dei chierici ed è necessario che venga insegnata con metodi idonei e per un tempo sufficiente, a partire dai primi anni di studio fino al corso teologico. Come per tutte le altre materie, gli alunni dovranno sostenere annualmente gli esami di musica sacra».
Infine l'Istruzione prevedeva: «Tutti gli studenti di teologia acquisiscano una sufficiente conoscenza delle melodie gregoriane, soprattutto di quelle maggiormente diffuse; l'esercizio frequente permetterà che fin dal seminario vengano apprese a memoria le melodie dell'ordinario della Messa, sia le più facili come le più elaborate comunemente usate dal popolo cristiano».
Già attorno al 1970 queste disposizioni erano state abbandonate nella prassi quasi ovunque e soltanto in pochi istituti di formazione religiosa e clericale si conservò un minimo di istruzione musicale degna di tale nome.
Poiché la S. Sede constatava la continua violazione della normativa conciliare si giunse un pronunciamento ufficiale e chiarificatore.
Il 5 marzo 1967, Paolo VI, per il tramite della S. Congregazione dei Riti, promulgava l’Istruzione Musicam sacram.
Il documento veniva pubblicato in un momento in cui alcune teorie sorte nell’immediato post-Concilio cominciavano a sostenere che il capitolo VI della Sacrosanctum Concilium fosse la magna charta della “rivoluzione” musicale, “finalmente” distruttiva di un'arcaica concezione sacrale del canto liturgico, facendo leva sull’equivoco dell’inculturazione.
L’Istruzione Musicam sacram riproponeva, in quel clima, la continuità del Magistero: così si esprimeva al n. 4: «Musica sacra è quella che, composta per la celebrazione del culto divino, è dotata di santità e bontà di forme» e citava espressamente in nota il Motu proprio di Pio X.
Poi il testo precisava: «Sotto la denominazione di Musica sacra si comprende, in questo documento: il canto gregoriano, la polifonia antica e moderna nei suoi diversi generi, la musica sacra per organo e altri strumenti legittimamente ammessi nella liturgia, e il canto popolare sacro, cioè liturgico e religioso».
Le caratteristiche di santità, bontà di forme ed universalità venivano ancora una volta indicate quali garanti di buona musica a servizio del culto, ed ancora una volta opportunamente (sebbene implicitamente) ordinate quali comportanti affinità spirituale della musica con la liturgia e sua pertinenza rituale, ordinaria recepibilità da parte dell’assemblea e festività adeguata in rapporto ai diversi gradi rubricali.
Si riassumeva il Magistero precedente e le acquisizioni conciliari circa il modo di “cantar Messa”.
La responsabilità liturgica diveniva collettiva: è Messa “cantata” se, chi deve cantare, canta ciò che deve cantare, e cioè celebrante e assemblea, con la mediazione del cantore, del salmista, del coro, dell’organista, i quali hanno il compito di servire l’assemblea, aiutandola ad esprimersi il meglio possibile nelle parti che le sono proprie.
L’Istruzione lasciava intatta la tradizionale distinzione fra messa letta, messa cantata e messa solenne che poi, nei fatti, si è drammaticamente perduta.
L’elaborazione tormentatissima della Istruzione (i lavori preparatori durarono più di due anni con l’elaborazione di ben 12 schemi) vide impegnato personalmente Paolo VI che, da fine diplomatico, riuscì a mediare tra le posizioni innovatrici del Consilium e le osservazioni stringenti di alcuni musicisti.
È innegabile che la ratio legis della Musicam sacram indicava nell’espressione latino-gregoriana del canto sacro, la più alta declinazione di coinvolgimento liturgico dei fedeli, anche perché le traduzioni in volgare dei testi erano, per l’epoca, francamente problematiche.
La questione della lingua liturgica funestò l’intero pontificato di Paolo VI e qui conviene aprire una parentesi, giacché il latino è intimamente connesso al canto gregoriano ed a tutta la musica sacra cattolica, in quanto lingua ufficiale (ancora) dei vari riti occidentali, e per questi motivi ne forma una pressoché indissolubile unità liturgica, culturale ed artistica.
Nel 1963 papa Montini, appena eletto, aveva promulgato la Lettera Ap. Summi Dei Verbum, affermando ancora fortemente che lo studio della lingua latina e delle lingue antiche fosse indissolubilmente congiunto con la istruzione e formazione dei giovani avviati al sacerdozio.
La tenace difesa del latino si appuntava su motivazioni storiche (lingua storicamente familiare alla Chiesa ed utilizzata per la teologia, il diritto, i documenti ufficiali, e soprattutto per la liturgia per cui è lingua sacra, esprimendo anche la separazione da tutto ciò che è profano, come i paramenti sacerdotali), ecclesiologiche (segno di appartenenza visibile alla comunione con il vescovo di Roma, successore di Pietro e vicario di Cristo, essa tutela la coesione di fede e carità attorno al Capo visibile della Chiesa), dogmatiche (in quanto lingua immutabile essa garantisce l’ortodossia; in proposito Paolo VI usò una di quelle locuzioni molto poetiche e parimenti icastiche tipiche del suo linguaggio: nell’Enciclica Mysterium fidei sostenne la necessità di conservare certe espressioni immutabili come “tessere della fede”).
Eppure i Padri conciliari, viste le mutate condizioni storiche rispetto alle pronunzie tridentine, ritennero di dover concedere le lingue nazionali, non solo nei vari riti, ma anche nella celebrazione della Messa celebrata con il popolo, di cui in un primo momento venne salvata qualche parte in latino, in quanto essi accolsero l’intuizione del movimento liturgico che era semplicemente di rendere comprensibili al popolo le parti della liturgia della Parola (istanze che già Pio XII aveva parzialmente accettato) ma ufficialmente confermarono la liturgia romana in latino, concedendo la traduzione nelle lingue viventi, sebbene non obbligando all’uso di esse (come ha poi confermato la Istruzione Redemptionis sacramentum del 2004).
Durante i lavori preparatori del Concilio, in verità il card. Montini si era pronunziato favorevolmente all’introduzione delle lingue vernacolari nella liturgia, almeno in alcune parti della Messa, limitatamente alle parti didattiche della messa, agli inni ed alle orazioni comunitarie, salvando certamente l’ossatura latina del rito occidentale.
I pochissimi anni che separarono questi lavori dalla elezione al Soglio pontificio, connotati da un subitaneo smantellamento del latino in ogni manifestazione liturgica, avevano portato Paolo VI ad una posizione molto più prudente, nel timore di avallare un’operazione senza precedenti nella storia della Chiesa.
Chiuso il Concilio, le cose precipitavano giorno per giorno.
Egli dovette affrontare la questione liturgica e musicale ben presto, anche con le Congregazioni religiose (che chiedevano di modificare l’Ufficio, abolendo il latino ed il canto gregoriano) cui indirizzò un accorato e quasi commovente appello in cui difendeva nobilissimamente il canto gregoriano e la lingua latina, entrambi considerati patrimonio inalienabile della Chiesa, con la Lett. Ap. Sacrificium laudis del 1966.
Furono parole al vento: le tendenze disgregatrici dell’antica tradizione coinvolsero anche Ordini monastici tradizionalmente legati al canto gregoriano, in quegli anni progressivamente emarginato dallo stesso Ufficio monastico, che con il canto romano aveva fatto tradizionalmente corpo unico, tanto da immedesimarsene fin da tempi remotissimi.
I vescovi poi trascurarono in modo inqualificabile che (in almeno un luogo delle proprie diocesi) si potesse celebrare regolarmente il rito romano in latino (come pur avevano inequivocabilmente indicato i Padri conciliari), secondo i libri liturgici nuovi e ciò fu deleterio per la stessa sopravvivenza della prassi gregoriana, abbandonata anche in molti cenobi benedettini.
L’ostruzionismo nei confronti delle indicazioni pontificie assunse anche toni “sotterranei”, in materie delicatissime come la traduzione volgare dei testi liturgici.
Emblematica la vicenda della “sparizione” dell’originale latino a fronte dei testi tradotti nei messali di uso comune, segno di un progressivo riformare la riforma, aldilà di essa e della ratio legis del Concilio, nel decennio 1963-1974.
Mentre si andava preparando il nuovo testo latino del Messale Romano, una serie di successivi passaggi con sempre più estese concessioni aveva reso prima possibile, poi comune e generalizzato, l'uso nella liturgia, della lingua volgare: ma mentre il dettato della Sacrosanctum Concilium (4 dicembre 1963) pur concedendo per alcuni casi la possibilità della lingua volgare, raccomandava esplicitamente l'uso del latino, già l’Istruzione Inter Oecumenici del 26 settembre 1964 parlava di traduzione in modo prescrittivo, stabilendo i criteri con cui formare le commissioni demandate a tal compito.
Nel 1967, una lettera circolare del Consilium ad exsequendam Constitutionem de sacra Liturgia – dove mons. Bugnini aveva ampi margini di manovra - ai presidenti delle conferenze episcopali, fissava ulteriormente i criteri da seguire per l'approntamento delle traduzioni dei testi liturgici: «Si deve preparare una traduzione nuova, accurata, degna. Inoltre la traduzione deve essere letterale e integrale. Si devono prendere i testi come sono, senza mutilazioni o semplificazioni di alcun genere. L’adattamento all'indole della lingua parlata deve essere sobrio e discreto. I periti accettino di buon grado questa norma, la cui applicazione è necessaria attualmente»; e aggiungeva: «Non è opportuno bruciare le tappe. Quando verrà il momento di nuove creazioni, allora non sarà più necessario sottostare alle strettezze della traduzione letterale. Ma, per ora, siamo ancora al punto in cui si deve scoprire meglio tutta la ricchezza del patrimonio liturgico e viverne».
Evidentemente era già aperto un pericoloso varco a favore di nuove creazioni.
Per salvaguardare la fedeltà ai testi originali, il 13 luglio di quell'anno Paolo VI fece richiedere dalla Segreteria di Stato al Consilium, un nuovo documento che fissasse la seguente norma: «I messali sia quotidiani sia festivi abbiano sempre, benché con carattere più piccolo, il testo latino accanto alla traduzione in lingua volgare».
Il successivo 10 agosto 1967 fu pubblicata, in seguito alla esplicita richiesta di Paolo VI, questa significativa comunicazione del Consilium ai presidenti delle conferenze episcopali, a proposito della traduzione in volgare del Canone romano: «1. La versione da preparare, unica se si tratta di lingua parlata in vari paesi, renda fedelmente il testo del canone romano, senza variazioni, né omissioni, né aggiunte che la rendano difforme dal testo latino. 2. La lingua sia quella normalmente in uso nei testi liturgici, evitando le forme troppo classiche o troppo moderne. (...) 5. È desiderio del Santo Padre che i messali, sia quotidiani che festivi, in edizione integrale o parziale, portino sempre a lato della versione in lingua volgare il testo latino, su doppia colonna, o a pagine rispondenti, e non in fascicoli o libri separati, ….».
Dal tono di quest'ultima frase («È desiderio del Santo Padre ...»), traspare come fosse mal tollerato l'intervento di Paolo VI, la cui richiesta verrà poi di fatto disattesa.
Il 25 gennaio 1969 apparve un esteso documento ufficiale sulla traduzione dei testi liturgici per la celebrazione con il popolo, l'istruzione del Consilium intitolata Comme le prévoit (in francese), che dettava le norme che i traduttori avrebbero dovuto seguire.
Il testo, solo apparentemente chiarificatore, lasciava invece spazio ad interpretazioni discordanti che sono state perniciose in tutti i 50 anni successivi: se da una parte si richiedono i più avanzati metodi scientifici e un accurato studio filologico, sottolineandosi la necessità di una fedeltà totale al testo latino, dall'altra si introduce un parallelo concetto di traduzione “libera”.
Intervenne allora ancora Paolo VI, che il 7 febbraio di quell'anno, nel discorso ai partecipanti al convegno organizzato dalla Commissione liturgica nazionale italiana pose dei vincoli, ma l’intervento non servì ad arrestare il processo di abbandono del testo latino, avviato dai riformatori e ad innescare traduzioni erronee e fuorvianti; il 10 novembre di quello stesso anno, la Sacra Congregazione per il Culto Divino fissò le facoltà delle Conferenze Episcopali per le versioni in volgare dei nuovi testi liturgici, permettendo l’inserimento di nuove formule, e regolamentando la questione della stampa del testo latino in maniera limitativa rispetto a quanto chiesto due anni prima da Paolo VI: «In editionibus Missalis Romani usui liturgico destinatis, quae textum popularem exhibent, textus latinus non erit necessario imprimendus» («Nelle edizioni del Messale Romano destinate all’uso liturgico, che presentano il testo tradotto, non dovrà essere necessariamente stampato il testo latino»).
Così il testo latino scomparirà normalmente dai messali, anche in appendice.
Intanto, verso la fine di quello stesso anno 1969, venne pubblicata la prima traduzione “tipica” e ufficiale in lingua italiana.
Il 5 settembre 1970, nella Terza Istruzione per la esatta applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia Liturgicae Instaurationes non si parla ormai più della traduzione letterale richiesta tre anni prima: ciò che Paolo VI aveva chiesto era dunque dimenticato.
Nel 1973 Paolo VI invierà mons. Bugnini, improvvisamente, pro Nunzio Ap. in Iran.

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