In questo giorno l’Antifona maggiore che si canta, durante i
Vespri, al Magnificat ed al versetto alleluiatico del Vangelo è la V: O Rex Gentium.
Proseguiamo la lettura della
Sacrosanctum Concilium, pubblicando il commento al suo cap. VII del dott.
Andrea De Meo Arbore.
Commento al cap. VII della Sacrosanctum
Concilium
di Andrea De Meo Arbore
Nota al lettore
La lettura del
capitolo VII della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium che qui si propone non può e non vuole essere un
esame storico-critico del documento. Tale esame sarebbe assai opportuno e,
indagando accuratamente i testi preparatori, identificando con cura tutti i
redattori e i loro ispiratori, potrebbe rischiarare molte opacità del testo
definitivo. Le righe che seguono, invece, sono solo un commento lento e
ragionato alla lettura di una piccola parte del documento conciliare, che si
attiene quanto più possibile alla lettera senza indagare le origini e gli
autori di ogni definizione, rispettando l’autorevolezza e l’unità del testo
magisteriale, e cercando quindi di evincerne il significato pur attraverso le
sue asperità. Come tale, è utile forse più a consigliare prudenza a chi ne
volesse trarre troppo facili conclusioni che non a stabilire interpretazioni
definitive ed incontestabili.
Caput VII
DE ARTE SACRA DEQUE SACRA
SUPELLECTILE
122
Inter nobilissimas ingenii humani exercitationes
artes ingenuae optimo iure adnumerantur, praesertim autem ars religiosa
eiusdemque culmen, ars nempe sacra. Quae natura sua ad infinitam pulchritudinem
divinam spectant, humanis operibus aliquomodo exprimendam, et Deo eiusdemque
laudi et gloriae provehendae eo magis addicuntur, quo nihil aliud eis
propositum est, quam ut operibus suis ad hominum mentes pie in Deum
convertendas maxime conferant.
Alma Mater Ecclesia proinde semper fuit ingenuarum
artium amica, earumque nobile ministerium, praecipue ut res ad sacrum cultum
pertinentes vere essent dignae, decorae ac pulchrae, rerum supernarum signa et
symbola, continenter quaesivit, artificesque instruxit. Immo earum veluti arbitram Ecclesia iure semper se
habuit, diiudicans inter artificum opera quae fidei, pietati legibusque
religiose traditis congruerent, atque ad usum sacrum idonea haberentur.
Peculiari
sedulitate Ecclesia curavit ut sacra supellex digne et pulchre cultus decori
inserviret, eas mutationes sive in materia, sive in forma, sive in ornatu
admittens, quas artis technicae progressus per temporis decursum invexit.
Placuit proinde Patribus hisce de rebus ea quae
sequuntur decernere.
Il § 122, primo
del capitolo VII della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium introduce l’argomento della
relazione tra arte e Chiesa. Nella sua prima frase esso opera un discrimine tra
l’arte religiosa e l’arte sacra, non come due campi separati ma individuando
invece nell’arte sacra il vertice dell’arte religiosa in generale. Il documento
non si spinge a descrivere le differenze tra le due forme di espressione artistica
e dal suo apparire lasciò così il campo aperto a molteplici speculazioni sulla
esatta definizione di arte sacra e di arte religiosa, che del resto erano già
in corso da qualche decennio specialmente nell’ambito degli studi sociologici
ed etnografici. Per quanto mi consta ritengo che la sintesi e le definizioni
più precise e convincenti in ambito cattolico sono quelle date recentemente da
Uwe Michael Lang (Signs of the Holy One,
Ignatius Press, 2015; cap. IV), e ad esse rimando. È però da notare che nella
prosecuzione del testo, allo stesso paragrafo 122, la distinzione inizialmente
proposta viene subito persa di vista ed anzi il discorso è rivolto in generale
alle arti, e non solo all’arte sacra. Si parla quindi esplicitamente della
Chiesa come amica delle “belle arti” in generale (Alma Mater Ecclesia proinde semper fuit ingenuarum
artium amica) e come arbitra
tra queste nella scelta dei caratteri e delle forme che di epoca in epoca più
si adeguano al servizio delle cose sacre. Il carattere dell’arte cui il testo
rimanda più spesso diventa infatti, a partire dalla seconda frase del paragrafo
di apertura, quello del servizio, e non quello della sacralità. Senza più
tornare sulla distinzione teorica tra arte religiosa e arte sacra, il resto del
testo del paragrafo, come pure quello dei paragrafi seguenti, indica come
indice d’elezione non la sacralità dell’arte o la sua religiosità, ma la sua
capacità di adeguarsi al servizio delle cose sacre. Questo modo di esprimersi
dei Padri Conciliari sembra voler sciogliere il nodo della definizione
dell’arte sacra e della sua differenza rispetto all’arte religiosa, senza al
contempo dare una definizione troppo stretta in campo artistico che esulava
dagli intenti e forse dalle competenze dei Padri. Elencando le caratteristiche
dell’arte o delle “belle arti” delle quali la Chiesa si è servita e intende
servirsi si leggono queste cinque espressioni:
- indirizzare
religiosamente le menti degli uomini a Dio;
- far splendere le
cose del culto sacro per dignità, decoro e bellezza;
- significare e
simbolizzare le realtà soprannaturali;
- rispondere alla
fede, alla pietà e alle norme religiosamente tramandate;
- adattarsi
all’uso sacro.
Questi cinque
caratteri possono dunque essere intesi, nell’opinione dei Padri conciliari,
come i requisiti che la Chiesa ha storicamente richiesto all’arte, affinché
essa fosse ammessa al servizio del culto. Per questa ragione, e sulla scorta
dell’interpretazione di U.M. Lang, cui facevamo riferimento, e che d’altra
parte echeggia e sistema molte osservazioni di Benedetto XVI, potremmo inferire
che queste sono le caratteristiche che distinguono, secondo i Padri conciliari,
l’arte sacra da quella religiosa, ad esclusione forse della terza condizione
che a causa del suo carattere soggettivo potrebbe essere comune alle due forme
artistiche.
Dalla sequenza
delle cinque condizioni emerge una definizione dell’oggetto d’arte sacra a
denotazione fortemente funzionale. Questa impressione è rafforzata dalla
penultima frase del § 122, dove, a riguardo delle sacre suppellettili, si
sottolinea che per ciò che riguarda materia, ornamento e perfino forma (!), la
Chiesa ha ammesso i cambiamenti che il progresso della tecnica artistica ha via
via introdotto. Resta poco chiara la menzione della forma nel riferimento ai
progressi tecnici. Sostenere che la forma muti a seconda delle evoluzioni
tecniche è una tesi potenzialmente rivoluzionaria in ambito liturgico e se
accettata potrebbe portare alla sostituzione degli evangeliari con il tablet. Chiaramente
si tratta di una falsa prospettiva, e come in molti altri campi, soprattutto in
quello liturgico è vero il contrario, e cioè che sono invece le nuove tecniche
a farsi carico di adeguare se stesse alle antiche forme, determinate da usi e
funzioni di assai più lenta mutazione. È chiaro che all’idea errata
dell’assoggettamento della forma al progresso tecnico sottende una visione
evoluzionista dell’arte, non dichiarata ma evidentemente implicata nel testo.
La menzione della forma in questa frase non è
d’altronde casuale, e sembra tra l’altro finalizzata a completare il quadro
dell’esaltazione dell’aspetto puramente funzionale dell’arte sacra. È evidente
infatti che ciò che descrive un qualsiasi oggetto è la forma, la materia e la
funzione, ma se nella forma e nella materia si può ammettere ogni cambiamento,
come sembra suggerire il testo, ecco che di esso resta la funzione come unico
elemento di permanenza.
In sintesi,
considerando l’esame fin qui proposto, il § 122 esprime una visione
dell’arte come risultato dell’evoluzione tecnica, e dell’arte sacra in
particolare come arte puramente funzionale alla liturgia. Certamente non solo
funzionale sul piano rituale ma anche su quello estetico e simbolico: il suo
compito ed essenza è cioè quello di accompagnare la liturgia sia nel suo
svolgersi materiale, sia nei significati che essa vuole esprimere: l’arte sacra
come strumento della liturgia.
È dunque
proprio in seguito a questa visione che nella costituzione conciliare
sulla riforma della liturgia non poteva mancare un capitolo sull’arte sacra, e
mentre il suo primo paragrafo descrive questa impostazione attraverso
un’interpretazione del passato storico, i paragrafi successivi sono destinati a
spiegare come l’arte sacra debba in effetti cambiare, non solo in conseguenza
dell’inesorabile sviluppo tecnico, secondo quella visione evoluzionista della
forma, ma in quanto strumento di una liturgia modificata.
123
Ecclesia nullum
artis stilum veluti proprium habuit, sed secundum gentium indoles ac condiciones
atque variorum Rituum necessitates modos cuiusvis aetatis admisit, efficiens
per decursum saeculorum artis thesaurum omni cura servandum. Nostrorum etiam
temporum atque omnium gentium et regionum ars liberum in Ecclesia exercitium
habeat, dummodo sacris aedibus sacrisque ritibus debita reverentia debitoque
honore inserviat; ita ut eadem ad mirabilem illum gloriae concentum, quem summi
viri per praeterita saecula catholicae fidei cecinere, suam queat adiungere
vocem.
Al § 123, il
secondo del capitolo VII, iniziano dunque le indicazioni per la nuova arte
sacra.
Si pone come
criterio da seguire quello del rispetto dovuto ai sacri templi (sacris aedibus) e ai sacri riti (sacri ritibus) in termini di reverentia e honor. Forse alla metà degli anni
Sessanta dello scorso secolo si poteva ancora immaginare che questi due
vocaboli, vecchi di millenni e fino ad allora mai sfioriti, avrebbero
conservato nei secoli avvenire la medesima forza ed il medesimo e positivo
valore. Pochi forse erano capaci di prevedere che proprio questi termini si
sarebbero in breve tempo svuotati di significato ed ancora più di valore, in
seguito ad una azione culturale aggressiva e capillare, politicamente usata per
demolire i fondamenti della morale tradizionale prima che delle istituzioni.
Reverenza e onore oggi evocano nell’immaginario dei più sensazioni e principi
negativi oltre che sorpassati. Qui si situa uno dei problemi di fondo, più
complesso e più radicale di quanto si potrebbe risolvere con una semplice
analisi del testo. Nel suscitare in se stessi il sentimento della reverenza e
quello dell’onore tributato alla divinità ai fini di elaborare manufatti capaci
di risvegliare le stesse emozioni in chi li osserva, l’artista e l’architetto
di oggi, come ogni uomo contemporaneo, troveranno il proprio cuore sguarnito,
privo delle risorse, delle capacità, per dare forma a dei sentimenti che essi
non conoscono più. La Chiesa, per sua parte, non li aiuta, poiché tali parole
sono successivamente scomparse anche dal suo vocabolario e gli stessi dignitari
ecclesiastici sovente disincentivano l’uso anche dei pochi appellativi
onorifici che ancora spetterebbero loro. Pertanto, questi particolari che soli
sono indicati come qualificativi delle sensazioni da associare al luogo di culto,
risultano al meglio privi di senso, al peggio appaiono controindicazioni.
Ma l’intero
paragrafo, seppur breve, enuncia altri due importanti concetti: quello
dell’universalità dell’arte sacra cattolica nello spazio e dell’universalità
dell’arte sacra cattolica nel tempo, ed infine riafferma la chiave per questa
universalità, che è appunto la funzionalità ai riti sacri, come si vedeva nel
paragrafo precedente. Ciò che ne emerge però è la sostanziale indifferenza
della Chiesa di fronte alle forme artistiche generate nelle diverse culture e
nei diversi momenti storici, tutte equiparandole in un unico indistinto tesoro.
Anche gli artisti contemporanei, si precisa in chiusura di paragrafo, potranno
contribuire a questo tesoro a condizione che servano alle esigenze dei sacri
riti, dacché si desume che la reale ed unica qualità che accomuna le opere di
arte sacra accumulate attraverso la storia, sia appunto la strumentalità al
rito. La prima frase del paragrafo contiene una verità solo apparente. È
soltanto infatti attraverso la mentalità dell’uomo occidentale moderno che il
testo procede scorrevolmente e non ci si accorge che a discapito delle
longitudini raggiunte dal governo ecclesiale non sia mai stata costruita o
quanto meno approvata nel corso della storia fino al Novecento una chiesa a
forma di piramide azteca o di tempio indù, ma al contrario, soprattutto nei
territori di missione, la Chiesa ha sempre esportato un modello
estetico-artistico di matrice occidentale, sebbene di volta in volta declinato
a seconda delle possibilità che il luogo offriva in termini di materiali e di
mezzi tecnici disponibili e più raramente in accordo coi gusti locali. È così
che è fiorito lo strabiliante barocco latino-americano, come è così che si
trovano chiese neo-gotiche in Africa ed in Estremo Oriente. D’altra parte, il
redattore del testo, pur menzionando «l’indole e la condizione dei popoli» (secundum gentium indoles ac condiciones) è stato accorto nello
specificare che la «Chiesa … ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca»,
senza aggiungere però “di ogni luogo”, che sarebbe suonato palesemente falso.
Perché l’enunciato fosse completo e coerente si sarebbe dovuto affermare che la
Chiesa ha sempre ammesso le forme artistiche di ogni epoca secondo l’indole e
le condizioni dei popoli occidentali, il che sarebbe però stato sconveniente ed
anche francamente fuori luogo in un documento sulla liturgia. Ma soprattutto un
approccio così franco avrebbe sminuito la priorità funzionale verso la quale
l’interezza del testo vuole indirizzare il discorso artistico a vantaggio
invece di un discorso stilistico in ogni modo evitato.
124
Curent Ordinarii
ut artem vere sacram promoventes eique faventes, potius nobilem intendant
pulchritudinem quam meram sumptuositatem. Quod etiam intellegatur de sacris
vestibus et ornamentis.
Curent Episcopi ut
artificum opera, quae fidei et moribus, ac christianae pietati repugnent,
offendantque sensum vere religiosum vel ob formarum depravationem, vel ob artis
insufficientiam, mediocritatem ac simulationem, ab aedibus Dei aliisque locis
sacris sedulo arceantur.
In aedificandis
vero sacris aedibus, diligenter curetur ut ad liturgicas actiones exsequendas
et ad fidelium actuosam participationem obtinendam idoneae sint.
Se dunque fin ora
il capitolo è rimasto rigorosamente impostato sul filone della predominanza
funzionale, è con il § 124 che emergono delle difficoltà nella sua
interpretazione generale. Esso si apre con un’iniziale opposizione tra “nobile
bellezza” e “mera sontuosità” (potius nobilem intendant pulchritudinem quam meram sumptuositatem), che desta qualche
perplessità sia nel merito che nel contesto. Prima di analizzare le
implicazioni dell’antitesi così costruita è bene soffermarsi brevemente sul
significato o sui significati possibili delle due espressioni. L’espressione
“nobile bellezza” fa eco alle simili parole usate a proposito dei riti
liturgici alcuni paragrafi prima: al paragrafo 34 dello stesso documento si
legge infatti «I riti risplendano per nobile semplicità» (Ritus nobili simplicitate fulgeant), e si specifica poi la
necessità di brevità e di facile comprensione dei testi liturgici,
raccomandando di eliminare da essi tutte quelle ripetizioni sedimentate nei
secoli, che pure aiutavano a meglio imprimere nella memoria dei fedeli e dei
sacerdoti intere sezioni della liturgia. L’espressione “nobile semplicità” è
molto usata nella trattatistica e nella letteratura a partire dalla metà del
Settecento ogni qual volta si vogliano elogiare delle qualità estetiche o
morali tanto in un’opera artistica quanto in un essere umano. È da ricordare in
proposito l’uso più celebre di questa espressione, nonché uno dei più precoci
in epoca moderna: quello che ne fece Winckelmann per definire il carattere
dell’arte greca classica, in tedesco “edle Einfalt”, appunto “nobile
semplicità” (J. J. Winckelmann, Gedanken über die Nachahmung der Griechischen Wercke in der Mahlerei und
Bildhauer-Kunst, 1755). Le parole
di Winckelmann, mentre descrivevano l’estetica greca antica considerata dal suo
particolare punto di vista, tracciavano al contempo le linee della nuova
estetica neoclassica che a quella greca voleva inizialmente ispirarsi. Tali
principi formali si ponevano in aperta e polemica opposizione alla temperie
artistica precedente, che già andava sotto il nome di barocco, e infersero ad
essa un colpo letale destinato ad imprimere all’estetica barocca uno stigma
negativo che durò per più di due secoli. L’affinità dell’espressione “nobile
semplicità”, usata da Sacrosanctum
Concilium a proposito dei riti, con l’espressione “nobile bellezza”
impiegata a proposito dell’arte sacra evoca indubbiamente un’analogia: bellezza
e semplicità ne escono quasi sinonimi ed anzi la semplicità diventa una
condizione della bellezza. L’interpretazione più ovvia è che, come bisognerà
semplificare la liturgia per soddisfare le prescrizioni conciliari in materia
di rito, allo stesso modo in materia di arte sacra si dovrà semplificare
l’apparato estetico che accompagnava il culto. Il parallelo storico ed estetico
cui rimanda l’analogia con Winckelmann suggerisce che se alla nobile semplicità
del Neoclassico si contrappone in negativo la convoluta espressività barocca,
allora la nuova arte sacra ispirata da quella nobile bellezza dovrà prendere le
distanze da una “mera sontuosità” facilmente identificata nei barocchismi
sopravvissuti fino alla metà del Novecento nella maggior parte delle chiese.
Che la lettura prevalente di queste espressioni del documento conciliare sia
stata proprio quella appena esposta si può asserire con una certa facilità,
almeno a giudicare dai risultati che questo paragrafo della S.C. ha generato, e
cioè il drastico allontanamento da tutto ciò che potesse in qualche misura
ricordare le atmosfere vibranti, coinvolgenti e drammatiche di quell’estetica
fino ad allora dominante nelle chiese e la rapida sostituzione dei vecchi
manufatti con nuove opere che hanno come elemento in comune la ricerca di una
esibita semplicità, spesso solo apparente.
Questo per quanto
attiene al merito, ma anche il contesto è problematico. Con la dicotomia tra
bellezza e sontuosità il documento introduce per la prima volta
un’osservazione, se non una condizione, di natura strettamente estetica ma
soprattutto per natura assai opinabile, all’interno di un discorso fin ora
coerente e solidamente caratterizzato dalla dominanza funzionale. Per altro una
simile osservazione, che come abbiamo visto comporta una definizione della
bellezza, avrebbe avuto maggior senso nel primo o nel secondo paragrafo del
capitolo, dove si definivano le caratteristiche generali dell’arte sacra
secondo la Chiesa. Invero nel § 122 si dice anche che le arti hanno
relazione, per loro natura, con l’infinita bellezza di Dio, ed in quel contesto
avrebbe avuto spazio l’inserimento di un discrimine tra ciò che è vera bellezza
e ciò che è solo esibizione di ricchezza. In quel paragrafo però, come in
quello successivo, una simile osservazione non poteva trovare posto perché
stridente con gli altri contenuti ivi enunciati e che erano il vero obiettivo
del discorso. Poco prima infatti si era dichiarato che la Chiesa abbia ammesso
variazioni di forma e materiali a seconda delle evoluzioni tecniche e che abbia
incluso espressioni artistiche di ogni epoca, ma è evidente che non sempre
queste furono ispirate a quella “nobile bellezza” le cui origini ed il cui
carattere abbiamo appena tratteggiato. Qualsiasi definizione è esclusiva, e
dunque nessuna definizione della bellezza è compatibile con l’affermazione che
la Chiesa abbia a buon diritto incluso ogni espressione artistica nel corso
della storia col solo discrimine della sua funzionalità al culto. In sintesi,
l’antitesi tra “nobile bellezza” e “mera sontuosità” citata al § 124 è
contraddittoria con quanto descritto ai §§ 122 e 123 a proposito dell’azione
storica della Chiesa e compare fuori contesto nello stesso § 124 che dovrebbe
invece essere indirizzato alle indicazioni applicative piuttosto che alle
definizioni. A ben vedere tuttavia, questa definizione della bellezza potrebbe
non essere pensata a livello generale e per così dire teoretico, ma piuttosto
inserita solo in vista delle nuove realizzazioni da operarsi, ed è quindi
probabilmente da leggere non come aggiunta alla descrizione dell’atteggiamento
storico della Chiesa verso le arti, ma come chiave interpretativa che i
redattori del documento usano per rapportarsi all’arte loro contemporanea. Il
valore di questa espressione non sarebbe perciò assoluto ma volutamente
relativo ai tempi dell’epoca di redazione. Ripercorrendo il filo logico dai
paragrafi precedenti fino a questo punto si dovrebbe intendere il discorso in
questo modo: la Chiesa ha sempre accettato le espressioni artistiche del
momento, selezionandole sulla base della loro funzionalità al culto, e così
facendo ha avuto un ruolo di discernimento dell’eccellenza delle opere e al
contempo di indirizzo nelle presenti e future espressioni artistiche, e dunque
oggi, nel proseguire questa sua funzione di “arbitro” nelle cose d’arte sacra,
addita la semplicità (alias bellezza) come strada da seguire nelle
realizzazioni a venire, in quanto la individua e la sceglie come carattere
peculiare e preferibile dell’epoca artistica corrente (al tempo della scrittura
del testo). Sebbene il precedente paragrafo esordisca col dire che la Chiesa
non ha mai fatto proprio alcuno stile artistico, qui si indica invece, se non
uno stile, quanto meno una caratteristica stilistica da perseguire nel
contingente momento storico tanto quanto una opposta da evitare.
È curioso
l’accostamento dell’enunciato che abbiamo appena commentato con quello
seguente, nel comma successivo dello stesso § 124, dove si invitano i
vescovi ad allontanare dai luoghi sacri quelle opere che offendano la fede, i
costumi e la pietà o il senso religioso, attraverso la depravazione delle forme,
o attraverso l’insufficienza, la mediocrità o la falsità dell’espressione
artistica. Di per sé quest’ultima affermazione è perfettamente tradizionale ed
in linea con quanto storicamente operato dalla Chiesa per secoli, e perciò
sulla base di queste parole avremmo dovuto vedere la Chiesa post-conciliare
mettere al bando le versioni della crocifissione non conformi alla verità
storica, le immagini mariane non corrispondenti alla pietà tradizionale, le
versioni astratte e quelle deformanti dei soggetti sacri, per non parlare
dell’infinita paccottiglia di bricolage parrocchiale. Come sappiamo, invece,
queste infestano ogni nuova chiesa. Quello che è accaduto è che la lettura di
quelle righe in immediata successione alle precedenti, dove si invitava ad escludere
la “mera sontuosità” dalle opere d’arte sacra, fa nascere un corto circuito che
lega l’idea del lusso e della ricchezza all’inadeguatezza al contesto religioso
e alla falsa espressione artistica: è come se l’offesa alla fede e la
mediocrità artistica diventino attributi della “mera sontuosità” di cui al
comma precedente. La banale equazione che se ne ricava è che ciò che è semplice
e spoglio, e forse ostenta povertà, sia nobile e bello e idoneo al culto,
mentre ciò che è ricco e ornato sia poco artistico ed offenda la pietà
religiosa. Questo è quanto emerge da una veloce lettura, e perciò è quanto è
stato maggiormente recepito, ma si tratta probabilmente di una interpretazione
errata, frettolosa, o malevola. In realtà, con gli inviti alla prudenza del comma
2 del § 124, è probabile che i Padri conciliari volessero mettere in guardia il
clero da una parte importante dell’arte loro contemporanea, in un’epoca in cui
l’astrattismo e l’arte informale nelle loro diverse correnti stavano producendo
opere effettivamente incompatibili con il culto cattolico, a prescindere dal
contenuto religioso che i loro autori volessero riversarvi o i loro estimatori
leggere in esse. Anche l’accostamento di questo comma a quello precedente, dove
si invitava ad escludere la sontuosità dalle opere da esporre in chiesa, è
forse da interpretare come una spinta verso la ricerca di una terza via, capace
da un lato di rinnovare l’arte sacra spogliandola del decorativismo di
tradizione ottocentesca ancora molto vivo alla metà del secolo scorso, e
dall’altra di tenersi lontana dalle suggestioni delle avanguardie e
post-avanguardie che avevano ormai guadagnato il favore della critica artistica
predominante. Interpretato in questo modo, il § 124 risulta sano negli intenti
e tradizionale nell’approccio. Purtroppo, però, anche trascurando l’errata
interpretazione della quale è stato oggetto e che poco sopra abbiamo
esemplificato, l’intero paragrafo risulta superato già al momento della sua
scrittura. Quella terza via, che abbiamo da ultimo menzionato e che costituisce
la migliore interpretazione possibile del testo, era stata già cercata da un
filone importante di artisti attraverso tutta la prima metà del Novecento, i
quali ben prima tentarono di perseguire quelle linee che la Sacrosanctum Concilium andò ad enunciare
solo nel 1964. La scuola di Beuron si era già esaurita da molto tempo e
l’atelier di arte sacra della Societé de Saint-Jean, per citare due movimenti
di ricerca e pratica artistica tra i più influenti nel contesto dell’arte sacra
del primo Novecento e più impegnati nella ricerca di una modernità alternativa
a quella iniziata dalle avanguardie, si era chiusa nel 1948 senza lasciare un
seguito. L’arretratezza dell’invito conciliare del 1964 non è comunque
condannabile: la necessità di trovare un’espressività artistica che fugga le
inclinazioni sincretiste, nichiliste, esistenzialiste, gnostiche, per non dire
più o meno apertamente anticristiane, tipiche di molta attività artistica
contemporanea era ancora e più che mai viva negli anni ’60, tanto quanto è
attuale oggi. Se quello che è avvenuto dopo il ’64 è l’opposto, ciò si deve,
almeno in parte, proprio all’equivoco accostamento tra i commi primo e secondo
del § 124, come si è prima spiegato.
Infine, all’ultimo
comma del § 124 si citano gli edifici di culto limitandosi, questa volta senza
giri di parole, a richiedere la loro idoneità funzionale, ritornando così sui
binari che avevano retto l’enunciazione dei §§ 122 e 123. Questa volta la
funzionalità delle opere è però meglio specificata: non si tratta solo di
rendere gli edifici funzionali alla liturgia ma anche di renderli idonei alla actuosa partecipatio descritta al capitolo due
della stessa costituzione conciliare. Non c’è dubbio che questa aggiunta alla
descrizione funzionale non sia casuale, e rappresenti il punto di svolta più
decisivo in tutto il capitolo. Mentre nel resto del testo non si fanno menzioni
specifiche delle caratteristiche della liturgia, né di quella tradizionale né
di quella riformata, qui per la prima volta si vuole sottolineare
esplicitamente il cambiamento liturgico. Se nella mente dei redattori del
documento l’architettura sacra avrebbe potuto semplicemente continuare ad
evolversi seguendo quelle evoluzioni tecniche che già si erano ricordate a
proposito delle suppellettili liturgiche non ci sarebbe stato alcun bisogno di
evocare qui quella “actuosa partecipatio” che fu e resta tra i punti più
sottolineati della riforma liturgica nel bene e nel male. Per i redattori del
capitolo quindi l’architettura sacra doveva cambiare. Ma come? È lasciato agli
architetti immaginare come meglio implementare questo aspetto delle richieste
conciliari, e certamente di sperimentazioni e di modelli se ne sono creati
molti a partire da allora. Se il risultato, a più di cinquant’anni, è senza
dubbio insoddisfacente lo si deve, a mio avviso, piuttosto alla tendenziosa
interpretazione del capitolo II che all’imperizia degli architetti. A seconda
dell’interpretazione di “actuosa partecipatio” che si voglia dare, affioreranno
diverse proposte possibili sul piano progettuale, ed è anche su questo punto
che si gioca la partita delle future evoluzioni dell’architettura sacra.
125
Firma maneat
praxis, in ecclesiis sacras imagines fidelium venerationi proponendi; attamen
moderato numero et congruo ordine exponantur, ne populo christiano admirationem
inficiant, neve indulgeant devotioni minus rectae.
Queste ventisette
parole sono tutto ciò che il Concilio ebbe da dire nel testo sull’arte sacra a
proposito della produzione, della funzione e della venerazione delle immagini.
Ad esse si aggiunge una menzione al § 111 dov’è scritto che si abbiano in
venerazione le immagini dei santi. La brevità dello spazio dedicato non può non
essere primo indizio della marginalità cui si voleva relegare l’argomento, o
meglio ancora dell’accantonamento al quale gli estensori del documento vollero
destinare il culto delle immagini. È infatti un paragrafo che si risalta più
per le assenze che per i contenuti presenti. La svalutazione delle immagini
inizia qui fin dalle prime parole: l’argomento è immediatamente affrontato dal
punto di vista della prassi, nulla si dice né si dirà sulla teoria della
venerazione delle immagini. Poiché una prassi priva di teoria è vuota
gestualità non meraviglia che l’argomento finisca per essere liquidato in due
righe. Ma non soltanto si evita di offrire anche un abbozzo di teoria sulle
immagini venerabili, bensì si omette affatto di esplicitare qualsiasi funzione
ed uso delle immagini, come invece aveva fatto il Concilio Tridentino. Se si
inquadrano queste parole nel loro contesto storico si dovrà riconoscere come
negli anni Cinquanta e negli anni Sessanta si stava assistendo ad una riduzione
delle immagini proposte al culto rispetto alle epoche precedenti. Sebbene ci
fosse una rifioritura parziale della pittura a soggetto sacro, è vero però che
ormai moltissimi altari, e la maggior parte degli altari maggiori, erano già
costruiti separati dal muro e quindi sprovvisti di vere e proprie pale
d’altare. Se si aggiunge che il numero degli altari laterali a muro realizzati
in quegli anni fu veramente esiguo, si comprenderà come l’immagine aveva ormai
già perso la sua centralità nel culto cattolico per diventare un accessorio
spesso a scopo illustrativo. In quella situazione ci si poteva forse aspettare
che il Concilio richiamasse ad un uso maggiore e più efficace delle immagini, e
invece accadde il contrario: il testo che risulta dal Concilio non solo avvalla
la tendenza dominante ma la sprona a ridurre ancora il numero di immagini
dietro due pretesti: che le immagini potrebbero eccitare la fantasia del popolo
cristiano e che potrebbero indurlo in devozioni poco corrette. È difficile
riuscire ad entrare nella mentalità di chi redasse questo testo e comprendere
come, scrivendo costui per un concilio pastorale, volto all’umanità degli anni
Sessanta, quella della televisione in ogni casa, della lettura di massa dei
giornali, delle pubblicità che conquistavano a mano a mano ogni muro delle
città, aveva invece costui il cruccio che il numero o la disposizione dei
dipinti in chiesa potesse confondere l’ammirazione dei fedeli. Quanto al gran
problema della devozione poco retta indotta dalle immagini, non si capisce bene
come questa rettitudine sia relazionata al numero delle immagini e alla loro
disposizione, e non invece alla loro adeguatezza iconografica, sulla quale non
si spende parola. Associate al silenzio sospetto circa il beneficio delle
immagini per la fede e per il culto, queste due grandi, macroscopiche
incoerenze: il timore per l’effetto delle immagini in chiesa nella società
dell’immagine, e il pericolo di scorretta devozione derivante dal numero delle
immagini e non dalla loro configurazione, lasciano trasparire con poche
incertezze l’obiettivo reale di chi ha scritto questo paragrafo: attaccare la
venerazione delle immagini tout court, obiettivo perfettamente centrato come si
vede dai frutti di questo documento, che a distanza di trent’anni dalla sua
pubblicazione ha aperto le porte delle chiese all’ingresso dell’astratto e
dell’informale o ad istruzioni episcopali che suggeriscono la presenza di un
numero massimo di due o tre immagini sacre nelle chiese parrocchiali.
126
In diiudicandis
artis operibus Ordinarii locorum audiant Commissionem dioecesanam de Arte
sacra, et, si casus ferat, alios viros valde peritos, necnon Commissiones de
quibus in articulis 44, 45, 46.
Sedulo advigilent
Ordinarii ne sacra supellex vel opera pretiosa, utpote ornamenta domus Dei,
alienentur vel disperdantur.
Il § 126 avvicina
due capoversi dal contenuto molto diverso. Il primo intende uniformare una
prassi evidentemente poco diffusa: quella di prevedere in diocesi una
commissione di arte sacra e di delegare ad essa, o ad altri esperti, la
valutazione delle opere di rilievo particolare da introdurre nelle chiese. Il
secondo capoverso ammonisce di non alienare o disperdere il patrimonio di
opere e suppellettili sacre. Quando si dice che il Concilio Vaticano II
non è stato ancora attuato bisognerebbe cominciare da questo paragrafo.
127
Episcopi vel per
se ipsos vel per sacerdotes idoneos qui peritia et artis amore praediti sunt,
artificum curam habeant, ut eos spiritu Artis sacrae et sacrae Liturgiae
imbuant.
Insuper
commendatur ut scholae vel Academiae de Arte Sacra ad artifices formandos
instituantur in illis regionibus in quibus id visum fuerit.
Artifices autem
omnes, qui ingenio suo ducti, gloriae Dei in Ecclesia sancta servire intendunt,
semper meminerint agi de sacra quadam Dei Creatoris imitatione et de operibus
cultui catholico, fidelium aedificationi necnon pietati eorumque instructioni
religiosae destinatis.
e
129
Clerici, dum
philosophicis et theologicis studiis incumbunt, etiam de artis sacrae historia
eiusque evolutione instituantur, necnon de sanis principiis quibus opera artis
sacrae inniti debent, ita ut Ecclesiae venerabilia monumenta aestiment atque
servent, et artificibus in operibus efficiendis congrua consilia queant
praebere.
I §§ 127 e 129,
sulla scia del § 126, danno indicazioni applicative per l’amministrazione del
patrimonio artistico e della futura produzione d’arte nella Chiesa. Si
enfatizza il ruolo che potrebbe rivestire lo studio dell’arte nella formazione
dei chierici e l’importanza del dialogo tra questi e gli artisti, nonché della
necessità di strumenti di formazione apposita per gli artisti che si dedicano
all’arte sacra. Originale è l’appello agli artisti dell’ultimo periodo del
paragrafo 127, dove la costituzione conciliare si rivolge direttamente a
questi, che diventano così l’unica categoria sociale cui questa costituzione
conciliare si rivolge specificamente, al fianco dei religiosi.
128
Canones et statuta
ecclesiastica, quae rerum externarum ad sacrum cultum pertinentium apparatum
spectant, praesertim quoad aedium sacrarum dignam et aptam constructionem,
altarium formam et aedificationem, tabernaculi eucharistici nobilitatem,
dispositionem et securitatem, baptisterii convenientiam et honorem, necnon
congruentem sacrarum imaginum, decorationis et ornatus rationem, una cum libris
liturgicis ad normam art. 25 quam primum recognoscantur: quae liturgiae
instauratae minus congruere videntur, emendentur aut aboleantur; quae vero ipsi
favent, retineantur vel introducantur.
Qua in re,
praesertim quoad materiam et formam sacrae supellectilis et indumentorum,
territorialibus Episcoporum Coetibus facultas tribuitur res aptandi
necessitatibus et moribus locorum, ad normam art. 22 huius Constitutionis.
Il § 128 dichiara,
è il caso di dire senza troppe cerimonie, che qualsiasi cosa si trovi
all’interno delle chiese, e le chiese stesse nella loro conformazione
architettonica, dovrà essere riveduta e corretta alla luce dei nuovi libri
liturgici e di quanto si stabilisce nella costituzione conciliare. Anche la
normativa precedente, ove presente, dovrà cedere ove si trovi in contrasto a
quanto possa scaturire dalla riforma. È chiaro che questo articolo sguarnisce
di ogni difesa le chiese storiche ma soprattutto il modo tradizionale di fare e
guardare l’arte nelle chiese, e allo stesso tempo concede carta bianca a chi
sarà incaricato di redigere le più dettagliate istruzioni di correzione. Esso è
tuttavia l’inevitabile conseguenza dell’approccio funzionalista all’arte
adottato fin dal § 122 all’inizio del capitolo. Se la funzione dell’arte è
condizionata interamente ed unicamente dalla liturgia, ed è priva quindi di uno
statuto teorico, metafisico proprio, se manca una teologia delle immagini e
degli spazi, o se non è riconosciuta, ne consegue che essa dovrà mutare
conformemente fisionomia e missione di pari passo ai cambiamenti liturgici. Il §
128, nella sua scabrosità e rozzezza, nel suo carattere da decreto rivoluzionario,
riassume bene l’intero capitolo. Laddove tutto è ridotto a funzione, nulla
merita più alcun rispetto e la tradizione diventa parola senza senso.
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