sabato 22 dicembre 2018

Commento al cap. VII della Sacrosanctum Concilium in occasione della VI Antifona Maggiore

In questo giorno l’Antifona maggiore che si canta, durante i Vespri, al Magnificat ed al versetto alleluiatico del Vangelo è la V: O Rex Gentium.






Proseguiamo la lettura della Sacrosanctum Concilium, pubblicando il commento al suo cap. VII del dott. Andrea De Meo Arbore.

Commento al cap. VII della Sacrosanctum Concilium

di Andrea De Meo Arbore

Nota al lettore
La lettura del capitolo VII della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium che qui si propone non può e non vuole essere un esame storico-critico del documento. Tale esame sarebbe assai opportuno e, indagando accuratamente i testi preparatori, identificando con cura tutti i redattori e i loro ispiratori, potrebbe rischiarare molte opacità del testo definitivo. Le righe che seguono, invece, sono solo un commento lento e ragionato alla lettura di una piccola parte del documento conciliare, che si attiene quanto più possibile alla lettera senza indagare le origini e gli autori di ogni definizione, rispettando l’autorevolezza e l’unità del testo magisteriale, e cercando quindi di evincerne il significato pur attraverso le sue asperità. Come tale, è utile forse più a consigliare prudenza a chi ne volesse trarre troppo facili conclusioni che non a stabilire interpretazioni definitive ed incontestabili.
       
Caput VII
DE ARTE SACRA DEQUE SACRA SUPELLECTILE

122
Inter nobilissimas ingenii humani exercitationes artes ingenuae optimo iure adnumerantur, praesertim autem ars religiosa eiusdemque culmen, ars nempe sacra. Quae natura sua ad infinitam pulchritudinem divinam spectant, humanis operibus aliquomodo exprimendam, et Deo eiusdemque laudi et gloriae provehendae eo magis addicuntur, quo nihil aliud eis propositum est, quam ut operibus suis ad hominum mentes pie in Deum convertendas maxime conferant.
Alma Mater Ecclesia proinde semper fuit ingenuarum artium amica, earumque nobile ministerium, praecipue ut res ad sacrum cultum pertinentes vere essent dignae, decorae ac pulchrae, rerum supernarum signa et symbola, continenter quaesivit, artificesque instruxit. Immo earum veluti arbitram Ecclesia iure semper se habuit, diiudicans inter artificum opera quae fidei, pietati legibusque religiose traditis congruerent, atque ad usum sacrum idonea haberentur.
Peculiari sedulitate Ecclesia curavit ut sacra supellex digne et pulchre cultus decori inserviret, eas mutationes sive in materia, sive in forma, sive in ornatu admittens, quas artis technicae progressus per temporis decursum invexit.
Placuit proinde Patribus hisce de rebus ea quae sequuntur decernere.

Il § 122, primo del capitolo VII della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium introduce l’argomento della relazione tra arte e Chiesa. Nella sua prima frase esso opera un discrimine tra l’arte religiosa e l’arte sacra, non come due campi separati ma individuando invece nell’arte sacra il vertice dell’arte religiosa in generale. Il documento non si spinge a descrivere le differenze tra le due forme di espressione artistica e dal suo apparire lasciò così il campo aperto a molteplici speculazioni sulla esatta definizione di arte sacra e di arte religiosa, che del resto erano già in corso da qualche decennio specialmente nell’ambito degli studi sociologici ed etnografici. Per quanto mi consta ritengo che la sintesi e le definizioni più precise e convincenti in ambito cattolico sono quelle date recentemente da Uwe Michael Lang (Signs of the Holy One, Ignatius Press, 2015; cap. IV), e ad esse rimando. È però da notare che nella prosecuzione del testo, allo stesso paragrafo 122, la distinzione inizialmente proposta viene subito persa di vista ed anzi il discorso è rivolto in generale alle arti, e non solo all’arte sacra. Si parla quindi esplicitamente della Chiesa come amica delle “belle arti” in generale (Alma Mater Ecclesia proinde semper fuit ingenuarum artium amica) e come arbitra tra queste nella scelta dei caratteri e delle forme che di epoca in epoca più si adeguano al servizio delle cose sacre. Il carattere dell’arte cui il testo rimanda più spesso diventa infatti, a partire dalla seconda frase del paragrafo di apertura, quello del servizio, e non quello della sacralità. Senza più tornare sulla distinzione teorica tra arte religiosa e arte sacra, il resto del testo del paragrafo, come pure quello dei paragrafi seguenti, indica come indice d’elezione non la sacralità dell’arte o la sua religiosità, ma la sua capacità di adeguarsi al servizio delle cose sacre. Questo modo di esprimersi dei Padri Conciliari sembra voler sciogliere il nodo della definizione dell’arte sacra e della sua differenza rispetto all’arte religiosa, senza al contempo dare una definizione troppo stretta in campo artistico che esulava dagli intenti e forse dalle competenze dei Padri. Elencando le caratteristiche dell’arte o delle “belle arti” delle quali la Chiesa si è servita e intende servirsi si leggono queste cinque espressioni:
- indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio;
- far splendere le cose del culto sacro per dignità, decoro e bellezza;
- significare e simbolizzare le realtà soprannaturali;
- rispondere alla fede, alla pietà e alle norme religiosamente tramandate;
- adattarsi all’uso sacro.
Questi cinque caratteri possono dunque essere intesi, nell’opinione dei Padri conciliari, come i requisiti che la Chiesa ha storicamente richiesto all’arte, affinché essa fosse ammessa al servizio del culto. Per questa ragione, e sulla scorta dell’interpretazione di U.M. Lang, cui facevamo riferimento, e che d’altra parte echeggia e sistema molte osservazioni di Benedetto XVI, potremmo inferire che queste sono le caratteristiche che distinguono, secondo i Padri conciliari, l’arte sacra da quella religiosa, ad esclusione forse della terza condizione che a causa del suo carattere soggettivo potrebbe essere comune alle due forme artistiche.
Dalla sequenza delle cinque condizioni emerge una definizione dell’oggetto d’arte sacra a denotazione fortemente funzionale. Questa impressione è rafforzata dalla penultima frase del § 122, dove, a riguardo delle sacre suppellettili, si sottolinea che per ciò che riguarda materia, ornamento e perfino forma (!), la Chiesa ha ammesso i cambiamenti che il progresso della tecnica artistica ha via via introdotto. Resta poco chiara la menzione della forma nel riferimento ai progressi tecnici. Sostenere che la forma muti a seconda delle evoluzioni tecniche è una tesi potenzialmente rivoluzionaria in ambito liturgico e se accettata potrebbe portare alla sostituzione degli evangeliari con il tablet. Chiaramente si tratta di una falsa prospettiva, e come in molti altri campi, soprattutto in quello liturgico è vero il contrario, e cioè che sono invece le nuove tecniche a farsi carico di adeguare se stesse alle antiche forme, determinate da usi e funzioni di assai più lenta mutazione. È chiaro che all’idea errata dell’assoggettamento della forma al progresso tecnico sottende una visione evoluzionista dell’arte, non dichiarata ma evidentemente implicata nel testo. La menzione della forma in questa frase non è d’altronde casuale, e sembra tra l’altro finalizzata a completare il quadro dell’esaltazione dell’aspetto puramente funzionale dell’arte sacra. È evidente infatti che ciò che descrive un qualsiasi oggetto è la forma, la materia e la funzione, ma se nella forma e nella materia si può ammettere ogni cambiamento, come sembra suggerire il testo, ecco che di esso resta la funzione come unico elemento di permanenza.
In sintesi, considerando l’esame fin qui proposto, il § 122 esprime una visione dell’arte come risultato dell’evoluzione tecnica, e dell’arte sacra in particolare come arte puramente funzionale alla liturgia. Certamente non solo funzionale sul piano rituale ma anche su quello estetico e simbolico: il suo compito ed essenza è cioè quello di accompagnare la liturgia sia nel suo svolgersi materiale, sia nei significati che essa vuole esprimere: l’arte sacra come strumento della liturgia.
È dunque  proprio in seguito a questa visione che nella costituzione conciliare sulla riforma della liturgia non poteva mancare un capitolo sull’arte sacra, e mentre il suo primo paragrafo descrive questa impostazione attraverso un’interpretazione del passato storico, i paragrafi successivi sono destinati a spiegare come l’arte sacra debba in effetti cambiare, non solo in conseguenza dell’inesorabile sviluppo tecnico, secondo quella visione evoluzionista della forma, ma in quanto strumento di una liturgia modificata.

123
Ecclesia nullum artis stilum veluti proprium habuit, sed secundum gentium indoles ac condiciones atque variorum Rituum necessitates modos cuiusvis aetatis admisit, efficiens per decursum saeculorum artis thesaurum omni cura servandum. Nostrorum etiam temporum atque omnium gentium et regionum ars liberum in Ecclesia exercitium habeat, dummodo sacris aedibus sacrisque ritibus debita reverentia debitoque honore inserviat; ita ut eadem ad mirabilem illum gloriae concentum, quem summi viri per praeterita saecula catholicae fidei cecinere, suam queat adiungere vocem.

Al § 123, il secondo del capitolo VII, iniziano dunque le indicazioni per la nuova arte sacra.
Si pone come criterio da seguire quello del rispetto dovuto ai sacri templi (sacris aedibus) e ai sacri riti (sacri ritibus) in termini di reverentia e honor. Forse alla metà degli anni Sessanta dello scorso secolo si poteva ancora immaginare che questi due vocaboli, vecchi di millenni e fino ad allora mai sfioriti, avrebbero conservato nei secoli avvenire la medesima forza ed il medesimo e positivo valore. Pochi forse erano capaci di prevedere che proprio questi termini si sarebbero in breve tempo svuotati di significato ed ancora più di valore, in seguito ad una azione culturale aggressiva e capillare, politicamente usata per demolire i fondamenti della morale tradizionale prima che delle istituzioni. Reverenza e onore oggi evocano nell’immaginario dei più sensazioni e principi negativi oltre che sorpassati. Qui si situa uno dei problemi di fondo, più complesso e più radicale di quanto si potrebbe risolvere con una semplice analisi del testo. Nel suscitare in se stessi il sentimento della reverenza e quello dell’onore tributato alla divinità ai fini di elaborare manufatti capaci di risvegliare le stesse emozioni in chi li osserva, l’artista e l’architetto di oggi, come ogni uomo contemporaneo, troveranno il proprio cuore sguarnito, privo delle risorse, delle capacità, per dare forma a dei sentimenti che essi non conoscono più. La Chiesa, per sua parte, non li aiuta, poiché tali parole sono successivamente scomparse anche dal suo vocabolario e gli stessi dignitari ecclesiastici sovente disincentivano l’uso anche dei pochi appellativi onorifici che ancora spetterebbero loro. Pertanto, questi particolari che soli sono indicati come qualificativi delle sensazioni da associare al luogo di culto, risultano al meglio privi di senso, al peggio appaiono controindicazioni.
Ma l’intero paragrafo, seppur breve, enuncia altri due importanti concetti: quello dell’universalità dell’arte sacra cattolica nello spazio e dell’universalità dell’arte sacra cattolica nel tempo, ed infine riafferma la chiave per questa universalità, che è appunto la funzionalità ai riti sacri, come si vedeva nel paragrafo precedente. Ciò che ne emerge però è la sostanziale indifferenza della Chiesa di fronte alle forme artistiche generate nelle diverse culture e nei diversi momenti storici, tutte equiparandole in un unico indistinto tesoro. Anche gli artisti contemporanei, si precisa in chiusura di paragrafo, potranno contribuire a questo tesoro a condizione che servano alle esigenze dei sacri riti, dacché si desume che la reale ed unica qualità che accomuna le opere di arte sacra accumulate attraverso la storia, sia appunto la strumentalità al rito. La prima frase del paragrafo contiene una verità solo apparente. È soltanto infatti attraverso la mentalità dell’uomo occidentale moderno che il testo procede scorrevolmente e non ci si accorge che a discapito delle longitudini raggiunte dal governo ecclesiale non sia mai stata costruita o quanto meno approvata nel corso della storia fino al Novecento una chiesa a forma di piramide azteca o di tempio indù, ma al contrario, soprattutto nei territori di missione, la Chiesa ha sempre esportato un modello estetico-artistico di matrice occidentale, sebbene di volta in volta declinato a seconda delle possibilità che il luogo offriva in termini di materiali e di mezzi tecnici disponibili e più raramente in accordo coi gusti locali. È così che è fiorito lo strabiliante barocco latino-americano, come è così che si trovano chiese neo-gotiche in Africa ed in Estremo Oriente. D’altra parte, il redattore del testo, pur menzionando «l’indole e la condizione dei popoli» (secundum gentium indoles ac condiciones) è stato accorto nello specificare che la «Chiesa … ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca», senza aggiungere però “di ogni luogo”, che sarebbe suonato palesemente falso. Perché l’enunciato fosse completo e coerente si sarebbe dovuto affermare che la Chiesa ha sempre ammesso le forme artistiche di ogni epoca secondo l’indole e le condizioni dei popoli occidentali, il che sarebbe però stato sconveniente ed anche francamente fuori luogo in un documento sulla liturgia. Ma soprattutto un approccio così franco avrebbe sminuito la priorità funzionale verso la quale l’interezza del testo vuole indirizzare il discorso artistico a vantaggio invece di un discorso stilistico in ogni modo evitato.

124
Curent Ordinarii ut artem vere sacram promoventes eique faventes, potius nobilem intendant pulchritudinem quam meram sumptuositatem. Quod etiam intellegatur de sacris vestibus et ornamentis.
Curent Episcopi ut artificum opera, quae fidei et moribus, ac christianae pietati repugnent, offendantque sensum vere religiosum vel ob formarum depravationem, vel ob artis insufficientiam, mediocritatem ac simulationem, ab aedibus Dei aliisque locis sacris sedulo arceantur.
In aedificandis vero sacris aedibus, diligenter curetur ut ad liturgicas actiones exsequendas et ad fidelium actuosam participationem obtinendam idoneae sint.

Se dunque fin ora il capitolo è rimasto rigorosamente impostato sul filone della predominanza funzionale, è con il § 124 che emergono delle difficoltà nella sua interpretazione generale. Esso si apre con un’iniziale opposizione tra “nobile bellezza” e “mera sontuosità” (potius nobilem intendant pulchritudinem quam meram sumptuositatem), che desta qualche perplessità sia nel merito che nel contesto. Prima di analizzare le implicazioni dell’antitesi così costruita è bene soffermarsi brevemente sul significato o sui significati possibili delle due espressioni. L’espressione “nobile bellezza” fa eco alle simili parole usate a proposito dei riti liturgici alcuni paragrafi prima: al paragrafo 34 dello stesso documento si legge infatti «I riti risplendano per nobile semplicità» (Ritus nobili simplicitate fulgeant), e si specifica poi la necessità di brevità e di facile comprensione dei testi liturgici, raccomandando di eliminare da essi tutte quelle ripetizioni sedimentate nei secoli, che pure aiutavano a meglio imprimere nella memoria dei fedeli e dei sacerdoti intere sezioni della liturgia. L’espressione “nobile semplicità” è molto usata nella trattatistica e nella letteratura a partire dalla metà del Settecento ogni qual volta si vogliano elogiare delle qualità estetiche o morali tanto in un’opera artistica quanto in un essere umano. È da ricordare in proposito l’uso più celebre di questa espressione, nonché uno dei più precoci in epoca moderna: quello che ne fece Winckelmann per definire il carattere dell’arte greca classica, in tedesco “edle Einfalt”, appunto “nobile semplicità” (J. J. Winckelmann, Gedanken über die Nachahmung der Griechischen Wercke in der Mahlerei und Bildhauer-Kunst, 1755). Le parole di Winckelmann, mentre descrivevano l’estetica greca antica considerata dal suo particolare punto di vista, tracciavano al contempo le linee della nuova estetica neoclassica che a quella greca voleva inizialmente ispirarsi. Tali principi formali si ponevano in aperta e polemica opposizione alla temperie artistica precedente, che già andava sotto il nome di barocco, e infersero ad essa un colpo letale destinato ad imprimere all’estetica barocca uno stigma negativo che durò per più di due secoli. L’affinità dell’espressione “nobile semplicità”, usata da Sacrosanctum Concilium a proposito dei riti, con l’espressione “nobile bellezza” impiegata a proposito dell’arte sacra evoca indubbiamente un’analogia: bellezza e semplicità ne escono quasi sinonimi ed anzi la semplicità diventa una condizione della bellezza. L’interpretazione più ovvia è che, come bisognerà semplificare la liturgia per soddisfare le prescrizioni conciliari in materia di rito, allo stesso modo in materia di arte sacra si dovrà semplificare l’apparato estetico che accompagnava il culto. Il parallelo storico ed estetico cui rimanda l’analogia con Winckelmann suggerisce che se alla nobile semplicità del Neoclassico si contrappone in negativo la convoluta espressività barocca, allora la nuova arte sacra ispirata da quella nobile bellezza dovrà prendere le distanze da una “mera sontuosità” facilmente identificata nei barocchismi sopravvissuti fino alla metà del Novecento nella maggior parte delle chiese. Che la lettura prevalente di queste espressioni del documento conciliare sia stata proprio quella appena esposta si può asserire con una certa facilità, almeno a giudicare dai risultati che questo paragrafo della S.C. ha generato, e cioè il drastico allontanamento da tutto ciò che potesse in qualche misura ricordare le atmosfere vibranti, coinvolgenti e drammatiche di quell’estetica fino ad allora dominante nelle chiese e la rapida sostituzione dei vecchi manufatti con nuove opere che hanno come elemento in comune la ricerca di una esibita semplicità, spesso solo apparente.
Questo per quanto attiene al merito, ma anche il contesto è problematico. Con la dicotomia tra bellezza e sontuosità il documento introduce per la prima volta un’osservazione, se non una condizione, di natura strettamente estetica ma soprattutto per natura assai opinabile, all’interno di un discorso fin ora coerente e solidamente caratterizzato dalla dominanza funzionale. Per altro una simile osservazione, che come abbiamo visto comporta una definizione della bellezza, avrebbe avuto maggior senso nel primo o nel secondo paragrafo del capitolo, dove si definivano le caratteristiche generali dell’arte sacra secondo la Chiesa. Invero nel § 122 si dice anche che le arti hanno relazione, per loro natura, con l’infinita bellezza di Dio, ed in quel contesto avrebbe avuto spazio l’inserimento di un discrimine tra ciò che è vera bellezza e ciò che è solo esibizione di ricchezza. In quel paragrafo però, come in quello successivo, una simile osservazione non poteva trovare posto perché stridente con gli altri contenuti ivi enunciati e che erano il vero obiettivo del discorso. Poco prima infatti si era dichiarato che la Chiesa abbia ammesso variazioni di forma e materiali a seconda delle evoluzioni tecniche e che abbia incluso espressioni artistiche di ogni epoca, ma è evidente che non sempre queste furono ispirate a quella “nobile bellezza” le cui origini ed il cui carattere abbiamo appena tratteggiato. Qualsiasi definizione è esclusiva, e dunque nessuna definizione della bellezza è compatibile con l’affermazione che la Chiesa abbia a buon diritto incluso ogni espressione artistica nel corso della storia col solo discrimine della sua funzionalità al culto. In sintesi, l’antitesi tra “nobile bellezza” e “mera sontuosità” citata al § 124 è contraddittoria con quanto descritto ai §§ 122 e 123 a proposito dell’azione storica della Chiesa e compare fuori contesto nello stesso § 124 che dovrebbe invece essere indirizzato alle indicazioni applicative piuttosto che alle definizioni. A ben vedere tuttavia, questa definizione della bellezza potrebbe non essere pensata a livello generale e per così dire teoretico, ma piuttosto inserita solo in vista delle nuove realizzazioni da operarsi, ed è quindi probabilmente da leggere non come aggiunta alla descrizione dell’atteggiamento storico della Chiesa verso le arti, ma come chiave interpretativa che i redattori del documento usano per rapportarsi all’arte loro contemporanea. Il valore di questa espressione non sarebbe perciò assoluto ma volutamente relativo ai tempi dell’epoca di redazione. Ripercorrendo il filo logico dai paragrafi precedenti fino a questo punto si dovrebbe intendere il discorso in questo modo: la Chiesa ha sempre accettato le espressioni artistiche del momento, selezionandole sulla base della loro funzionalità al culto, e così facendo ha avuto un ruolo di discernimento dell’eccellenza delle opere e al contempo di indirizzo nelle presenti e future espressioni artistiche, e dunque oggi, nel proseguire questa sua funzione di “arbitro” nelle cose d’arte sacra, addita la semplicità (alias bellezza) come strada da seguire nelle realizzazioni a venire, in quanto la individua e la sceglie come carattere peculiare e preferibile dell’epoca artistica corrente (al tempo della scrittura del testo). Sebbene il precedente paragrafo esordisca col dire che la Chiesa non ha mai fatto proprio alcuno stile artistico, qui si indica invece, se non uno stile, quanto meno una caratteristica stilistica da perseguire nel contingente momento storico tanto quanto una opposta da evitare.
È curioso l’accostamento dell’enunciato che abbiamo appena commentato con quello seguente, nel comma successivo dello stesso § 124, dove si invitano i vescovi ad allontanare dai luoghi sacri quelle opere che offendano la fede, i costumi e la pietà o il senso religioso, attraverso la depravazione delle forme, o attraverso l’insufficienza, la mediocrità o la falsità dell’espressione artistica. Di per sé quest’ultima affermazione è perfettamente tradizionale ed in linea con quanto storicamente operato dalla Chiesa per secoli, e perciò sulla base di queste parole avremmo dovuto vedere la Chiesa post-conciliare mettere al bando le versioni della crocifissione non conformi alla verità storica, le immagini mariane non corrispondenti alla pietà tradizionale, le versioni astratte e quelle deformanti dei soggetti sacri, per non parlare dell’infinita paccottiglia di bricolage parrocchiale. Come sappiamo, invece, queste infestano ogni nuova chiesa. Quello che è accaduto è che la lettura di quelle righe in immediata successione alle precedenti, dove si invitava ad escludere la “mera sontuosità” dalle opere d’arte sacra, fa nascere un corto circuito che lega l’idea del lusso e della ricchezza all’inadeguatezza al contesto religioso e alla falsa espressione artistica: è come se l’offesa alla fede e la mediocrità artistica diventino attributi della “mera sontuosità” di cui al comma precedente. La banale equazione che se ne ricava è che ciò che è semplice e spoglio, e forse ostenta povertà, sia nobile e bello e idoneo al culto, mentre ciò che è ricco e ornato sia poco artistico ed offenda la pietà religiosa. Questo è quanto emerge da una veloce lettura, e perciò è quanto è stato maggiormente recepito, ma si tratta probabilmente di una interpretazione errata, frettolosa, o malevola. In realtà, con gli inviti alla prudenza del comma 2 del § 124, è probabile che i Padri conciliari volessero mettere in guardia il clero da una parte importante dell’arte loro contemporanea, in un’epoca in cui l’astrattismo e l’arte informale nelle loro diverse correnti stavano producendo opere effettivamente incompatibili con il culto cattolico, a prescindere dal contenuto religioso che i loro autori volessero riversarvi o i loro estimatori leggere in esse. Anche l’accostamento di questo comma a quello precedente, dove si invitava ad escludere la sontuosità dalle opere da esporre in chiesa, è forse da interpretare come una spinta verso la ricerca di una terza via, capace da un lato di rinnovare l’arte sacra spogliandola del decorativismo di tradizione ottocentesca ancora molto vivo alla metà del secolo scorso, e dall’altra di tenersi lontana dalle suggestioni delle avanguardie e post-avanguardie che avevano ormai guadagnato il favore della critica artistica predominante. Interpretato in questo modo, il § 124 risulta sano negli intenti e tradizionale nell’approccio. Purtroppo, però, anche trascurando l’errata interpretazione della quale è stato oggetto e che poco sopra abbiamo esemplificato, l’intero paragrafo risulta superato già al momento della sua scrittura. Quella terza via, che abbiamo da ultimo menzionato e che costituisce la migliore interpretazione possibile del testo, era stata già cercata da un filone importante di artisti attraverso tutta la prima metà del Novecento, i quali ben prima tentarono di perseguire quelle linee che la Sacrosanctum Concilium andò ad enunciare solo nel 1964. La scuola di Beuron si era già esaurita da molto tempo e l’atelier di arte sacra della Societé de Saint-Jean, per citare due movimenti di ricerca e pratica artistica tra i più influenti nel contesto dell’arte sacra del primo Novecento e più impegnati nella ricerca di una modernità alternativa a quella iniziata dalle avanguardie, si era chiusa nel 1948 senza lasciare un seguito. L’arretratezza dell’invito conciliare del 1964 non è comunque condannabile: la necessità di trovare un’espressività artistica che fugga le inclinazioni sincretiste, nichiliste, esistenzialiste, gnostiche, per non dire più o meno apertamente anticristiane, tipiche di molta attività artistica contemporanea era ancora e più che mai viva negli anni ’60, tanto quanto è attuale oggi. Se quello che è avvenuto dopo il ’64 è l’opposto, ciò si deve, almeno in parte, proprio all’equivoco accostamento tra i commi primo e secondo del § 124, come si è prima spiegato.
Infine, all’ultimo comma del § 124 si citano gli edifici di culto limitandosi, questa volta senza giri di parole, a richiedere la loro idoneità funzionale, ritornando così sui binari che avevano retto l’enunciazione dei §§ 122 e 123. Questa volta la funzionalità delle opere è però meglio specificata: non si tratta solo di rendere gli edifici funzionali alla liturgia ma anche di renderli idonei alla actuosa partecipatio descritta al capitolo due della stessa costituzione conciliare. Non c’è dubbio che questa aggiunta alla descrizione funzionale non sia casuale, e rappresenti il punto di svolta più decisivo in tutto il capitolo. Mentre nel resto del testo non si fanno menzioni specifiche delle caratteristiche della liturgia, né di quella tradizionale né di quella riformata, qui per la prima volta si vuole sottolineare esplicitamente il cambiamento liturgico. Se nella mente dei redattori del documento l’architettura sacra avrebbe potuto semplicemente continuare ad evolversi seguendo quelle evoluzioni tecniche che già si erano ricordate a proposito delle suppellettili liturgiche non ci sarebbe stato alcun bisogno di evocare qui quella “actuosa partecipatio” che fu e resta tra i punti più sottolineati della riforma liturgica nel bene e nel male. Per i redattori del capitolo quindi l’architettura sacra doveva cambiare. Ma come? È lasciato agli architetti immaginare come meglio implementare questo aspetto delle richieste conciliari, e certamente di sperimentazioni e di modelli se ne sono creati molti a partire da allora. Se il risultato, a più di cinquant’anni, è senza dubbio insoddisfacente lo si deve, a mio avviso, piuttosto alla tendenziosa interpretazione del capitolo II che all’imperizia degli architetti. A seconda dell’interpretazione di “actuosa partecipatio” che si voglia dare, affioreranno diverse proposte possibili sul piano progettuale, ed è anche su questo punto che si gioca la partita delle future evoluzioni dell’architettura sacra.

125
Firma maneat praxis, in ecclesiis sacras imagines fidelium venerationi proponendi; attamen moderato numero et congruo ordine exponantur, ne populo christiano admirationem inficiant, neve indulgeant devotioni minus rectae.

Queste ventisette parole sono tutto ciò che il Concilio ebbe da dire nel testo sull’arte sacra a proposito della produzione, della funzione e della venerazione delle immagini. Ad esse si aggiunge una menzione al § 111 dov’è scritto che si abbiano in venerazione le immagini dei santi. La brevità dello spazio dedicato non può non essere primo indizio della marginalità cui si voleva relegare l’argomento, o meglio ancora dell’accantonamento al quale gli estensori del documento vollero destinare il culto delle immagini. È infatti un paragrafo che si risalta più per le assenze che per i contenuti presenti. La svalutazione delle immagini inizia qui fin dalle prime parole: l’argomento è immediatamente affrontato dal punto di vista della prassi, nulla si dice né si dirà sulla teoria della venerazione delle immagini. Poiché una prassi priva di teoria è vuota gestualità non meraviglia che l’argomento finisca per essere liquidato in due righe. Ma non soltanto si evita di offrire anche un abbozzo di teoria sulle immagini venerabili, bensì si omette affatto di esplicitare qualsiasi funzione ed uso delle immagini, come invece aveva fatto il Concilio Tridentino. Se si inquadrano queste parole nel loro contesto storico si dovrà riconoscere come negli anni Cinquanta e negli anni Sessanta si stava assistendo ad una riduzione delle immagini proposte al culto rispetto alle epoche precedenti. Sebbene ci fosse una rifioritura parziale della pittura a soggetto sacro, è vero però che ormai moltissimi altari, e la maggior parte degli altari maggiori, erano già costruiti separati dal muro e quindi sprovvisti di vere e proprie pale d’altare. Se si aggiunge che il numero degli altari laterali a muro realizzati in quegli anni fu veramente esiguo, si comprenderà come l’immagine aveva ormai già perso la sua centralità nel culto cattolico per diventare un accessorio spesso a scopo illustrativo. In quella situazione ci si poteva forse aspettare che il Concilio richiamasse ad un uso maggiore e più efficace delle immagini, e invece accadde il contrario: il testo che risulta dal Concilio non solo avvalla la tendenza dominante ma la sprona a ridurre ancora il numero di immagini dietro due pretesti: che le immagini potrebbero eccitare la fantasia del popolo cristiano e che potrebbero indurlo in devozioni poco corrette. È difficile riuscire ad entrare nella mentalità di chi redasse questo testo e comprendere come, scrivendo costui per un concilio pastorale, volto all’umanità degli anni Sessanta, quella della televisione in ogni casa, della lettura di massa dei giornali, delle pubblicità che conquistavano a mano a mano ogni muro delle città, aveva invece costui il cruccio che il numero o la disposizione dei dipinti in chiesa potesse confondere l’ammirazione dei fedeli. Quanto al gran problema della devozione poco retta indotta dalle immagini, non si capisce bene come questa rettitudine sia relazionata al numero delle immagini e alla loro disposizione, e non invece alla loro adeguatezza iconografica, sulla quale non si spende parola. Associate al silenzio sospetto circa il beneficio delle immagini per la fede e per il culto, queste due grandi, macroscopiche incoerenze: il timore per l’effetto delle immagini in chiesa nella società dell’immagine, e il pericolo di scorretta devozione derivante dal numero delle immagini e non dalla loro configurazione, lasciano trasparire con poche incertezze l’obiettivo reale di chi ha scritto questo paragrafo: attaccare la venerazione delle immagini tout court, obiettivo perfettamente centrato come si vede dai frutti di questo documento, che a distanza di trent’anni dalla sua pubblicazione ha aperto le porte delle chiese all’ingresso dell’astratto e dell’informale o ad istruzioni episcopali che suggeriscono la presenza di un numero massimo di due o tre immagini sacre nelle chiese parrocchiali.

126
In diiudicandis artis operibus Ordinarii locorum audiant Commissionem dioecesanam de Arte sacra, et, si casus ferat, alios viros valde peritos, necnon Commissiones de quibus in articulis 44, 45, 46.
Sedulo advigilent Ordinarii ne sacra supellex vel opera pretiosa, utpote ornamenta domus Dei, alienentur vel disperdantur.

Il § 126 avvicina due capoversi dal contenuto molto diverso. Il primo intende uniformare una prassi evidentemente poco diffusa: quella di prevedere in diocesi una commissione di arte sacra e di delegare ad essa, o ad altri esperti, la valutazione delle opere di rilievo particolare da introdurre nelle chiese. Il secondo capoverso ammonisce di non alienare o disperdere il patrimonio di  opere e suppellettili sacre. Quando si dice che il Concilio Vaticano II non è stato ancora attuato bisognerebbe cominciare da questo paragrafo.

127
Episcopi vel per se ipsos vel per sacerdotes idoneos qui peritia et artis amore praediti sunt, artificum curam habeant, ut eos spiritu Artis sacrae et sacrae Liturgiae imbuant.
Insuper commendatur ut scholae vel Academiae de Arte Sacra ad artifices formandos instituantur in illis regionibus in quibus id visum fuerit.
Artifices autem omnes, qui ingenio suo ducti, gloriae Dei in Ecclesia sancta servire intendunt, semper meminerint agi de sacra quadam Dei Creatoris imitatione et de operibus cultui catholico, fidelium aedificationi necnon pietati eorumque instructioni religiosae destinatis.

e
129
Clerici, dum philosophicis et theologicis studiis incumbunt, etiam de artis sacrae historia eiusque evolutione instituantur, necnon de sanis principiis quibus opera artis sacrae inniti debent, ita ut Ecclesiae venerabilia monumenta aestiment atque servent, et artificibus in operibus efficiendis congrua consilia queant praebere.

I §§ 127 e 129, sulla scia del § 126, danno indicazioni applicative per l’amministrazione del patrimonio artistico e della futura produzione d’arte nella Chiesa. Si enfatizza il ruolo che potrebbe rivestire lo studio dell’arte nella formazione dei chierici e l’importanza del dialogo tra questi e gli artisti, nonché della necessità di strumenti di formazione apposita per gli artisti che si dedicano all’arte sacra. Originale è l’appello agli artisti dell’ultimo periodo del paragrafo 127, dove la costituzione conciliare si rivolge direttamente a questi, che diventano così l’unica categoria sociale cui questa costituzione conciliare si rivolge specificamente, al fianco dei religiosi.

128
Canones et statuta ecclesiastica, quae rerum externarum ad sacrum cultum pertinentium apparatum spectant, praesertim quoad aedium sacrarum dignam et aptam constructionem, altarium formam et aedificationem, tabernaculi eucharistici nobilitatem, dispositionem et securitatem, baptisterii convenientiam et honorem, necnon congruentem sacrarum imaginum, decorationis et ornatus rationem, una cum libris liturgicis ad normam art. 25 quam primum recognoscantur: quae liturgiae instauratae minus congruere videntur, emendentur aut aboleantur; quae vero ipsi favent, retineantur vel introducantur.
Qua in re, praesertim quoad materiam et formam sacrae supellectilis et indumentorum, territorialibus Episcoporum Coetibus facultas tribuitur res aptandi necessitatibus et moribus locorum, ad normam art. 22 huius Constitutionis.

Il § 128 dichiara, è il caso di dire senza troppe cerimonie, che qualsiasi cosa si trovi all’interno delle chiese, e le chiese stesse nella loro conformazione architettonica, dovrà essere riveduta e corretta alla luce dei nuovi libri liturgici e di quanto si stabilisce nella costituzione conciliare. Anche la normativa precedente, ove presente, dovrà cedere ove si trovi in contrasto a quanto possa scaturire dalla riforma. È chiaro che questo articolo sguarnisce di ogni difesa le chiese storiche ma soprattutto il modo tradizionale di fare e guardare l’arte nelle chiese, e allo stesso tempo concede carta bianca a chi sarà incaricato di redigere le più dettagliate istruzioni di correzione. Esso è tuttavia l’inevitabile conseguenza dell’approccio funzionalista all’arte adottato fin dal § 122 all’inizio del capitolo. Se la funzione dell’arte è condizionata interamente ed unicamente dalla liturgia, ed è priva quindi di uno statuto teorico, metafisico proprio, se manca una teologia delle immagini e degli spazi, o se non è riconosciuta, ne consegue che essa dovrà mutare conformemente fisionomia e missione di pari passo ai cambiamenti liturgici. Il § 128, nella sua scabrosità e rozzezza, nel suo carattere da decreto rivoluzionario, riassume bene l’intero capitolo. Laddove tutto è ridotto a funzione, nulla merita più alcun rispetto e la tradizione diventa parola senza senso.

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