giovedì 18 aprile 2019

Giuda Iscariota. L’amore impuro che porta all’inferno della disperazione

Proponiamo in questa sera del Giovedì Santo questa meditazione su Giuda l’Iscariota.

Giuda Iscariota. L’amore impuro che porta all’inferno della disperazione.

La Chiesa Romana durante l’Officium Tenebrarum della sera del Mercoledì Santo canta con mesta solennità, tra gli altri, un responsorio che riassume la tragica vicenda di Giuda Iscariota, il Traditore di Gesù: “Judas mercátor péssimus ósculo pétiit Dóminum: ille ut agnus ínnocens non negávit Judæ ósculum: Denariórum número Christum Judǽis trádidit. Mélius illi erat, si natus non fuísset[1]. Mercanteggiò il Sangue dell’Innocente e, al netto del pentimento iniziale, pose fine alla sua vita disperando della misericordia del Signore. Così l’anima sua – esatto contrario del Buon Ladrone (qui) –  discese “nel luogo suo proprio” (Act. I, 25), ossia l’inferno[2], per scontare in eterno “la pena del suo delitto”[3]. Una delle figure più tragiche del racconto evangelico, un’anima nera, le cui sfumature proponiamo nell’analisi che ne fa l’abate Giuseppe Ricciotti.



Giunse pertanto il penultimo giorno avanti la Pasqua, ossia il mercoledì. Il tempo, per i sommi sacerdoti e i Farisei, stringeva e bisognava decidersi ad agire. Nonostante le ripetute deliberazioni prese nei giorni precedenti, ancora non si era fatto nulla, perché Gesù era protetto dal favore popolare e quindi si permetteva di girare impunemente in Gerusalemme e perfino di predicare nel Tempio. Ma non c’era dun­que modo di farlo scomparire occultamente, senza che il popolo se ne avvedesse? Certo non bisognava perdere altro tempo, e la questione doveva essere risolta in maniera definitiva prima della Pasqua, per evitare conseguenze che potevano esser gravissime. Le feste in genere, e soprattutto la Pasqua, a causa delle enormi affluenze di folle eccitate, erano considerate dal procuratore romano come periodi di convulsione sismica, ed allora più che mai egli sbarrava tan­to d’occhi e raddoppiava la vigilanza per timore che un nonnulla facesse saltare tutto in aria: perciò in tali occasioni – come riferisce occasionalmente Flavio Giuseppe (Guerra giud., II, 224) – la coorte romana di presidio a Gerusalemme si schierava lungo il portico del Tempio, giacché nelle feste essi fanno sempre la guardia armati affinché la folla adunata non faccia sedizioni. Che cosa dunque non poteva accadere con quel Rabbi galileo in giro per la città e nel Tempio, attorniato da gruppi d’entusiasti che lo credevano Messia?
Al primo subbuglio che fosse accaduto, il cavaliere Ponzio Pilato avrebbe scatenato i suoi soldati sulle folle dei pellegrini cominciando davvero a distruggere il luogo santo e la nazione, come si era temuto. No, no, assolutamente bisognava scongiurare questo pericolo e far si che per la Pasqua tutto fosse a posto. Ma come? In quel mercoledì si tenne un nuovo consiglio per discutere tale questione. Allora si radunarono i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo nel palazzo del sommo sacerdote chiamato Caifa, e deliberarono di catturare Gesù’ con inganno e d’uccider(lo). Tuttavia dicevano:“Non nella festa, affinché non avvenga tumulto nel popolo” (Matteo, 26, 3-5). Era dunque pacifico per tutti i partecipi dell’adunanza che Gesù dovesse esser soppresso; tuttavia alcuni più cauti facevano notare il pericolo che l’arresto fosse eseguito durante la festa pasquale quando molti pellegrini, o Galilei o favorevoli a Gesù, potevano insorgere per proteggerlo; d’altra parte neppure sarebbe stato opportuno rimandare l’arresto a dopo la festa, perché nel frattem­po Gesù poteva allontanarsi con i pellegrini che tornavano alle loro case e così sfuggire alla cattura, come aveva già fatto dopo la resurrezione di Lazzaro: perciò bisognava agir subito, prima della Pasqua. E in segreto. A questa sollecitudine e segretezza mirava l’osservazione dei cauti consiglieri. Ma appunto qui stava la difficoltà. Alla Pasqua mancavano solo due giorni, e Gesù passava tutta la sua giornata in mezzo al popolo; com’era possibile agire in sì poco tempo e in maniera che l’arresto si risapesse solo a cose fatte? L’aiuto venne donde meno si aspettava. Allora uno dei dodici, quello chiamato Giuda Iscariota, andato dai sommi sacerdoti disse:”Che cosa mi volete dare, ed io lo consegnerò a voi?”. E quelli stabilirono trenta (monete) argentee. E da allora (Giuda) cercava un’opportunità per consegnarlo. Questa è l’informazione di Matteo (26, l4-l6), con cui concordano gli altri due Sinottici, i quali non precisano la somma pattuita ma aggiungono la ben comprensibile notizia che i sommi sacerdoti si rallegrarono della proposta di Giuda. E infatti adesso, con tale cooperatore, arre­stare sollecitamente e segretamente Gesù diventava impresa facile.
Ma quale ragione spinse Giuda al tradimento? La primitiva catechesi non ci ha trasmesso altra ragione che l’amo­re al lucro. Quando gli evangelisti presentavano Giuda come ladro e amministratore fraudolento della cassetta comune prepa­ravano in realtà la scena di Giuda che si reca dai sommi sacerdoti per chiedere: Che cosa mi volete dare … ? Ma, anche fuori dei van­geli, quando Pietro parla del traditore ormai suicida non accenna ad altro profitto del tradimento se non all’acquisto d’un campo con la mercede dell’iniquità (Atti, 1, 16-19). La ragione del lucro è dun­que sicura; tuttavia insieme con essa non è escluso che ve ne siano state altre di cui la primitiva catechesi non si occupò, e qui il cam­po è aperto a ragionevoli congetture. Anche astraendo dai voli fantastici fatti su questo campo sommamente tragico da drammaturghi o da storici d’ispirazione romanze­sca, resta sempre l’inaspettato contegno tenuto da Giuda soltanto due giorni dopo: visto che Gesù è stato condannato, il traditore im­provvisamente si pente di aver venduto il sangue di quel giusto, e riportatone il prezzo ai sommi sacerdoti va ad impiccansi. Ebbene, questo non è il contegno di un semplice avaro: un avaro tipico, un uomo che non avesse avuto altro amore che per il dena­ro, sarebbe rimasto soddisfatto del lucro ottenuto, qualunque fosse stata la sorte successiva di Gesù, e non avrebbe pensato né a resti­tuire il denaro né ad impiccarsi. Avaro e cupido Giuda fu certamen­te, ma oltre a ciò era qualche cosa d’altro. Esistono in lui almeno due amori: uno è quello dell’oro, che lo spinge a tradire Gesù; ma a fianco a questo esiste un altro amore che talvolta può anche essere più forte, perché a tradimento compiuto prevale sullo stesso amore dell’oro e spinge il traditore a restituire il lucro, a rinnegare tutto il suo tradimento, a compiangerne la vittima e infine ad uccidersi per disperazione. Qual era l’oggetto di questo amore contrastante con quello dell’oro? Per quanto ci si ripensi, non si trova altro oggetto possibile se non Gesù. Se Giuda non avesse sentito per Gesù un amore tanto grande che talvolta prevaleva su quello per l’oro, non avrebbe né restituito il denaro né rinnegato il suo tradimento. Ma se egli amava Gesù, per­ché lo tradì?
Certamente perché il suo amore era grande ma non incontrastato, non era l’amore generoso, fiducioso, luminoso di un Pietro e di un Giovanni, e conteneva pur nella sua fiamma alcunché di fumoso e di tenebroso: in che consistesse però questo elemento oscuro non sappiamo, e per noi rimarrà il mistero dell’iniquità somma. Riseppe forse Giuda di essere stato denunziato a Gesù come frodatore della cassetta comune, e non tollerò di essere decaduto dal­la stima di lui? Ma anche Pietro come rinnegatore di Gesù giudicherà di esser decaduto dalla stima di lui, eppure non dispererà. Forse, più accortamente degli altri Apostoli, Giuda comprese dalle rettifiche messianiche di Gesù che il suo regno non avrebbe appor­tato né gloria né potenza mondane ai futuri cortigiani, e in quel previsto fallimento provvide da avaro qual era ai propri interessi? Ipotesi possibilissima; la quale tuttavia non spiega da sola perché mai Giuda, dopo essersi staccato da Gesù mediante il tradimento, si senta ancora legato a lui da pentirsi ed uccidersi. Forse, accoppiando l’amore del lucro con l’ansia di veder presto Gesù a capo del regno messianico politico, Giuda lo tradì con la sicurezza di vederlo compiere portenti su portenti di fronte ai suoi avversari, e così di costringerlo a inaugurar subito quel regno che si faceva troppo aspettare? In tal caso però il traditore non si sarebbe dovuto uccidere prima della morte di Gesù ma tutt’al più dopo, perché egli non sapeva quando il Messia sarebbe ricorso ai suoi mas­simi portenti, tanto più che proprio all’inizio della sua operosità di traditore Giuda aveva assistito nel Gethsemani al portento delle guar­die atterrate. E le ipotesi si potrebbero facilmente moltiplicare, senza però che ne rimanesse schiarito con sicurezza il mistero dell’iniquità somma. Inoltre, tale iniquità non consisté soltanto nel vendere Gesù, ma più e soprattutto nel disperare del suo perdono. Giuda aveva visto Gesù perdonare a usurai e prostitute, aveva udito dalla sua bocca le parabole della misericordia compresa quella del figliuol pro­digo, lo aveva inteso comandare a Pietro di perdonare settanta volte sette: eppure dopo tutto ciò egli dispera del suo perdono e s’impic­ca, mentre Pietro dopo il suo rinnegamento non dispererà ma scop­pierà a piangere.
Anche questo disperare del perdono dimostra che Giuda aveva per il giusto da lui tradito un’altissima stima, la quale gli faceva misurare l’abissale nefandezza del delitto commesso: ma era anche una stima incompleta e quindi ingiuriosa, perché davanti alla responsabilità del tradimento si fermava a mezza strada e ingiu­riosamente riteneva Gesù incapace di perdonare al traditore. Ben più che dal tradimento di Giuda, Gesù fu ingiuriato dal suo disperare del perdono: qui fu l’oltraggio sommo ricevuto da Gesù e l’iniquità som­ma commessa da Giuda. La mercede stabilita dai sommi sacerdoti per il tradimento fu di trenta (monete) argentee. Il solo Matteo comunica questa cifra per­ché, sollecito qual è di segnalare che in Gesù si sono adempite le antiche profezie messianiche, scorge qui adempita una profezia di Zacharia; tuttavia Matteo, né in questo punto né in segui­to (27, 3-10), dirà il nome individuale delle monete e parlerà sem­pre di trenta argentei. Non c’è dubbio che l’innominata moneta fosse il siclo ossia lo statere, il quale valeva quattro dramme ossia quattro denari; non era quindi il denarius romano (§ 514); ma una moneta di valore quattro volte maggiore: perciò, parlando tecnicamente, l’espressione usuale di “trenta denari di Giuda” è falsa perché l’intera somma di 30 sicli era costituita da 120 “denari”. Nel valore odierno essa corri­sponderebbe a circa 128 lire in oro. Era norma della legge ebraica (Esodo, 21, 32) che quando un bove avesse ucciso cozzando uno schiavo, il padrone del bove dovesse pa­gare al padrone dello schiavo a risarcimento del danno subito 30 sicli d’argento: quindi in pratica il valore medio d’uno schiavo doveva computarsi circa sui 30 sicli. Può darsi che i sommi sacerdoti s’ispi­rassero a questa norma della Legge nello stabilire la mercede a Giu­da, perché così ottenevano il doppio scopo di mostrarsi osservatori la lettera anche in quel caso e insieme di trattare Gesù come uno schiavo qualunque.
Luca, il quale ha terminato il racconto delle tentazioni di Gesù di­cendo che il diavolo si allontanò da lui fino a tempo (opportuno) (IV, 13), inizia qui il racconto del tradimento dicendo che entrò Sata­na in Giuda, quello chiamato Iscariota, il quale andò ad accordarsi per il suo delitto con i sommi sacerdoti (Luca, 22, 3 segg.). Cosicché per l’evangelista discepolo di Paolo la passione di Gesù è il tempo (opportuno) preaccennato, e rappresenta in qualche modo una ripresa delle tentazioni a cui Gesù era stato sottoposto da Satana all’inizio della sua vita pubblica: terminando adesso Gesù la vita in­tera, Satana gli muove l’ultimo e più potente assalto e lo sottopone alla suprema prova, dopo di che egli entrerà nella sua gloria. O stolti e lenti di cuore…! Non doveva forse patire queste cose il Cristo (Messia) e (cosi) entrare nella sua gloria? (Luca, 24, 25-26).
[…] Quando la seduta mattinale del Sinedrio fu terminata, si riseppe presto e facilmente al di fuori che Gesù vi era stato condannato: forse prima di ogni altro estraneo lo riseppe un uomo che aveva sommo interesse a questa sentenza, Giuda Iscariota. L’ultimo risultato del suo tradimento produsse nel suo spirito l’effetto sconvol­gitore a cui già accennammo. Il maestro, ch’egli a suo modo amava, era stato condannato a morte. E adesso, avrebbe potuto egli liberarsi? Sarebbe egli ricorso alla sua potenza taumaturgica per rom­pere quella rete dentro cui l’avevano avviluppato i suoi nemici? Il traditore ne dubitò. Forse allora per la prima volta s’avvide che le ultime conseguenze del suo tradimento differivano da quelle da lui previste: certamente allora per la prima volta egli intravide l’abissale ingiustizia da lui commessa. In quell’uomo allora l’amore per Gesù ebbe il soprav­vento su ogni altro suo amore, anche su quello potentissimo per l’oro: ma da amore torbido e impuro qual era non poté assurgere alla speranza di perdono. I 30 sicli, che egli nel frattempo aveva rice­vuto e nei quali la sua cupidigia aveva sperato un pieno appagamento di spirito, gli divennero invece fonte di insopportabile ama­rezza. Sembrava che si fossero arroventati: egli non poteva più tenerseli addosso, parendogli di confermare e ribadire ancora il suo tradimento. Corse quindi dai sommi sacerdoti e davanti ad essi gri­dò: Ho peccato, tradendo sangue innocente! E insieme protese verso loro la borsa dei sicli in atto di riconsegnarla. I membri del Sinedrio, freddi, sicuri di sé, leggermente ironici, risposero al suo grido: A noi che (importa)? Tu (te la) vedrai! La risposta dei prezzolatori risonò nell’anima del prezzolato come beffa sarcastica, la quale mostrava che egli più di ogni altro era rimasto irretito nel tradimento ed egli solo ne era la vera vittima. Per i Sinedristi il tradimento doveva ri­manere e sussistere per sempre, né poteva in alcun modo rinnegar­si; tutto il peso del tradimento ricadesse pure sul traditore, e pen­sasse egli a cavarsi d’impaccio: quanto a loro, avendo pagato regolarmente i 30 sicli pattuiti, erano fuori di tutto l’affare né volevano più saperne. Un furore rabbioso s’impadroni allora del traditore. Vedendo precluse tutte le uscite, sentendosi schiacciato sotto il peso dei sicli, egli corse al vicino Tempio, s’inoltrò quanto gli era possibile verso l’edi­ficio del “santuario” , e di là freneticamente cominciò a scagliare manciate di sicli verso il luogo santo quasi per liberarsi di un groviglio di vipere che gli mordeva il cuore.
Le monete rotolarono sul lastricato con un tintinnio che sembrava uno sghignazzamento, si sparsero un po’ dappertutto davanti al “antuario” giacquero là come in attesa. Ma anche quando quello sghignazzamento si tacque, il traditore non si sentìaffatto sollevato; se la cupidigia sua era dissipata e scompar­sa, in tragico compenso l’amore suo per Gesù credeva scorgere da­vanti a sé una rupe insormontabile per raggiungere la persona sem­pre amata. Da ogni parte il traditore vedeva attorno a sé il vuoto. Una nerissima tenebra avvolse allora la sua mente, ed egli fuggen­do via dal Tempio andò senz’altro ad impiccarsi.
Della fine di Giuda abbiamo una doppia relazione con inte­ressanti divergenze, le quali sono di particolare valore nel confer­mare l’identità sostanziale del fatto. Matteo parla soltanto dell’im­piccamento. Luca invece, riportando un discorso di Pietro negli Atti (1, 16-19), ha conservato la tradizione secondo cui Giuda divenuto a capo fitto crepò in mezzo effondendo tutte le sue viscere. Le due relazioni sembrano riferirsi a due momenti diversi dello stesso fatto: dapprima Giuda s’impiccò, quindi il ramo dell’al­bero o la corda a cui egli era appeso si stroncò, forse per le scosse convulsive, e allora il suicida precipitò in basso; è legittimo immaginare che l’albero fosse sull’orlo di qualche burrone, cosicché la caduta produsse nel corpo del suicida le conseguenze di cui parla la relazione di Luca. Una tradizione identificherebbe il luogo dell’impiccamento di Giuda con il campo Haceldama comprato con i sicli di lui e situato nella Geenna, la valle a mezzogiorno di Gerusalem­me designata fin dai tempi antichi come luogo maledetto. La leggen­da a sua volta fin dai tempi più antichi si è impadronita del fatto, ricamandovi attorno o trasformandolo in mille maniere: già nel secolo IV si affermava che l’albero a cui Giuda si era impiccato era un fico (l’albero delle cui foglie si rivestirono i protoparenti peccatori; Genesi, 3, 7), e questo fico, dopo aver emigrato in vari posti lungo i secoli, era mostrato ancora superstite pochi anni addietro a Geru­salemme.
Rimanevano frattanto i sicli gettati dal traditore nel Tem­pio. I puntualissimi Sinedristi si consultarono sulla sorte da assegnare a quel denaro in maniera che la Legge non fosse violata. La Legge infatti (Deuteronomio, 23, 19 ebr.) non permetteva che fosse accet­tato come offerta sacra denaro proveniente da guadagni indecorosi, quale meretricio, omicidio e simili; perciò i Sinedristi, raccolti i sicli, osservarono: Non è lecito metterli nel “qorban” (tesoro sacro), giacché è prezzo di sangue. D’altra parte 30 sicli erano una somma considerevole, a cui non sarebbe stato saggio rinunciare: e allora quegli accurati casuisti trovarono una via di mezzo per con­ciliare i due opposti. In occasione di grandi feste ebraiche affluivano a Gerusalemme moltissimi pellegrini dalle varie regioni della Diaspora, e avvenendo che taluni di essi morissero durante la loro perma­nenza nella città santa le autorità locali dovevano provvedere alla loro sepoltura. Ma fino a quel tempo un cimitero riservato a tale scopo non c’era: i Sinedristi quindi deliberarono che con i 30 sicli si comperasse un luogo chiamato comunemente “Campo del vasaio”. forse perché era argilloso e sede di un laboratorio di vasellame, e si destinasse a cimitero dei pellegrini.

(Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, 532-534, 574-575)



[1]  R. Giuda, pessimo mercante, s’appressò al Signore con un bacio: egli come agnello innocente, non ricusò il bacio di Giuda: * Il quale per pochi denari consegnò Cristo ai Giudei.  / V. Era meglio per lui che non fosse mai nato. / R. Il quale per pochi denari consegnò Cristo ai Giudei.

[2]  Il Cristo chiama Giuda “figlio di perdizione ” (Joann. XVII, 12) che “è un ebraismo che significa: colui che si è perduto. Con questo nome si allude a Giuda traditore. Non è per incuria di Gesù che Giuda andò perduto, ma per la perversa  sua volontà. Dio, che ciò aveva permesso, lo fece preannunziare nella Scrittura (Salm. XL, 10; CVIII, 8)” (Padre Marco M. Sales OP, La Sacra Bibbia – Il Nuovo Testamento, Torino, 1925, Vol. I, p. 429, n. 12). San Pietro nel passo citato degli Atti degli Apostoli usa in riferimento al destino eterno del traditore l’espressione andare nel luogo suo proprio: “un eufemismo per indicare l’inferno. Giuda abbandonò il luogo che occupava tra gli Apostoli per acquistarsi un luogo nell’inferno, come si conveniva all’enormità del suo delitto” (Ibid. p. 463, n. 25).

[3] Colletta della Messa in Coena Domini: “Deus, a quo et Judas reatus sui poenam, et confessiónis suæ latro praemium sumpsit, concéde nobis tuæ propitiatiónis efféctum: ut, sicut in passióne sua Jesus Christus, Dóminus noster, diversa utrísque íntulit stipéndia meritórum; ita nobis, abláto vetustátis erróre, resurrectiónis suæ grátiam largiátur: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia saecula saeculorum. Amen” [Dio, da cui Giuda ricevette il castigo del suo delitto e il ladrone il premio del suo pentimento, fa a noi sentire l’effetto della tua pietà, affinché, come nella sua Passione Gesù Cristo Signor nostro diede all’uno e all’altro il dovuto trattamento, cosi tolte da noi le aberrazioni dell’uomo vecchio, ci dia la grazia della sua risurrezione. Lui che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen].

Nessun commento:

Posta un commento