Proponiamo in
questa sera del Giovedì Santo questa meditazione su Giuda l’Iscariota.
La Chiesa Romana durante l’Officium
Tenebrarum della sera del Mercoledì Santo canta con mesta solennità,
tra gli altri, un responsorio che riassume la tragica vicenda di Giuda
Iscariota, il Traditore di Gesù: “Judas mercátor péssimus ósculo pétiit
Dóminum: ille ut agnus ínnocens non negávit Judæ ósculum: Denariórum número
Christum Judǽis trádidit. Mélius illi erat, si natus non fuísset”[1]. Mercanteggiò il
Sangue dell’Innocente e, al netto del pentimento iniziale, pose fine alla sua
vita disperando della misericordia del Signore. Così l’anima sua – esatto
contrario del Buon Ladrone (qui)
– discese “nel luogo suo proprio” (Act. I, 25), ossia l’inferno[2], per scontare in
eterno “la pena del suo delitto”[3]. Una delle figure più
tragiche del racconto evangelico, un’anima nera, le cui sfumature proponiamo
nell’analisi che ne fa l’abate Giuseppe Ricciotti.
Giunse pertanto il penultimo
giorno avanti la Pasqua, ossia il mercoledì. Il tempo, per i sommi sacerdoti e
i Farisei, stringeva e bisognava decidersi ad agire. Nonostante le ripetute
deliberazioni prese nei giorni precedenti, ancora non si era fatto nulla,
perché Gesù era protetto dal favore popolare e quindi si permetteva di girare
impunemente in Gerusalemme e perfino di predicare nel Tempio. Ma non c’era dunque
modo di farlo scomparire occultamente, senza che il popolo se ne avvedesse?
Certo non bisognava perdere altro tempo, e la questione doveva essere risolta
in maniera definitiva prima della Pasqua, per evitare conseguenze che potevano
esser gravissime. Le feste in genere, e soprattutto la Pasqua, a causa delle
enormi affluenze di folle eccitate, erano considerate dal procuratore romano
come periodi di convulsione sismica, ed allora più che mai egli sbarrava tanto
d’occhi e raddoppiava la vigilanza per timore che un nonnulla facesse saltare
tutto in aria: perciò in tali occasioni – come riferisce occasionalmente Flavio
Giuseppe (Guerra giud., II, 224) – la coorte romana di presidio a
Gerusalemme si schierava lungo il portico del Tempio, giacché nelle feste essi
fanno sempre la guardia armati affinché la folla adunata non faccia sedizioni.
Che cosa dunque non poteva accadere con quel Rabbi galileo in giro per la città
e nel Tempio, attorniato da gruppi d’entusiasti che lo credevano Messia?
Al primo subbuglio che fosse
accaduto, il cavaliere Ponzio Pilato avrebbe scatenato i suoi soldati sulle
folle dei pellegrini cominciando davvero a distruggere il luogo santo e la nazione,
come si era temuto. No, no, assolutamente bisognava scongiurare questo pericolo
e far si che per la Pasqua tutto fosse a posto. Ma come? In quel mercoledì si
tenne un nuovo consiglio per discutere tale questione. Allora si
radunarono i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo nel palazzo del sommo
sacerdote chiamato Caifa, e deliberarono di catturare Gesù’ con inganno e
d’uccider(lo). Tuttavia dicevano:“Non nella festa, affinché non avvenga tumulto
nel popolo” (Matteo, 26, 3-5). Era dunque pacifico per tutti i
partecipi dell’adunanza che Gesù dovesse esser soppresso; tuttavia alcuni più
cauti facevano notare il pericolo che l’arresto fosse eseguito durante la festa
pasquale quando molti pellegrini, o Galilei o favorevoli a Gesù, potevano
insorgere per proteggerlo; d’altra parte neppure sarebbe stato opportuno
rimandare l’arresto a dopo la festa, perché nel frattempo Gesù poteva
allontanarsi con i pellegrini che tornavano alle loro case e così sfuggire alla
cattura, come aveva già fatto dopo la resurrezione di Lazzaro: perciò bisognava
agir subito, prima della Pasqua. E in segreto. A questa sollecitudine e
segretezza mirava l’osservazione dei cauti consiglieri. Ma appunto qui stava la
difficoltà. Alla Pasqua mancavano solo due giorni, e Gesù passava tutta la sua
giornata in mezzo al popolo; com’era possibile agire in sì poco tempo e in
maniera che l’arresto si risapesse solo a cose fatte? L’aiuto venne donde meno
si aspettava. Allora uno dei dodici, quello chiamato Giuda Iscariota,
andato dai sommi sacerdoti disse:”Che cosa mi volete dare, ed io lo consegnerò
a voi?”. E quelli stabilirono trenta (monete) argentee. E da allora (Giuda)
cercava un’opportunità per consegnarlo. Questa è l’informazione di
Matteo (26, l4-l6), con cui concordano gli altri due Sinottici, i quali non
precisano la somma pattuita ma aggiungono la ben comprensibile notizia che i
sommi sacerdoti si rallegrarono della proposta di Giuda. E infatti adesso, con
tale cooperatore, arrestare sollecitamente e segretamente Gesù diventava impresa
facile.
Ma quale ragione spinse Giuda
al tradimento? La primitiva catechesi non ci ha trasmesso altra ragione che
l’amore al lucro. Quando gli evangelisti presentavano Giuda come ladro e
amministratore fraudolento della cassetta comune preparavano in realtà la
scena di Giuda che si reca dai sommi sacerdoti per chiedere: Che cosa
mi volete dare … ? Ma, anche fuori dei vangeli, quando Pietro parla
del traditore ormai suicida non accenna ad altro profitto del tradimento se non
all’acquisto d’un campo con la mercede dell’iniquità (Atti, 1, 16-19). La
ragione del lucro è dunque sicura; tuttavia insieme con essa non è escluso che
ve ne siano state altre di cui la primitiva catechesi non si occupò, e qui il
campo è aperto a ragionevoli congetture. Anche astraendo dai voli fantastici
fatti su questo campo sommamente tragico da drammaturghi o da storici
d’ispirazione romanzesca, resta sempre l’inaspettato contegno tenuto da Giuda
soltanto due giorni dopo: visto che Gesù è stato condannato, il traditore improvvisamente
si pente di aver venduto il sangue di quel giusto, e riportatone il prezzo ai
sommi sacerdoti va ad impiccansi. Ebbene, questo non è il contegno di un
semplice avaro: un avaro tipico, un uomo che non avesse avuto altro amore che
per il denaro, sarebbe rimasto soddisfatto del lucro ottenuto, qualunque fosse
stata la sorte successiva di Gesù, e non avrebbe pensato né a restituire il
denaro né ad impiccarsi. Avaro e cupido Giuda fu certamente, ma oltre a ciò
era qualche cosa d’altro. Esistono in lui almeno due amori: uno è quello
dell’oro, che lo spinge a tradire Gesù; ma a fianco a questo esiste un altro
amore che talvolta può anche essere più forte, perché a tradimento compiuto
prevale sullo stesso amore dell’oro e spinge il traditore a restituire il
lucro, a rinnegare tutto il suo tradimento, a compiangerne la vittima e infine
ad uccidersi per disperazione. Qual era l’oggetto di questo amore contrastante
con quello dell’oro? Per quanto ci si ripensi, non si trova altro oggetto
possibile se non Gesù. Se Giuda non avesse sentito per Gesù un amore tanto
grande che talvolta prevaleva su quello per l’oro, non avrebbe né restituito il
denaro né rinnegato il suo tradimento. Ma se egli amava Gesù, perché lo
tradì?
Certamente perché il suo amore era grande ma non incontrastato, non era l’amore generoso, fiducioso, luminoso di un Pietro e di un Giovanni, e conteneva pur nella sua fiamma alcunché di fumoso e di tenebroso: in che consistesse però questo elemento oscuro non sappiamo, e per noi rimarrà il mistero dell’iniquità somma. Riseppe forse Giuda di essere stato denunziato a Gesù come frodatore della cassetta comune, e non tollerò di essere decaduto dalla stima di lui? Ma anche Pietro come rinnegatore di Gesù giudicherà di esser decaduto dalla stima di lui, eppure non dispererà. Forse, più accortamente degli altri Apostoli, Giuda comprese dalle rettifiche messianiche di Gesù che il suo regno non avrebbe apportato né gloria né potenza mondane ai futuri cortigiani, e in quel previsto fallimento provvide da avaro qual era ai propri interessi? Ipotesi possibilissima; la quale tuttavia non spiega da sola perché mai Giuda, dopo essersi staccato da Gesù mediante il tradimento, si senta ancora legato a lui da pentirsi ed uccidersi. Forse, accoppiando l’amore del lucro con l’ansia di veder presto Gesù a capo del regno messianico politico, Giuda lo tradì con la sicurezza di vederlo compiere portenti su portenti di fronte ai suoi avversari, e così di costringerlo a inaugurar subito quel regno che si faceva troppo aspettare? In tal caso però il traditore non si sarebbe dovuto uccidere prima della morte di Gesù ma tutt’al più dopo, perché egli non sapeva quando il Messia sarebbe ricorso ai suoi massimi portenti, tanto più che proprio all’inizio della sua operosità di traditore Giuda aveva assistito nel Gethsemani al portento delle guardie atterrate. E le ipotesi si potrebbero facilmente moltiplicare, senza però che ne rimanesse schiarito con sicurezza il mistero dell’iniquità somma. Inoltre, tale iniquità non consisté soltanto nel vendere Gesù, ma più e soprattutto nel disperare del suo perdono. Giuda aveva visto Gesù perdonare a usurai e prostitute, aveva udito dalla sua bocca le parabole della misericordia compresa quella del figliuol prodigo, lo aveva inteso comandare a Pietro di perdonare settanta volte sette: eppure dopo tutto ciò egli dispera del suo perdono e s’impicca, mentre Pietro dopo il suo rinnegamento non dispererà ma scoppierà a piangere.
Certamente perché il suo amore era grande ma non incontrastato, non era l’amore generoso, fiducioso, luminoso di un Pietro e di un Giovanni, e conteneva pur nella sua fiamma alcunché di fumoso e di tenebroso: in che consistesse però questo elemento oscuro non sappiamo, e per noi rimarrà il mistero dell’iniquità somma. Riseppe forse Giuda di essere stato denunziato a Gesù come frodatore della cassetta comune, e non tollerò di essere decaduto dalla stima di lui? Ma anche Pietro come rinnegatore di Gesù giudicherà di esser decaduto dalla stima di lui, eppure non dispererà. Forse, più accortamente degli altri Apostoli, Giuda comprese dalle rettifiche messianiche di Gesù che il suo regno non avrebbe apportato né gloria né potenza mondane ai futuri cortigiani, e in quel previsto fallimento provvide da avaro qual era ai propri interessi? Ipotesi possibilissima; la quale tuttavia non spiega da sola perché mai Giuda, dopo essersi staccato da Gesù mediante il tradimento, si senta ancora legato a lui da pentirsi ed uccidersi. Forse, accoppiando l’amore del lucro con l’ansia di veder presto Gesù a capo del regno messianico politico, Giuda lo tradì con la sicurezza di vederlo compiere portenti su portenti di fronte ai suoi avversari, e così di costringerlo a inaugurar subito quel regno che si faceva troppo aspettare? In tal caso però il traditore non si sarebbe dovuto uccidere prima della morte di Gesù ma tutt’al più dopo, perché egli non sapeva quando il Messia sarebbe ricorso ai suoi massimi portenti, tanto più che proprio all’inizio della sua operosità di traditore Giuda aveva assistito nel Gethsemani al portento delle guardie atterrate. E le ipotesi si potrebbero facilmente moltiplicare, senza però che ne rimanesse schiarito con sicurezza il mistero dell’iniquità somma. Inoltre, tale iniquità non consisté soltanto nel vendere Gesù, ma più e soprattutto nel disperare del suo perdono. Giuda aveva visto Gesù perdonare a usurai e prostitute, aveva udito dalla sua bocca le parabole della misericordia compresa quella del figliuol prodigo, lo aveva inteso comandare a Pietro di perdonare settanta volte sette: eppure dopo tutto ciò egli dispera del suo perdono e s’impicca, mentre Pietro dopo il suo rinnegamento non dispererà ma scoppierà a piangere.
Anche questo disperare del
perdono dimostra che Giuda aveva per il giusto da lui tradito un’altissima
stima, la quale gli faceva misurare l’abissale nefandezza del delitto commesso:
ma era anche una stima incompleta e quindi ingiuriosa, perché davanti alla
responsabilità del tradimento si fermava a mezza strada e ingiuriosamente
riteneva Gesù incapace di perdonare al traditore. Ben più che dal tradimento di
Giuda, Gesù fu ingiuriato dal suo disperare del perdono: qui fu l’oltraggio
sommo ricevuto da Gesù e l’iniquità somma commessa da Giuda. La mercede
stabilita dai sommi sacerdoti per il tradimento fu di trenta (monete) argentee.
Il solo Matteo comunica questa cifra perché, sollecito qual è di segnalare che
in Gesù si sono adempite le antiche profezie messianiche, scorge qui adempita
una profezia di Zacharia; tuttavia Matteo, né in questo punto né in seguito
(27, 3-10), dirà il nome individuale delle monete e parlerà sempre di trenta
argentei. Non c’è dubbio che l’innominata moneta fosse il siclo ossia lo
statere, il quale valeva quattro dramme ossia quattro denari; non era quindi
il denarius romano (§ 514); ma una moneta di valore quattro
volte maggiore: perciò, parlando tecnicamente, l’espressione usuale di “trenta
denari di Giuda” è falsa perché l’intera somma di 30 sicli era costituita da
120 “denari”. Nel valore odierno essa corrisponderebbe a circa 128 lire in
oro. Era norma della legge ebraica (Esodo, 21, 32) che quando un bove avesse
ucciso cozzando uno schiavo, il padrone del bove dovesse pagare al padrone
dello schiavo a risarcimento del danno subito 30 sicli d’argento: quindi in
pratica il valore medio d’uno schiavo doveva computarsi circa sui 30 sicli. Può
darsi che i sommi sacerdoti s’ispirassero a questa norma della Legge nello
stabilire la mercede a Giuda, perché così ottenevano il doppio scopo di mostrarsi
osservatori la lettera anche in quel caso e insieme di trattare Gesù come uno
schiavo qualunque.
Luca, il quale ha terminato il
racconto delle tentazioni di Gesù dicendo che il diavolo si allontanò
da lui fino a tempo (opportuno) (IV, 13), inizia qui il racconto del
tradimento dicendo che entrò Satana in Giuda, quello chiamato Iscariota, il
quale andò ad accordarsi per il suo delitto con i sommi sacerdoti (Luca, 22, 3
segg.). Cosicché per l’evangelista discepolo di Paolo la passione di Gesù è
il tempo (opportuno) preaccennato, e rappresenta in qualche
modo una ripresa delle tentazioni a cui Gesù era stato sottoposto da Satana
all’inizio della sua vita pubblica: terminando adesso Gesù la vita intera,
Satana gli muove l’ultimo e più potente assalto e lo sottopone alla suprema
prova, dopo di che egli entrerà nella sua gloria. O stolti e lenti di
cuore…! Non doveva forse patire queste cose il Cristo (Messia) e (cosi) entrare
nella sua gloria? (Luca, 24, 25-26).
[…] Quando la seduta mattinale
del Sinedrio fu terminata, si riseppe presto e facilmente al di fuori che Gesù
vi era stato condannato: forse prima di ogni altro estraneo lo riseppe un uomo
che aveva sommo interesse a questa sentenza, Giuda Iscariota. L’ultimo
risultato del suo tradimento produsse nel suo spirito l’effetto sconvolgitore
a cui già accennammo. Il maestro, ch’egli a suo modo amava, era stato
condannato a morte. E adesso, avrebbe potuto egli liberarsi? Sarebbe egli
ricorso alla sua potenza taumaturgica per rompere quella rete dentro cui
l’avevano avviluppato i suoi nemici? Il traditore ne dubitò. Forse allora per
la prima volta s’avvide che le ultime conseguenze del suo tradimento
differivano da quelle da lui previste: certamente allora per la prima volta
egli intravide l’abissale ingiustizia da lui commessa. In quell’uomo allora
l’amore per Gesù ebbe il sopravvento su ogni altro suo amore, anche su quello
potentissimo per l’oro: ma da amore torbido e impuro qual era non poté
assurgere alla speranza di perdono. I 30 sicli, che egli nel frattempo aveva
ricevuto e nei quali la sua cupidigia aveva sperato un pieno appagamento di
spirito, gli divennero invece fonte di insopportabile amarezza. Sembrava che
si fossero arroventati: egli non poteva più tenerseli addosso, parendogli di
confermare e ribadire ancora il suo tradimento. Corse quindi dai sommi
sacerdoti e davanti ad essi gridò: Ho peccato, tradendo sangue
innocente! E insieme protese verso loro la borsa dei sicli in atto di
riconsegnarla. I membri del Sinedrio, freddi, sicuri di sé, leggermente ironici,
risposero al suo grido: A noi che (importa)? Tu (te la) vedrai! La
risposta dei prezzolatori risonò nell’anima del prezzolato come beffa
sarcastica, la quale mostrava che egli più di ogni altro era rimasto irretito
nel tradimento ed egli solo ne era la vera vittima. Per i Sinedristi il
tradimento doveva rimanere e sussistere per sempre, né poteva in alcun modo
rinnegarsi; tutto il peso del tradimento ricadesse pure sul traditore, e pensasse
egli a cavarsi d’impaccio: quanto a loro, avendo pagato regolarmente i 30 sicli
pattuiti, erano fuori di tutto l’affare né volevano più saperne. Un furore
rabbioso s’impadroni allora del traditore. Vedendo precluse tutte le uscite,
sentendosi schiacciato sotto il peso dei sicli, egli corse al vicino Tempio, s’inoltrò
quanto gli era possibile verso l’edificio del “santuario” , e di là
freneticamente cominciò a scagliare manciate di sicli verso il luogo santo
quasi per liberarsi di un groviglio di vipere che gli mordeva il cuore.
Le monete rotolarono sul
lastricato con un tintinnio che sembrava uno sghignazzamento, si sparsero un
po’ dappertutto davanti al “antuario” giacquero là come in attesa. Ma anche
quando quello sghignazzamento si tacque, il traditore non si sentìaffatto
sollevato; se la cupidigia sua era dissipata e scomparsa, in tragico compenso
l’amore suo per Gesù credeva scorgere davanti a sé una rupe insormontabile per
raggiungere la persona sempre amata. Da ogni parte il traditore vedeva attorno
a sé il vuoto. Una nerissima tenebra avvolse allora la sua mente, ed egli
fuggendo via dal Tempio andò senz’altro ad impiccarsi.
Della fine di Giuda abbiamo
una doppia relazione con interessanti divergenze, le quali sono di particolare
valore nel confermare l’identità sostanziale del fatto. Matteo parla soltanto
dell’impiccamento. Luca invece, riportando un discorso di Pietro negli Atti
(1, 16-19), ha conservato la tradizione secondo cui Giuda divenuto a capo fitto
crepò in mezzo effondendo tutte le sue viscere. Le due relazioni sembrano
riferirsi a due momenti diversi dello stesso fatto: dapprima Giuda s’impiccò,
quindi il ramo dell’albero o la corda a cui egli era appeso si stroncò, forse
per le scosse convulsive, e allora il suicida precipitò in basso; è legittimo
immaginare che l’albero fosse sull’orlo di qualche burrone, cosicché la caduta
produsse nel corpo del suicida le conseguenze di cui parla la relazione di
Luca. Una tradizione identificherebbe il luogo dell’impiccamento di Giuda con
il campo Haceldama comprato con i sicli di lui e situato nella Geenna, la valle
a mezzogiorno di Gerusalemme designata fin dai tempi antichi come luogo
maledetto. La leggenda a sua volta fin dai tempi più antichi si è impadronita
del fatto, ricamandovi attorno o trasformandolo in mille maniere: già nel
secolo IV si affermava che l’albero a cui Giuda si era impiccato era un fico
(l’albero delle cui foglie si rivestirono i protoparenti peccatori; Genesi, 3,
7), e questo fico, dopo aver emigrato in vari posti lungo i secoli, era
mostrato ancora superstite pochi anni addietro a Gerusalemme.
Rimanevano frattanto i sicli
gettati dal traditore nel Tempio. I puntualissimi Sinedristi si consultarono
sulla sorte da assegnare a quel denaro in maniera che la Legge non fosse
violata. La Legge infatti (Deuteronomio, 23, 19 ebr.) non permetteva che fosse
accettato come offerta sacra denaro proveniente da guadagni indecorosi, quale
meretricio, omicidio e simili; perciò i Sinedristi, raccolti i sicli,
osservarono: Non è lecito metterli nel “qorban” (tesoro sacro),
giacché è prezzo di sangue. D’altra parte 30 sicli erano una somma
considerevole, a cui non sarebbe stato saggio rinunciare: e allora quegli
accurati casuisti trovarono una via di mezzo per conciliare i due opposti. In
occasione di grandi feste ebraiche affluivano a Gerusalemme moltissimi
pellegrini dalle varie regioni della Diaspora, e avvenendo che taluni di essi
morissero durante la loro permanenza nella città santa le autorità locali
dovevano provvedere alla loro sepoltura. Ma fino a quel tempo un cimitero
riservato a tale scopo non c’era: i Sinedristi quindi deliberarono che con i 30
sicli si comperasse un luogo chiamato comunemente “Campo del vasaio”. forse
perché era argilloso e sede di un laboratorio di vasellame, e si destinasse a
cimitero dei pellegrini.
(Giuseppe Ricciotti, Vita
di Gesù Cristo, 532-534, 574-575)
[1] R. Giuda, pessimo
mercante, s’appressò al Signore con un bacio: egli come agnello innocente, non
ricusò il bacio di Giuda: * Il quale per pochi denari consegnò Cristo ai
Giudei. / V. Era meglio per lui che non fosse mai nato.
/ R. Il quale per pochi denari consegnò Cristo ai Giudei.
[2] Il Cristo chiama Giuda “figlio di
perdizione ” (Joann. XVII, 12) che “è un ebraismo che significa: colui che si è
perduto. Con questo nome si allude a Giuda traditore. Non è per incuria di Gesù
che Giuda andò perduto, ma per la perversa sua volontà. Dio, che ciò
aveva permesso, lo fece preannunziare nella Scrittura (Salm. XL, 10; CVIII, 8)”
(Padre Marco M. Sales OP, La Sacra Bibbia – Il Nuovo Testamento,
Torino, 1925, Vol. I, p. 429, n. 12). San Pietro nel passo citato degli Atti
degli Apostoli usa in riferimento al destino eterno del traditore
l’espressione andare nel luogo suo proprio: “un eufemismo per
indicare l’inferno. Giuda abbandonò il luogo che occupava tra gli Apostoli per
acquistarsi un luogo nell’inferno, come si conveniva all’enormità del suo
delitto” (Ibid. p. 463, n. 25).
[3] Colletta della Messa in Coena
Domini: “Deus, a quo et Judas reatus sui poenam, et confessiónis suæ latro
praemium sumpsit, concéde nobis tuæ propitiatiónis efféctum: ut, sicut in
passióne sua Jesus Christus, Dóminus noster, diversa utrísque íntulit stipéndia
meritórum; ita nobis, abláto vetustátis erróre, resurrectiónis suæ grátiam
largiátur: Qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus per omnia
saecula saeculorum. Amen” [Dio, da cui Giuda ricevette il castigo del suo
delitto e il ladrone il premio del suo pentimento, fa a noi sentire l’effetto della
tua pietà, affinché, come nella sua Passione Gesù Cristo Signor nostro diede
all’uno e all’altro il dovuto trattamento, cosi tolte da noi le aberrazioni
dell’uomo vecchio, ci dia la grazia della sua risurrezione. Lui che è Dio, e
vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei
secoli. Amen].
Fonte:
Radiospada, 17.4.2019
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