domenica 30 giugno 2019
sabato 29 giugno 2019
lunedì 24 giugno 2019
S. Francesco ed il Sultano d'Egitto. Un'interpretazione storica da rivedere
Rilanciamo volentieri, in occasione dell’VIII centenario
dell’incontro di S. Francesco con il Sultano d’Egitto (avvenuto il 24 giugno 1219), questo contributo di
Mons. Nicola Bux e dell’Avv. Francesco Patruno.
S. FRANCESCO ED IL SULTANO D’EGITTO. UN’INTERPRETAZIONE STORICA DA RIVEDERE.
Di
Mons. Nicola Bux e Avv. Francesco Patruno
Terrasanta, periodico della Custodia
Francescana, ospitava dieci anni fa un dossier di padre Gwenolé Jeusset, ofm, San Francesco in Terra Santa (nuova
serie, anno IV, n. 5, 2009, pp. 27-42). Gli articoli ruotavano intorno all’episodio
dell’incontro col sultano, a Damietta, contrapponendolo al martirio dei
primi frati, inviati in Marocco, dallo
stesso Santo di Assisi «per ispirazione divina» (come si legge nella Cronaca dei Ministri Generali dell’Ordine
dei Frati Minori, in Analecta
Franciscana, 111, p. 15).
Oggi, a distanza di dieci anni, il numero
di marzo-aprile 2019 della stessa rivista, dedicava un nuovo dossier a quell’incontro, per celebrarne l’VIII centenario (1219-2019). Anche questa volta
non poteva mancare un nuovo articolo di padre Jeusset, dal titolo Le ragioni di un viaggio, in cui l’Autore
riprende un po’, in maniera più marcata, ciò che il medesimo diceva dieci anni
addietro. Con una particolarità. Viviamo, nella Chiesa attuale, ahimé, lo
spirito della Dichiarazione sulla “Fratellanza Umana” di Abu Dhabi dello scorso
febbraio, che ha visto il vescovo di Roma, “novello san Francesco”, incontrarsi
con il Grande Imam di Al-Azhar, erede spirituale – diciamo così – e
rappresentante islamico oggi di quello che fu il sultano d’Egitto, di origine
curda, al-Malik al-Kamil, nipote del celebre Saladino, che il Santo d’Assisi
ebbe modo di incrociare nella propria esistenza.
Tornando all’articolo di dieci anni fa di padre
Jeusset, va posto in luce che, per lui, tale incontro addirittura rappresenterebbe
una «svolta dell’evangelizzazione» (Gwenolé Jeusset, San Francesco in Terra Santa,
cit.). Si esaltava l’ideale di fraternità universale presentandola come
altra cosa rispetto alla Chiesa “delle crociate”, che aveva «i paraocchi». L’Autore
giungeva ad affermare che Francesco usciva dal «ghetto» cristiano per entrare,
si può supporre, nello spazio interreligioso di ampio respiro! Insomma, si
anticipavano dieci anni fa quelli che sarebbero stati, in fondo, i temi,
culturale ed ideologico, in cui sarebbe maturata la ricordata dichiarazione del
febbraio 2019.
Ci sia permessa una chiosa: curioso che
questa “svolta dell’evangelizzazione” non sia stata percepita come tale dai
figli dello stesso S. Francesco per oltre 750 anni, i quali l’abbiamo, invece,
“scoperta” soltanto oggi. È curioso ricordare che, non a caso, i maggiori Santi
francescani furono degli strenui difensori, promotori quando non veri e propri
protagonisti sui campi di battaglia del modello oggi contestato. Basti ricordare
S. Bernardino da Siena, S. Giacomo della Marca, S. Giovanni da Capistrano, S.
Luigi IX, beato Marco d’Aviano, tanto per citare alcuni nomi. Forse questi
Santi e Beati, le cui virtù la Chiesa ha riconosciuto solennemente, erano dei
traditori delle direttive ispiratrici del loro Serafico Padre?
La verità è che siamo di fronte ad una
ideologia già nota, quella del Francesco ambientalista e pacifista, quasi socio
ante litteram del WWF ed attivista
delle “marce per la pace”, in contrasto a dir poco con quanto le fonti
francescane comparate e gli studi più seri ci riferiscono, soprattutto in
merito al celebrato e mitizzato incontro di Francesco col sultano. Basta
ricorrere, tra tanti, allo studio, davvero pregevole, dello storico Franco
Cardini (Francesco d’Assisi, Milano, 1990, II ed.), che tiene conto
adeguatamente delle fonti e della loro ricezione critica, sebbene, ad onor del
vero, lo stesso Autore abbia, in seguito, rivisto le posizioni assunte nel suo
libro, non sulla base di nuovi studi o scoperte, ma probabilmente per una rivisitazione
di quell’episodio alla luce dell’odierno spirito dei tempi. Ci riferiamo, a
quest’ultimo riguardo, alla raccolta di saggi, Nella presenza del soldan
superba. Saggi francescani, Spoleto, 2009.
Ad ogni modo, tornando a quello studio
sulla vita del Poverello d’Assisi, il noto storico fiorentino, che peraltro
conosce bene l’Oriente, ricordava che le prime iniziative dell’Ordine
francescano in Francia, Germania e Marocco volte all’evangelizzazione
registrarono un fallimento, non per cattiva volontà dei frati, ma perché
intraprese forse in fretta sull’onda dell’entusiasmo; a provocarle era stato lo
stesso Francesco al di là delle intenzioni. Di certo, a questi non
interessavano le visioni palingenetiche della società – vedi la fraternità
universale, come dice Gwenolet Jeusset – né tantomeno pensava che costituissero
lo scopo del suo movimento mendicante ma «egli voleva mantener fermo il suo
proposito di vita, la sequela Christi, l’imitazione del modello
evangelico attraverso la penitenza e la povertà» (Cardini, Francesco d’Assisi,
cit., p. 183). Certo «dalla visita di Francesco in Oriente […] data il decollo
di quel missionarismo francescano che ha mutato radicalmente le prospettive
dell’approccio cristiano agli infedeli» (ibidem,
p. 184). Invece, si è valutata la sua posizione di fronte alla crociata,
affermando che non poteva non essere contro e via dicendo: «Francesco – si è concluso
alla fine di questa galleria di sciocchezze – ha dimostrato incontrando il
sultano di voler convertire gli infedeli con l’amore, non con la spada» (ibidem, p. 185).
Cardini sosteneva, in effetti, che tali
argomenti non meritassero d’essere confutati, tuttavia li affrontava
egualmente, esordendo col lamentare «una grossolana ignoranza di quel che
significasse la crociata nel contesto spirituale, disciplinare ed ecclesiale
del tempo; e di come in quel contesto si situasse la proposta di Francesco» (ibidem): essa era un «pellegrinaggio
armato» e non «una guerra missionaria, alla quale ci si potesse ragionevolmente
opporre nel nome di un concetto pacifico di missione. In secondo luogo
Francesco – che era senza dubbio uomo di pace, e che alle armi aveva rinunziato
come ad ogni altra cosa che riguardasse il saeculum, il mondo – non
avrebbe comunque mai potuto contestare la crociata per due motivi: uno esterno
e disciplinare, che potrebbe sembrar definitivo e mettere a tacere ogni
polemica; uno invece intimo, spirituale,connaturato ai tempi e a lui stesso,
che potrebbe sfuggire a qualcuno e merita quindi di venir sottolineato» (ibidem, p. 186). La crociata era stata
voluta dalla Chiesa di Roma come sforzo corale della cristianità per liberare i
luoghi santi. Coloro che predicavano contro la crociata erano innanzitutto gli
eretici (ad es. Arnaldo da Brescia e Valdo di Lione: cfr. C. Papini, Valdo di Lione e i “poveri nello spirito”.
Il primo secolo del movimento valdese (1170-1270), Torino, ed. Claudiana,
2001, passim), e Francesco «non
poteva non distinguersi da loro attraverso un solo ma inequivocabile tipo di
scelta: la disciplina nei confronti della Chiesa, l’obbedienza» (F. Cardini, op. ult. cit., p. 186). Per questo,
nelle fonti non si trova una sola parola di Francesco contro la crociata, come
contro nessun altro. Sebbene tale silenzio non equivalga ad approvazione né,
sotto altro verso, a riprovazione. Come afferma lo storico Benjamin Z. Kedar,
docente emerito di storia presso l’Università ebraica di Gerusalemme, in un
saggio recente, Crociata e missione. L’Europa incontro a l’Islam, Roma
1999 (riedito nel 2015), «nessuna delle fonti attribuisce a Francesco parole
che possano essere interpretate come critica delle crociate» (ivi, p. 166).
L’argumentum
e silentio, di per sé, dunque, non può essere sostenuto come prova della contrarietà
del Santo alle crociate, sebbene – può ipotizzarsi – possa essere rimasto
scandalizzato dal comportamento dei crociati, che bestemmiavano ed andavano con
prostitute.
Né può trarsi un argomento di contrarietà
dalla circostanza che il Santo di Assisi decidesse di varcare le linee nemiche
(peraltro non senza il permesso del legato papale e guida religiosa della V
crociata, l’intransigente card. Pelagio Galvani d’Albano!), entrando in campo
islamico, del tutto disarmato. Ciò era, del resto, perfettamente giustificabile
se si considera che egli era stato aggregato al clero fin dalla prim’ora, su
ordine del papa e per la mediazione del Cardinale di San Paolo, Giovanni
Colonna, tanto da ricevere la tonsura clericale (cfr. Fonti Francescane, nn. 1460, 1461, 1528) e venendo, in seguito,
rivestito del diaconato. Non è, anzi, improbabile che, per facilitare il
compito della predicazione di Francesco e dei suoi frati nelle chiese, fosse
stato lo stesso vescovo di Assisi, o addirittura il Papa, ad averlo ordinato
diacono. Scrive infatti il Celano nella sua Vita Prima a proposito del
Natale del 1223 di Greccio: «Induitur sanctus Dei leviticis ornamentis, quia levita erat, et voce sonora
sanctum Evangelium cantat …» (ibidem, n. 470). Perciò, quando, nel 1219, si recò in Egitto, era
già diacono, poiché non portò con sé armi, stante il generale divieto canonico –
almeno dal Concilio provinciale di Poitiers del 1079 («clerici arma portantes et
usurarii excommunicentur»), in seguito ripreso da altri sinodi e nelle raccolte delle
decretali – per i sacri ministri di indossare, salvo particolari eccezioni,
armi di sorta. Addirittura, era vietata, per questo motivo, persino la caccia,
come stabiliva il can. 15 del Concilio Lateranense IV del 1215! Ecco spiegato
il motivo per il quale S. Francesco andò disarmato.
Franco Cardini osservava quindi che «[b]isogna
forse avere il coraggio di disincantare la realtà storica di un Francesco
troppo spesso ricostruito secondo i gusti e le tendenze morali odierne, e
guardare alla concreta realtà storica del XIII secolo» (F. Cardini, Francesco
d’Assisi, cit., p. 187). Per l’uomo di quell’epoca e per Francesco, che
aveva scelto Cristo a modello di vita, la crociata era anzitutto il
pellegrinaggio, la visita ai luoghi del Salvatore, la cui conoscenza e
venerazione bisognava portare in Occidente; questo superava le violenze e le
infamie in essa perpetrate, perché su queste trionfa la Croce. «E qui subentra
il secondo, non sottovalutabile aspetto della questione. Francesco vedeva nella
crociata anzitutto l’occasione del martirio; e nel martirio la forma più alta e
più pura della testimonianza cristiana. Dire che l’ha cercato equivale a non
valutare correttamente il peso che, nella sua vocazione, aveva l’umiltà. Certo
però egli si è posto, anche in questo, a disposizione della Provvidenza» (ibidem, p. 188).
Nella regola del 1221 (la c.d. Regula non bullata) il Poverello riassumeva,
come è noto, l’esperienza del viaggio in Oriente, invitando i frati ad andare
tra gli infedeli (De euntibus inter
saracenos et alios infideles) in due modi: il primo, senza liti né dispute,
ma sottomettendosi e confessando d’essere cristiani; l’altro modo era di
valutare i segni del Signore circa il momento opportuno per annunziare il suo
vangelo ai «saraceni o altri infedeli», battezzarli e farli cristiani «perché
chiunque non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non potrà entrare nel regno
dei cieli» (ibidem) («Fratres vero, qui vadunt,
duobus modis inter eos possunt spiritualiter conversari. Unus modus est, quod
non faciant lites neque contentiones, sed sint subditi omni humanae creaturae
propter Deum (1 Petr 2,13) et confiteantur se esse christianos. Alius modus est,
quod, cum viderint placere Domino, annuntient verbum Dei, ut credant Deum
omnipotentem Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, creatorem omnium,
redemptorem et salvatorem Filium, et ut baptizentur et efficiantur christiani,
quia quis renatus non fuerit ex aqua et Spiritu Sancto, non potest intrare in
regnum Dei»). Le due modalità non erano contrapposte: anche la prima, per la
verità, serviva a scrutare il momento per costruire la Chiesa, senza della
quale non sarebbe possibile «la costruzione di un nuovo mondo, un programma di fraternità
universale», tanto auspicata da p. Jeusset (San
Francesco in Terra Santa, cit., p. 39). Senza la Chiesa non c’è salvezza (cfr.
Catechismo della Chiesa cattolica, n. 846), perciò l’Assisiate avvertiva
come suo imprescindibile compito l’evangelizzazione di tutti gli uomini. Altrimenti
perché mai Cristo sarebbe venuto al mondo e l’avrebbe fondata?
Dimenticarlo, significa credere che l’uomo
si salvi comunque ed a prescindere da Cristo, perché, come pensava Rousseau, esso
sarebbe naturalmente buono.
Francesco andò dal sultano nella
consapevolezza di tutto ciò.
Ora, contrapporre i protomartiri del
Marocco (canonizzati dal Pontefice Sisto IV il 7 agosto 1481, con la bolla Cum
alias, e riconosciuti dallo stesso S. Francesco come suoi veri Frati e da
S. Antonio da Padova come suoi modelli ispiratori) e la «Chiesa delle crociate»,
come fa p. Jeusset, al comportamento del Santo a Damietta, significa assumere un
atteggiamento ideologico, come si evince dalla seguente affermazione: «Serviranno
più di settecento anni allo Spirito Santo […] per farci capire che l’incontro
vissuto da Francesco d’Assisi era importante tanto quanto il martirio in
generale, ed era il contrappunto del martirio di Marrakesh» e dalla conclusione
chiastica che «Damietta è l’incontro senza martirio; Marrakesh è il martirio
senza incontro. Damietta è l’incontro tra due credenti; Marrakesh è lo scontro
di due sistemi e di due mentalità opposte, Marrakesh è il vicolo cieco.
Damietta al contrario è la strada che apre nuovi orizzonti» (Gwenolé Jeusset, op. ult. cit., p. 32).
In realtà, è il rapporto
di Francesco con i musulmani, impostato sull’umiltà d’essere “minore”, a
suscitare ammirazione in Oriente. Non a caso Dante lo descrive umile «alla
presenza del soldan superbo» (Par.
XI, 101). È proprio l’umiltà ad essere “pericolosa”: il sultano era – secondo l’Historia Occidentalis di Jacques de
Vitry, vescovo di S. Giovanni d’Acri e cardinale - «preso dal timore che
qualcuno dei suoi si lasciasse convertire al Signore dall’efficacia delle sue
parole» (Cardini, op. ult. cit., p.
193) («[…] Tandem
vero, metuens ne aliqui de exercitu suo, verborum eius efficacia ad Dominum
conversi, ad christianorum exercitum pertransirent […]»). Ipotizzando che
Francesco avesse profittato della tregua sotto l’assediata Damietta per cercare
d’incontrare il sultano, si può dedurre – facendo la media delle cronache di
Giacomo, di Ernoul, di Tommaso da Celano e di Bonaventura – che l’avesse fatto,
secondo Cardini, perché «voleva solo testimoniare: non era sua intenzione
convertire nessuno» (op. cit., p.
199). A lui stava a cuore solo Cristo, non i valori, come si dice oggi, fosse
pure la pace.
A nostro sommesso avviso,
comunque, non poteva dirsi estranea al Poverello l’annuncio della fede tra gli
infedeli e la ricerca, se necessario, della corona del martirio: «per la sete del martiro», diceva Dante (Par. XI, 100)!
Al contrario, l’idea-madre
di P. Gwenolé Jeusset è la fraternità universale: «Francesco voleva andare tra
i musulmani per dir loro che Gesù, sulla croce, ci aveva resi fratelli» (op. cit., p. 28; cfr. anche ibidem, p. 34). Può esser vero se si
aggiunge a questa verità l’altra: bisogna riconoscere la Croce e chi vi è stato
crocifisso, per tirarne come conseguenza la fraternità. È noto, invece, che
proprio ciò scandalizza i musulmani, i quali ritengono fratelli solo i
correligionari, mentre tutti gli altri sono sottomessi o infedeli.
Per riconoscere la
fraternità, bisogna convertirsi alla paternità di Dio, ma questo solo Gesù l’ha
rivelato: perciò ci si deve convertire a Lui. Forse che Cristo non voleva la
fraternità universale? Proprio per questo ha fondato la Chiesa! Oggi, piuttosto,
ci si imbatte persino in chi, ecclesiastico, vorrebbe raggiungere tale
risultato a prescindere non solo dalla conversione, ma anche dalla stessa
Chiesa. I muri che dividono, sono già caduti col sangue di Cristo, ma lo
possono riconoscere solo coloro che si convertono a Lui. La fraternità non ha
frontiere sulla terra solo se ci si converte a Cristo, come affermava, d’altronde,
anche S. Paolo, il quale esclamava non a caso nell’Epistola ai Galati: «Tutti
voi infatti siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti
siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo
né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti
voi siete uno in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza
di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal. 3, 26-29). Ed ancora nell’Epistola
agli Efesini: «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani
siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra
pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di
separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef. 2, 13-14).
Solo in Cristo,
riconoscendoLo, vi può essere la fraternità universale.
Diversamente, si coltiva
un’utopia: quella che porta, il p. Jeusset a vedere in Damietta addirittura «una
svolta dell’evangelizzazione» (op. cit.,
p. 36), il passaggio dalla mentalità della conquista alla mentalità dell’incontro
(ibidem, p. 37), dallo spirito delle
crociate allo spirito della fraternità, al punto da avanzare la certezza che «[s]e
Francesco non conseguì il martirio a Damietta, ricevette però la grazia di un
incontro spirituale al di là dei paraocchi della Chiesa delle crociate» (ibidem, p. 37). Jeusset approda alla
visione di un Santo che «abbandona il suo io ecclesiale. Esce dal “ghetto”
cristiano e raggiunge il lebbroso spirituale, cioè il musulmano, andando ben
oltre, al di là del mare …» (ibidem, p.
41). Egli giunge persino ad affermare che il Poverello «non era andato a
liberare una tomba vuota a Gerusalemme, ma aveva scoperto che Gesù, uscito vivo
dalla tomba, era presente col suo Spirito in coloro che lui, il pellegrino
Francesco, incontrava sull’altra sponda» (ibidem,
p. 38). Si può essere sicuri che costoro siano i musulmani! Ma…non ha detto
Gesù che i veri adoratori avrebbero adorato il Padre in spirito e verità (cfr.
Gv. 4, 24)? Siccome per arrivare al Padre bisogna passare per mezzo di Lui, per
caso i musulmani sono già tali? Dunque, non travisiamo la storia e tanto meno
la fede cattolica.
Frattanto, la
summenzionata rivista, come detto all’inizio, è tornata sul tema di san
Francesco e il Sultano, in occasione dell’VIII centenario del fatto avvenuto il
24 giugno 1219, pubblicando in copertina e all’interno le foto di nuove icone ad hoc, che canonizzano quest’ultimo con
il nimbo dell’aureola e lo immaginano, fantascientificamente quanto storicamente
inattendibile, abbracciato dal Santo d’Assisi!
Due chiose finali ci siano
permesse.
La prima, se è questa l’idea
di fondo oggi imperante nel mondo francescano, si abbia almeno la coerenza
logica e l’onestà intellettuale di “de-canonizzare” e “de-beatificare” i Santi
francescani che, in un modo o nell’altro, hanno rappresentato, in contrario,
ciò che oggi viene contestato, giacché la loro testimonianza stride in maniera
sin troppo evidente con quanto oggi viene ideologicamente proposto.
La seconda – come ci
ricorda anche un recente articolo de La Verità (Fabrizio Cannone, San
Francesco non costruì dei ponti. Convertì gli islamici, in La
Verità, 20.6.2019, p. 19) è un ammonimento
del Pontefice Pio XI, nel 1926, nell’enciclica Rite
Expiatis, nel VII Centenario della morte di S. Francesco. Papa Ratti, scagliandosi contro i primi adulatori e contraffattori della vita del Santo, osservava: «Non
cessiamo perciò dal meravigliarci come una tale ammirazione per San Francesco,
così dimezzato e anzi contraffatto, possa giovare ai suoi moderni amatori, i
quali agognano alle ricchezze e alle delizie, o azzimati e profumati
frequentano le piazze, le danze e gli spettacoli o si avvolgono nel fango delle
voluttà, o ignorano o rigettano le leggi di Cristo e della Chiesa». Citando le
parole del Breviario romano, quindi, ammoniva: «A chi piace il merito
del Santo, deve altresì piacere l’ossequio e il culto a Dio. Perciò, imiti quel
che loda, o non lodi quella che non vuole imitare. Chi ammira i meriti dei
Santi, deve egli stesso segnalarsi nella santità della vita» (§ 11).
domenica 23 giugno 2019
La messa papale del pontefice Leone X in un'antica miniatura di un manoscritto "Preparatio ad missam", presso la Morgan Library di New York
Fonte: New Cuttings From a Missal of Leo X, Illuminated by Attavante c.1520, in Medieval Manuscripts Provenance, Nov.1st, 2014;
Another Leo X Cutting, ivi, Nov. 25, 2014
giovedì 20 giugno 2019
La processione del Corpus Domini quando era celebrata nella Roma cattolica
Pier Leone Ghezzi, Clemente IX alla processione del Corpus Domini in Piazza S. Pietro, 1710-20 |
Pio VII alla processione del Corpus Domini |
Salvatore Buratti, Pio VIII alla processione del Corpus Domini, 1829 |
Pio IX alla processione del Corpus Domini |
Salvatore Busittil, Solenne processione papale del Corpus Domini, 1837-39, partic. |
domenica 16 giugno 2019
Oltre la linea ci salva la Verità
Nell’odierna festa della SS. Trinità
rilanciamo questo contributo di riflessione di Alessandro Gnocchi.
Oltre la linea
ci salva la Verità
Non so se vi sia più arroganza e compiacimento del potere sotto i
girocollo blu e le croci a Tau dei preti postcristiani o sotto le grisaglie e i
pantaloncini a tubo dei finanzieri postcapitalisti. Gli uni e gli altri
spietatamente postmisercordiosi, a seconda dell’ufficio proprio, nel negare la
comunione a chi si inginocchia davanti a divino sacramento oppure il mutuo a
chi crede ancora nell’avvenire dei figli. Gli uni e gli altri uniti dalla
medesima incomprensione per gli elementi minimi di umanità. Il potere comanda e
loro eseguono.
Per descrivere questi miserevoli funzionari del Nulla non c’è di
meglio che il passo di Arcipelago Gulag in
cui Aleksàndr Solženicyn descrive i giudici istruttori che mandavano al macello
i dissidenti sovietici: «Il loro mestiere non esige che
siano persone istruite, di cultura e vedute larghe, e tali non sono. Il loro
mestiere non esige che pensino logicamente, e non lo fanno. Il loro mestiere
esige unicamente una precisa esecuzione delle direttive e che siano insensibili
verso le sofferenze altrui: e questo sì, lo fanno. Noi che siamo passati
attraverso le loro mani li sentiamo, con un senso di soffocamento, come blocco
di esseri totalmente privo di concetti umani. (…) Capivano che le accuse erano
fasulle eppure lavoravano anno dopo anno. Come mai? O si costringevano a non
pensare (e questa è la distruzione dell’uomo) o, semplicemente, si dicevano:
così deve essere. Chi scrive le direttive non può sbagliare».
La banalità del male, alla quale si può opporre solo l’evidenza
del vero, l’unica arma che neanche il funzionario più solerte può sequestrare.
Alla lunga, il potere iniquo può solo essere eroso dalla resistenza condotta
nella verità. È ancora Arcipelago Gulag il
luogo in cui si mostra cosa accade quando un uomo oppresso dice a se
stesso: «Rimangono importanti e a me cari soltanto il mio spirito e la mia
coscienza». Allora, «davanti a un simile detenuto
vacillerà l’istruttoria. Vincerà solo chi avrà rinunziato a tutto. (…) al
momento del processo, sono riusciti a trasformare in marionette la cerchia di
Berdjaev, ma non lui medesimo. Lo volevano processare, fu arrestato due volte,
lo portarono a un interrogatorio notturno da Dzeržinskij, dove c’era anche
Kamenev. Ma Berdjaev non si umiliò, non si profuse in suppliche: espose con
fermezza i principi religiosi e morali in virtù dei quali non accettava il
potere che si era instaurato in Russia, e non solo fu riconosciuto inutile
processarlo, ma lo liberarono. L’uomo aveva un punto di vista proprio!
«N. Stoljarova ricorda una sua vicina nella prigione di Butyrki
nel 1937, una vecchina. La interrogavano ogni notte. Due anni prima un
metropolita fuggito dalla deportazione, di passaggio a Mosca, aveva pernottato
da lei. “Mica un ex metropolita, macché, uno vero! Sì, avete ragione, ho avuto
l’onore di ospitarlo”. “Bene e da chi andò poi, partendo da Mosca?”. “Lo so. Ma
non lo dirò”. (Il metropolita era fuggito in Finlandia con l’aiuto di una
catena di fedeli). I giudici istruttori si alternavano, si riunivano a gruppi,
minacciavano la vecchina coi pugni, e lei: “È inutile, non mi farete dire
nulla, anche se mi faceste a pezzi. Voi avete paura della autorità, avete paura
l’uno dell’altro, avete perfino paura di ammazzare me [avrebbero perduto la
“catena”]. Io invece non ho paura di nulla. Sono pronta a presentarmi davanti
al Signore anche subito!”».
In questo consiste il «Non abbiate paura». Con
il leviatano anticristico, in girocollo blu o in grisaglia, non è possibile
collaborare. Non si mediterà mai abbastanza sull’ammonimento di Hanna Arendt: «Abbiamo la responsabilità della nostra obbedienza».
Siamo chiamati a scegliere, ma questo non è solo un dovere di nostri giorni,
l’uomo lo deve fare sempre. Oggi è più urgente, più drammatico e più doloroso
poiché il terreno su cui ci si illude di trovare una mediazione onorevole si va
sgretolando ed esaurendo. Cosicché, paradossalmente, la scelta, mostrandosi
inevitabile, diventa più facile.
Ernst Jünger, nel Trattato del Ribelle,
definisce la decisione di opporsi radicalmente alla tirannia della modernità
con l’evocativa immagine del «passaggio al bosco».
L’immagine del bosco dà forma al concetto di libertà intimamente radicato
nell’essere e, dice Jünger, «è ben diverso dalla semplice
opposizione, e non si trova neppure mediante la fuga. (…) Qui sono a
disposizione mezzi diversi oltre al semplice “no” da scrivere in una in una
determinata casella. (…) Si può anche dire che nel bosco l’uomo dorme. Non
appena aprendo gli occhi riconosce il proprio potere, l’ordine è ristabilito.
(…) catturati nel gioco di potenti illusioni ottiche, siamo abituati a
considerare l’uomo, se confrontato con le sue macchine e con l’arsenale della
sua tecnica, un granello di sabbia. Ma queste illusioni sono e rimangono i
fondali di una immaginazione gregaria».
L’uomo non è un granello di sabbia, appartiene, meglio
apparteneva, a un “popolo”. Ma il “popolo” è un’entità che non va più di moda:
avvolto in malinconiche bandiere rosse è stato seppellito assieme alla suo
passato e al suo futuro, la sua Tradizione. Si sono inventati il popolo-di-Dio
e l’hanno presto trasformato in popolo-del-dio-Danaro, l’uno e l’altro odiato e
vessato dai kommissari postcristiani e postcapitalisti perché il “popolo”,
persino quello artificiale, mette a disagio il potere. Raramente si percepisce
tanto disprezzo nei suoi confronti come nelle liturgie che vanno in scena nelle
chiese postcristiane o nelle banche postcapitaliste. Non c’è nulla di buono in
quei templi e in quelle religioni, rispetto ai quali siamo chiamati a essere
profani. Lo dice ancora Jünger quando parla del «nichilismo
cristiano che si rende il compito un po’ troppo facile. Non posiamo limitarci a
immaginare il vero e il buono ai piani nobili, mentre in cantina stanno
scorticando vivi i nostri confratelli. Non sarebbe lecito neanche se ci
trovassimo, spiritualmente intendo, in una posizione non soltanto più sicura ma
addirittura superiore – poiché la sofferenza inaudita di milioni di schiavi
grida comunque vendetta al cospetto del cielo. Le esalazioni che emanano dagli
scorticatoi continuano ad appestarci. Non sono situazioni che si possono
aggirare con qualche mezzuccio».
Ma il “bosco”, se vogliamo mantenere questo nome per il luogo in
cui esercitare fino al fondo la grazia della fede e la virtù del vivere civile,
non è fatto per ospitare i grandi agglomerati. Non può ospitare movimenti,
partiti e manifestazioni di massa, piccoli o grandi che siano, neanche quando
sono frutto di buone intenzioni. Un amico mi ha rammentato alcuni passi una
splendida opera di Simone Weil che si intitola Manifesto
per la soppressione dei partiti politici. Sono tragicamente
inoppugnabili: «Quando in un Paese esistono i partiti, ne
risulta prima o poi uno stato delle cose tale che diventa impossibile
intervenire efficacemente negli affari pubblici senza entrare a far parte di un
partito e stare al gioco. (…) I partiti sono un meraviglioso meccanismo in
virtù del quale, in tutta l’estensione di un Paese, non uno spirito dedica la
sua attenzione allo sforzo di discernere, negli affari pubblici, il bene, la
giustizia, la verità. Ne risulta che – eccezion fatta per un piccolo numero di
coincidenze fortuite – vengono decise ed intraprese soltanto misure contrarie
al bene pubblico, alla giustizia e alla verità. Se si affidasse al diavolo
l’organizzazione della vita pubblica, non si saprebbe immaginare nulla di più
ingegnoso».
E poi ancora: «È desiderando la verità a
mente sgombra e senza tentare di indovinarne in anticipo il contenuto che si
riceve la luce. A questo si riduce l’intero meccanismo dell’attenzione. È impossibile
esaminare i problemi spaventosamente complessi della vita pubblica prestando
attenzione contemporaneamente da un lato a discernere la verità, la giustizia e
il bene pubblico, dall’altro a conservare l’atteggiamento che si conviene a un
membro di un certo raggruppamento. La facoltà d’attenzione umana non è capace
di rispondere simultaneamente a queste due preoccupazioni. In effetti, chiunque
si dedichi a una di esse, abbandona l’altra. Ma nessuna sofferenza attende chi
si abbandona alla giustizia e alla verità, mentre il sistema dei partiti
comporta le penalità più severe per l’indocilità. Penalità che toccano quasi
tutto: carriera, sentimenti, amicizie, reputazione, onore, talvolta addirittura
la vita di famiglia. Il partito comunista ha portato questo sistema alla
perfezione».
Ma Simone Weil non fece in tempo a vedere la chiesa postcristiana
e la finanza postcapitalista, che hanno saputo fare di più e meglio rispetto
all’orrore comunista. Quello si spingeva sino alla distruzione dei corpi, ma
poteva lasciare intatte le anime. Qui e ora, invece, è in gioco molto più che
la salvezza terrena, poiché si decide di quella eterna.
Come ieri non era possibile salvare l’integrità del proprio corpo
e del proprio pensiero entrando anche con riserva mentale nel meccanismo
comunista, così oggi non è possibile salvare l’integrità della propria fede e
della propria anima esercitando tale riserva per entrare nella pancia del
leviatano postmoderno. Tutti coloro che ci hanno provato, pensando di “fare
almeno un po’ di bene”, si sono persi. Quando ci si costringe all’ossequio per
l’autorità iniqua nell’illusione di rivolgersi solo alla piccola porzione di
buono che nonostante tutto permane, si compie un gesto naturale che perverte
quello spirituale creando abitudine al male.
Nella sua parte del saggio Oltre la linea,
firmato con Heidegger, Jünger descrive nel 1949 la capacità di contagio del
Nulla in pagine che paiono il ritratto della chiesa e del mondo di oggi: «Il nichilismo può effettivamente armonizzarsi con sistemi d’ordine
di estese dimensioni, e (…) per diventare attivo su larga scala, deve
addirittura ricorrere a essi. Il caos diventa visibile solo nel momento in cui
il nichilismo comincia a venire meno in una delle sue combinazioni. È
istruttivo vedere che perfino nelle catastrofi le componenti d’ordine sono
presenti, addirittura sino alla fine o quasi. È chiaro perciò che l’ordine non
solo è ben accetto al nichilismo, ma fa parte del suo stile. (…) Perfino nei
luoghi nei quali il nichilismo mostra i suoi tratti più inquietanti, come nei
grandi luoghi di sterminio fisico, regnano sovrani la sobrietà, l’igiene,
l’ordine rigoroso».
Un’analisi inquietante che mostra come, nella sua componente
umana, la Mater et Magistra possa insegnare istituzionalmente e magistralmente
ai suoi figli le vie della perdizione. E spiega anche perché, nella corsa verso
il Nulla, con la sua formalistica difesa dell’ordine, sia in grado di sedurre i
cristiani dediti alla conservazione intesa come metodo, sganciata dal
contenuto. Per il fariseo, non vi è niente di più irresistibile di una forma
riempita di nulla.
Si potrà anche gridare all’ossimoro, ma, ai tempi della svolta
linguistica nichilista, questa è triste realtà. E così «Nascono religioni sostitutive in numero incalcolabile. Si può anzi
dire che con lo spodestamento dei valori supremi qualsiasi cosa può acquisire
un’illuminazione e un significato liturgici. Non solo le scienze della natura
assumono questo ruolo; prosperano le visioni del mondo e le sette; è un’epoca
di apostoli senza missione. (…) Ciò genera l’impressione di un eremo
disseminato di mulini deputati alla preghiera e che ruota sotto il cielo
stellato. Ininterrottamente, diventa più importante la quantificabilità di
tutti i rapporti. Si continua a consacrare, benché non si creda più
nell’eucarestia. Allora, per renderla più comprensibile, la si interpreta
diversamente».
Rimane la preghiera, e non è poco. È tutto. Hugo Ball, in Cristianesimo bizantino, nella capitolo dedicato a San
Giovanni Climaco scrive: «La preghiera è aristocrazia
della povertà. In essa si tocca tutto ciò che è esclusivo nel cielo e nella
terra. Solo colui che qui è emarginato è là benvenuto e solo colui che qui è
imprigionato là si libera. Nessun intelletto penetra con uno scopo o un
tornaconto in questo luogo santo. La meditazione può infiammare, ma solo la
preghiera illumina. Essere assorti nel proprio cuore è già molto. Ma cosa ben
diversa è “che lo spirito visiti il cuore come un principe vescovo e intanto
offra ostie a Cristo, suo ospite”. Allora più nessuna immagine tocca i sensi.
Una ‘pia tirannia di Dio’ prende possesso. La preghiera e il pensiero della
morte si fondono. Lo scioglimento del dubbio, la rivelazione certa di ciò che è
incerto è per Giovanni il segno che siamo esauditi».