venerdì 27 marzo 2020

Quo magis, Cum sanctissima, Cui prodest…

Con due decreti la Congregazione per la dottrina della fede (organo che ha assorbito le competenze della Commissione Ecclesia Dei), pubblicati entrambi in data 25.3.2020, sono stati approvati, con uno, sette nuovi prefazi nel rito Vetus Ordo e, con l’altro, si annuncia l’ingresso, sempre nel calendario Vetus, di nuovi santi, canonizzati dopo il 1960, e si indicano circa settanta santi di maggiore importanza del calendario del 1962, che avranno diritto di precedenza sui “nuovi” (che dovessero cadere nello stesso giorno).
Che dire di questi due provvedimenti?
Con riguardo al primo, ci informa il blog Messa in Latino «(ci risultano quelli per: il SS. Sacramento, Ognissanti (si usa anche per il S. Patrono), la Dedicazione della chiesa - che già erano inseriti nell'appendice del Messale Romano del 1962, edizione francese -, i Martiri, gli Angeli, S. Giovanni Battista, e le Nozze) di cui per ora non è ancora stato pubblicato il testo». Sempre lo stesso blog esprime comunque un apprezzamento per «il prefazio De Nuptiis, tratto dalle stesse antiche fonti della tradizionale benedizione nuziale degli sposi».
Con riferimento al secondo decreto, che per la verità lo stesso blog aveva anticipato sin dal dicembre scorso (vqui), ancora Messa in latino, ci precisa che «[l]a memoria dei Santi “nuovi” è facoltativa e qualora cadesse nello stesso giorno di un altro santo del 1962 senza precedenza, si  farà doppia commemorazione nel caso che si festeggi il nuovo santo».
Due considerazioni ci viene di porgere al di là dei concreti contenuti dei due decreti. La prima considerazione è che la c.d. riforma della riforma, o forse sarebbe più corretto dire riforma della riforma della riforma, viene a toccare, inspiegabilmente, solo e soltanto il messale del 1962 e non quello del 1969-70. Che fretta c’era di toccare solo quel messale e non prima l’altro? Gli abusi, forse, non si son verificati principalmente con il secondo anziché col primo? E quindi era quello del ’69-’70 da correggere per primo per evitare o limitare gli abusi, non quello del ’62. Quindi, se fosse stato sincero l’intendimento dei riformatori della riforma, avrebbero pensato prima a “raddrizzare” il rito ordinario e poi, eventualmente, pensare alla forma straordinaria. C'è dietro dell'altro?
La seconda considerazione concerne propriamente l’inserzione dei nuovi santi. Non sappiamo chi verrà inserito. Per molte canonizzazioni post 1960 non ci sono problemi di sorta (si pensi, per es., a S. Pio da Pietrelcina o a S. Massimiliano M. Kolbe) di cui il popolo cristiano non dubita. Invece, per altre, qualche problema potrà esservi, sussistendo molti dubbi su quelle canonizzazioni (v. per es. lo studio di Mons. Gherardini, qui).
Pubblichiamo volentieri, comunque, riguardo a questi due provvedimenti il commento del nostro amico Franco Parresio.

Quo magis, Cum sanctissima, Cui prodest…

di Franco Parresio

Sono di ieri i due decreti della Congregazione per la Dottrina della Fede, che lasciano molto il tempo che trovano: il Quo (re) magis (qui) e il Cum (mamma) sanctissima (qui): due provvedimenti atti a riformare il Messale del 1962 con l’introduzione di nuovi sette prefazi e dei «santi canonizzati dopo il 26 luglio 1960 (data dell’ultimo aggiornamento del Martirologio della forma extraordinaria)», come si legge nella Nota della medesima Congregazione «circa la celebrazione liturgica in onore dei santi nella forma extraordinaria del Rito Romano» (qui).
Peccato che manchi un terzo decreto: Cui prodest.
A chi giova, infatti, tutto questo? A nessuno!
Eppoi, a che pro? A confondere soltanto le idee e gli animi, innanzitutto e soprattutto degli stessi seguaci dell’Usus Antiquior: già numericamente esigui e divisi, nonché contrapposti tra di loro; ma accomunati tutti dalla diffamante definizione di “tradizionalisti”.
Infatti, sibillina è la frase che leggiamo nella Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede circa «i sette nuovi prefazi eucaristici per la forma extraordinaria del Rito Romano» (qui): «L’uso o meno, nelle relative circostanze, dei prefazi nuovamente approvati rimane una facoltà ad libitum. Ovviamente, si fa appello, al riguardo, al buon senso pastorale del celebrante».
Sembra di leggere i prenotanda del Messale di Paolo VI.
E così la “riforma della riforma” da riguardare quest’ultimo (oramai in caduta libera), va ad interessarsi – guarda caso – del solo Messale del ’62!
Forse per «affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile», secondo il diktat bergogliano del 2017 (vqui)?
Ma anche secondo quello benedettiano, che – suadentemente – per dimostrare che «non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum», stabilisce che «nel Messale antico potranno e dovranno essere inseriti nuovi santi e alcuni dei nuovi prefazi» (qui).
E, invece, la contraddizione c’è ed è sotto gli occhi di tutti!
Falso, infatti, appare il principio secondo cui «le due forme dell’uso del Rito Romano possono arricchirsi a vicenda» – semmai il contrario! –, dal momento che l’influenza è a senso unico.
Il sospetto fondato è che si voglia, con fare «insensibile, sottile, leggermente, dolcemente» (per dirla con un’aria molto famosa del Barbiere di Siviglia), aggiustare, corrompendola, «l’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio, che è stata pubblicata con l’autorità di Papa Giovanni XXIII nel 1962 e utilizzata durante il Concilio”, adeguandola vieppiù al “Messale, pubblicato in duplice edizione da Paolo VI e poi riedito una terza volta con l'approvazione di Giovanni Paolo II». E questo partendo proprio dall’uniformare, in tutto e per tutto, il «Martirologio della forma extraordinaria» a quello della forma ordinaria; facendo poi il resto. I nuovi prefazi non sono, per caso, un preludio ad un successivo recepimento delle altre preghiere eucaristiche diverse dal Canone Romano? Staremo a vedere. Ma una cosa è certa: i tradizionalisti non in comunione con Roma (lefebvriani e sedevacantisti) rafforzeranno il loro aperto scetticismo verso il Summorum Pontificum, tenendosi alla larga da un eventuale pieno rientro nell’ovile romano; e quelli già nell’ovile – mai del tutto persuasi dalle rassicurazioni curiali – pronti a scappare. Mi auguro di sbagliarmi.

giovedì 19 marzo 2020

San Giuseppe prototipo della Consacrazione a Maria

L’8 dicembre 1870, con il decreto Quemadmodum Deus, il prefetto della Sacra Congregazione dei Riti, cardinal Patrizi, a nome del beato papa Pio IX, proclamava S. Giuseppe patrono della Chiesa: «[…] Ora, poiché in questi tempi tristissimi la stessa Chiesa, da ogni parte attaccata da nemici, è talmente oppressa dai mali più gravi, che uomini empi hanno pensato che infine le porte dell’inferno abbiano prevalso contro di lei, i Venerabili Eccellentissimi Vescovi dell’universo Orbe Cattolico hanno inoltrato al Sommo Pontefice le loro suppliche e quelle dei fedeli affidati alla loro cura chiedendo che si degnasse di costituire San Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica. Avendo poi essi rinnovato nel Sacro Ecumenico Concilio Vaticano [I] più insistentemente le loro domande e i loro desideri, il Santissimo Signor Nostro Pio Papa IX, costernato per la recentissima e luttuosa condizione di cose, per affidare Sé stesso e i fedeli tutti al potentissimo patrocinio del Santo Patriarca Giuseppe, volle soddisfare i voti degli Eccellentissimi Vescovi e solennemente lo dichiarò Patrono della Chiesa Cattolica [...]. Egli stesso inoltre ha disposto che tale dichiarazione, per mezzo del presente Decreto della Sacra Congregazione dei Riti, fosse pubblicata in questo giorno sacro all’Immacolata Vergine Madre di Dio e Sposa del castissimo Giuseppe» (vqui il testo. V. anche qui).
Quest’anno 2020, quindi, ricorre il 150° anniversario di quella proclamazione.
Dopo Pio IX, a mostrare particolare attaccamento al Santo Patriarca fu il papa Leone XIII. Egli, eletto papa il 20 febbraio 1878, un mese dopo, come ebbe a dire ai cardinali, in una allocuzione del 28 marzo 1878, affermò di aver messo il suo pontificato sotto la protezione di San Giuseppe. Poi, in calce alla lettera enciclica Quamquam pluries del 15 agosto 1889 pose la preghiera «A te, o beato Giuseppe», che sarebbe diventata popolarissima tra i cattolici.
Dopo Leone XIII fu la volta di S. Pio X, al quale spettò approvare le litanie del Padre putativo di Gesù. Per la verità, le prime litanie in onore di San Giuseppe che conosciamo sono riportate nel testo Sommario delle eccellenze del glorioso San Giuseppe, del 1597, del carmelitano P. Girolamo Graziano della Madre di Dio. Ma fu solo con decreto di approvazione della Congregazione dei Riti, del 18 marzo 1909, che il papa San Pio X approvò e fissò le litanie di San Giuseppe. Commenta il padre Gaithier: “Grazie a questo decreto, Maria e Giuseppe erano i due soli santi che godevano di litanie autorizzate per il culto pubblico”. Pio XI, con decreto del 21 marzo 1935, applicò alla loro recita cinque anni di indulgenza ogni volta ed un’indulgenza plenaria se la recita delle Litanie, dei versicoli e dell’orazione è ripetuta ogni giorno per un mese intero. Per il testo delle litanie, cfr. Radiospada, 19.3.2020.
Benedetto XV, ricorrendo il 50° anniversario della proclamazione del Santo a Patrono della Chiesa Universale, con il Motu proprio Bonum Sane del 25 luglio 1920, esortava l’Episcopato dell’orbe cattolico a promuovere il culto nei confronti di S. Giuseppe.


In onore di S. Giuseppe, quindi, rilanciamo questo contributo:

San Giuseppe prototipo della Consacrazione a Maria

di P. Serafino M. Lanzetta

Il mese di marzo è dedicato alla grande figura di san Giuseppe. In questa riflessione vorrei mettere in rilievo il mistero dell’unione di san Giuseppe con la Beata Vergine Maria. In ciò vi è la sorgente di tutte le grazie di cui è ricco il mistero giuseppino, oltre che al modo in cui il Santo di Nazareth viene introdotto dal Nuovo Testamento ed è conosciuto nella Chiesa. Se guardiamo attentamente alla sua vita, tutto accade per mezzo di Maria. Giuseppe comincia ad essere conosciuto come lo sposo di Maria (vedi Mt 1, 16) e proprio in ragione di questa relazione sponsale – da essere approfondita nella sua profondità spirituale – è introdotto nel mistero di Cristo divenendo suo padre putativo. Tutto per Maria.
Concentriamoci per un momento sul Vangelo di Matteo (1, 18-19) dove Giuseppe di Nazareth viene presentato prima di tutto quale sposo di Maria e quindi come “uomo giusto”: «Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto». Con ciò comprendiamo che Maria e Giuseppe erano già sposati quando la Vergine si trovò incinta miracolosamente del suo Figlio Gesù. Dicendo «promessa sposa», il Vangelo mette in evidenza il costume ebraico di celebrare le nozze in due momenti: l’unione legale, quale vero matrimonio con tutti gli effetti civili e religiosi e la coabitazione che poteva avvenire anche un anno dopo la promessa di matrimonio. Anche il Vangelo di Luca riferisce che Giuseppe era già unito a Maria da un patto matrimoniale. Infatti l’angelo fu mandato «a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe» (1, 27). Da questa unione sponsale benedetta con Maria prende forma anche la relazione di san Giuseppe con Gesù. Il Santo falegname entra in contatto personale con Gesù mediante la Madonna quando è lui a dare il nome “Gesù” al figlio di Maria (cf. Mt 1, 21). Anche al momento dell’adorazione dei pastori, che arrivarono in fretta per vedere il segno di Dio, Giuseppe si trova tra Maria e Gesù: «Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia» ci dice il Vangelo (Lc 2, 16); come per dire che il cammino cristiano che conduce a scoprire pienamente chi è quel Bambino è da Maria a Gesù. Attraverso lo sposalizio con Maria, Giuseppe stringe Gesù e lo tiene tra le sue braccia. Egli pertanto è l’icona più perfetta della consacrazione a Maria, dell’adagio classico a Gesù per Maria.
Riflettiamo più a fondo sullo sposalizio unico e verginale di san Giuseppe con la Madonna, vera chiave per capire la figura del Falegname di Nazareth come primo tipo o modello esemplare della consacrazione mariana. Questo matrimonio santo fu senza dubbio straordinario. Nel considerare questo mistero dobbiamo trascendere il suo significato naturale e puntare subito alla profondità dell’aspetto spirituale. Tutto infatti depone a favore di un’unione speciale e interamente spirituale. Nel racconto di san Matteo (1, 18-19) appena citato, circa il fatto che Giuseppe fosse già sposato con Maria pur non coabitando ancora, possiamo scoprire qualcosa in più in virtù di una lettura anagogica del testo. E cioè, mentre Giuseppe era già unito in matrimonio a Maria – inizialmente e legalmente – non era però ancora pienamente unito a lei; ciò potremmo leggerlo nel senso di non essere ancora consacrato a lei, dal momento che la coabitazione sarebbe stata, di comune accordo, verginale e casta. Le ragioni di ciò le vedremo tra breve. Il matrimonio giuseppino dovrebbe essere considerato sotto un’altra luce in riferimento a due momenti superiori: l’unione maritale iniziale e la sua consumazione, da essere letta come consacrazione a Maria: una piena donazione di se stesso alla Vergine. La consumazione del matrimonio allora acquisterebbe un significato spirituale nuovo, preannunciando ciò che Gesù sceglierà nel suo matrimonio mistico con la Chiesa sulla Croce. Come per Gesù Crocifisso il dono di sé alla Sposa è “consumato” nel suo amore «fino alla fine» (Gv 13,1), amore totale fino alla morte, così sarà per san Giuseppe. Il suo totale amore a Maria sarà consumato nel sacrificio di se stesso fino alla morte per essere uno con Maria e ciò al fine di partecipare alla Redenzione di Cristo. Questa consacrazione a Maria accade dopo la rivelazione dell’Angelo, quando Giuseppe ha la piena conoscenza di chi è Maria e chi è quel Figlio che Lei portava in grembo. Ora Giuseppe è pronto per prendere Maria nella sua vita e per mezzo di Lei di prendersi cura di Gesù. Possiamo contemplare tutto ciò alla luce del racconto del Vangelo di Matteo (1, 20-24), in cui leggiamo: «Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: ”Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”. Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa».
Qui dovremmo concentrarci soprattutto sull’ultima frase di questa pericope, che nell’originale greco recita così: «kaiparélabentèngunaîkaautou» («prese con sé la sua sposa»). Il verbo para-lambano, “prendere”, ha generalmente due significati: 1) prendere con sé, unire a sé o 2) ricevere ciò che è trasmesso. Questo verbo è lo stesso che troviamo nel Vangelo di Giovanni (19, 27) per descrivere l’atto del prendere/ricevere Maria nella propria vita da parte del discepolo prediletto: «E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé» (l’originale dice: «élaben o mathetèsautèneistaídia», “la prese tra le sue cose più care”). Quindi, possiamo facilmente concludere che anche Giuseppe, prima di ogni altro, da quell’ora, l’ora in cui fu istruito dall’Angelo per mezzo dello Spirito Santo circa il mistero di Maria e del Bambino nel suo grembo (echeggianti le parole di Nostro Signore sulla Croce al discepolo prediletto in riferimento alla sua Madre), prese Maria con sé. Da quel momento dell’unione piena e perfetta con Maria, Giuseppe consegnò se stesso interamente a Lei, così che attraverso di Lei potesse entrare nel mistero di Cristo e partecipare attivamente all’opera della Redenzione.
Bisogna chiarire un ultimo punto al fine di presentare un quadro completo del matrimonio di San Giuseppe con Maria quale consacrazione a Lei. Il fatto che il matrimonio fu verginale è di grande importanza. Questo prova che la consegna completa che Giuseppe fece di se stesso a Maria durante la seconda fase delle nozze deve essere intesa piuttosto come consumazione spirituale di quella unione. Il Vangelo, sottolineando il modo in cui Giuseppe accoglie Maria nella sua vita, dice anche che «senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù» (Mt 1, 25). Questa è certamente la traduzione corretta del testo originale che però presenta la particella “fino a” (éos). Con una traduzione più letterale, si dovrebbe rendere il testo così: Giuseppe «non la conobbe fino a quando ella partorì il suo figlio ed egli lo chiamò Gesù». La preposizione “fino a”, comunque, non sta a significare che dopo la nascita di Gesù, Maria e Giuseppe ebbero una normale relazione maritale. Infatti, ci sono diversi esempi biblici in cui “fino a” non implica mai un cambiamento successivo. Possiamo richiamare tra i tanti, ad esempio, le parole del Salmo messianico (109 [110],1): «Oracolo del Signore al mio signore: siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi». Ovviamente Cristo non regna alla destra del Padre solo fino a quando i suoi nemici saranno sconfitti. Anche quando Gesù promise ai suoi Apostoli di rimanere con loro «fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20), non volle lasciar intendere che sarebbe stato con loro solo fino alla Parusia. Al contrario, con la preposizione temporale “fino a”, l’Evangelista desidera dire che Giuseppe e Maria, diversamente da una coppia giudaica ordinaria, non consumarono il loro matrimonio durante la prima notte di nozze. Questo perché Maria aveva fatto voto di verginità, come chiaramente appare dalla sua risposta all’Angelo: «Non conosco uomo» (Lc 1, 34). Ciò non era sconosciuto alla tradizione giudaica, ma fu un voto di astinenza secondo il libro dei Numeri (cap. 30) che Giuseppe aveva accettato e quindi avallato.
Proviamo ora a trarre qualche conclusione da tutto ciò. Immagiamo ciò che poté significare a livello pratico per san Giuseppe ricevere Maria nella sua vita, cosicché ognuno possa avere nel grande Patriarca un modello di consacrazione a Maria. Fu anzitutto per san Giuseppe condividere tutta la sua vita: pensieri, volontà, beni, con Maria per poter piacere a Gesù e per fare la volontà di Dio; fu ancora essere verginalmente obbediente a Maria per poter essere conformato all’obbedienza di Gesù al Padre; fu amare Maria con tutto il suo cuore casto così da rimanere sempre vigilante nel suo ministero di custode di Cristo e di servo della Redenzione; fu infine rimanere devotamente alla presenza di Maria così da essere sempre alla presenza di Gesù. Conoscere chi è Maria fu per Giuseppe conoscere chi è Dio, dove Egli abita.
La consacrazione a Maria, che san Giuseppe fece prima di tutti e in modo più perfetto, dovrebbe allora mirare ad ottenere in primis quella casta disposizione giuseppina del cuore. Nella misura in cui amiamo la Madonna con un cuore puro, con il cuore puro di san Giuseppe, in risposta, Lei ci accoglie sotto il suo manto di purità e ci rende suoi sposi d’amore, così da essere al sicuro da tutte le insidie di impurità e di empietà presenti nel mondo. Che san Giuseppe sia ancora più conosciuto quale Patriarca di amore a Gesù attraverso Maria e nel suo ruolo di sposo mistico della Santa Vergine.

martedì 17 marzo 2020

E non abbandonarci alla tentazione… di pensar male di Te

Rilanciamo una nuova riflessione del nostro amico Franco Parresio. Buona lettura.

J. S. Klauber - J. B. Klauber, Sacrificio di Isacco, XVIII sec., museo diocesano, Trento

E non abbandonarci alla tentazione… di pensar male di Te

di Franco Parresio

Riprendo e rilancio volentieri quanto dichiarato da don Nicola Bux in un’intervista rilasciata pochi giorni fa e pubblicata su La Fede Quotidiana – dal titolo molto ad effetto Coronavirus, don Bux: “Pandemia? Fa quasi rima con pandemonio” (vqui) – a proposito della infelicissima nuova traduzione del Padre nostro, che da novembre prossimo sarà imposto a tutti, da recitarsi dentro e fuori la messa.
Alla domanda Che tempo stiamo vivendo?”il noto teologo barese rispondendo afferma: “Quello assai delicato della prova. Io consiglio di meditare su questo. Il Signore ci mette alla prova, ci misura, ecco quella famigerata tentazione che con una maldestra traduzione si vuole eliminare dal Padre Nostro. Una cattiva ed inopinata nuova traduzione. Nel Padre Nostro, versione tradizionale noi chiediamo che Dio non ci introduca nella prova, questo è il significato di indurre, significa introdurre. La tentazione, dunque, è la prova di Dio che opera nella storia per valutare le nostra fede. […] Se uno conosce bene la rivelazione, sa che a volte Dio distoglie lo sguardo da noi, si nasconde, e permette, lo permette lui, a Satana di agire, gli lascia spazio per provare la nostra fede anche con eventi negativi e dannosi come questo. Un male a fin di bene, una sorta di ammonimento. In sintesi, Dio consente, non manda, il male, l’opera di Satana, per capire che esito ha questo combattimento. Ha due esiti, chi si converte o chi si danna eternamente. Ricordate che al mondo non si muove foglia che Dio non voglia e che Lui scrive dritto su righe storte”.
In questo momento di crisi globale – in tutti i sensi – ed esistenziale, appare davvero “cattiva ed inopinata” la nuova traduzione del Padre Nostro!
Perché?
Perché – come ebbi già a dire in un precedente articolo su questo tema (vqui) – imputa a Dio la colpa dei nostri fallimenti.
La “angoscia provocata dal coronavirus ha portato molte persone che non si ponevano il problema della fragilità della vita umana e del senso stesso della vita, a considerarlo seriamente”, scrive Gotti Tedeschi, riportando un colloquio avuto proprio con Don Bux (vqui), “tanto da trarne una lezione. […] La nostra supposta autosufficienza, il sentimento di immortalità, spesso avvalorata dal successo professionale (quasi sempre insostenibile) o dalla salute inattaccabile (su cui confidavamo, scoprendo che è impossibile), si rivela tutt’un tratto essere una illusione che ci apre gli occhi sui nostri limiti ineliminabili. Limiti che pretendono soprattutto l’aiuto di Dio, […] in un momento come questo di angoscia per questo virus di cui non capiamo molto”.
Attenti, dunque, a non pretendere l’aiuto di Dio, accusandolo di averci abbandonato alla tentazione! Ci faremmo ridere dietro – ma anche in faccia – da chi non si fa scrupoli a giudicare la nostra fede “infantile”, secondo il severo giudizio dell’autorevole Erich Fromm, dichiaratamente agnostico, che, ne L’arte di amare, afferma: “Il Dio di Abramo può essere amato, o temuto come un padre, essendo la sua ira e la sua intransigenza l’aspetto dominante. Poiché Dio è il padre, io sono il figlio. Non sono emerso completamente dall’originario desiderio di onniscienza e onnipotenza. Non ho ancora acquisito l’obiettività di accorgermi dei miei limiti di essere umano, della mia ignoranza, della mia debolezza.
Pretendo ancora, come un bambino, che ci sia un padre che mi perdoni, che mi custodisca, che mi punisca, un padre che mi lodi quando sono obbediente, che si compiaccia dei miei meriti e si adiri per la mia disobbedienza. Ovviamente, la maggior parte della gente non ha superato nel suo sviluppo mentale questo stadio infantile, e di conseguenza la fede in Dio, per molti, è la fede in un padre valido, illusione infantile”.
Meditate, gente! Meditate!

domenica 15 marzo 2020

La Messa ai tempi del coronavirus

Se c’è un aspetto positivo dell’attuale frangente di emergenza pandemica è che i vescovi italiani hanno avuto modo di riscoprire una verità cattolica: la S. Messa, per la sua validità, non richiede la partecipazione del popolo.
Una verità, che, negli anni del post-concilio, era stata oscurata.
In quest’emergenza, i vescovi, loro malgrado, hanno invitato i sacerdoti a celebrare le messe sine populo. Ad es., una nota della Conferenza episcopale pugliese, diramata il 9 marzo, ha affermato: «I presbiteri celebrino l’Eucaristia in privato ed invitino i fedeli a pregare personalmente o in famiglia, meditando la Parola di Dio» (vqui).
Analogo contenuto hanno avuto le note delle conferenze episcopali regionali italiane.
Misura simile è stata adottata anche dalla Conferenza episcopale spagnola: «Las celebraciones habituales de la Eucaristía pueden mantenerse  con la sola presencia del sacerdote y un posible pequeño grupo convocado por el celebrante» (vqui).
Prima di questa emergenza, molti ritenevano che le messe c.d. private, o “senza popolo”, fossero, se non invalide, almeno illegittime come sostenevano alcuni teologi del Movimento liturgico. Era un pensiero diffusosi, come ricordato a partire dal Concilio Vaticano II. Eppure, tanto Pio XII nella Mediator Dei quanto Paolo VI nella Mysterium fidei ne avevano ammesso la validità e la piena legittimità. Tutto nasceva dall’equivoco circa la natura della messa quale preghiera pubblica della Chiesa e si sosteneva che “pubblica” significasse partecipata dal popolo. Per cui, messe private o senza popolo, non erano più ritenute ammissibili. Spiegava, tuttavia, papa Montini: «ogni Messa, anche se privatamente celebrata da un sacerdote, non è tuttavia cosa privata, ma azione di Cristo e della Chiesa, la quale nel sacrificio che offre, ha imparato ad offrire sé medesima come sacrificio universale, applicando per la salute del mondo intero l'unica e infinita virtù redentrice del sacrificio della Croce» (Mysterium fidei, § 33).
Non sarà un caso, ma contro questa celebrazione delle messe private si è levato Andrea Grillo, che è corso subito a precisare che, dal Concilio, «la messa è anzitutto col popolo, perché è “del popolo con il suo Signore”, e solo in seconda istanza, e secondariamente, può essere “senza popolo”» (vqui).
La riammissione a pieno titolo delle messe senza popolo non può che essere salutata positivamente.
Certo, si pongono delle incongruenze come evidenzia il nostro Franco Parresio …. Incongruenze che dovrebbero essere chiarificate.

Pio XII celebra sine populo nella sua cappella privata a Castelgandolfo

La Messa ai tempi del coronavirus

di Franco Parresio

Ieri mattina ho ricevuto, su whatsapp, questo messaggio di un amico, al quale ho prontamente risposto:
Volevo condividere con te una mia riflessione.
Lo so, non è il momento della polemica sterile in questo delicato momento che stiamo vivendo. Tuttavia mi chiedo: che significato ha il celebrare le messe (ovviamente parlo delle messe in novus ordo) “coram populo” quando il popolo non c'è? Non avrebbe più senso, in questo contesto, celebrare “coram Deo”?
Da qui io vedo tutto il limite del Messale montiniano (fermo restando, ovviamente, la sua validità): tutto impregnato di comunitarismo, cioè dove non è Dio al centro ma l'assemblea, mentre vedo la perenne attualità del Messale antico, dove ogni celebrazione - con o senza popolo - ha la sua ragione d'essere.
E ancora mi chiedo: la messa oggi è presentata come "festa": ebbene, quando i preti oggi, a porte chiuse, celebrano una messa, celebrano una festa o, piuttosto, un Sacrificio, che ha valore impetratorio, di espiazione, di adorazione e di ringraziamento?
La tua, mio caro R., è più di una riflessione: è un monito a tutti, in particolar modo ai quei sacerdoti, che ammorbati di "comunitarismo", sentono superfluo celebrar messa, perché per loro - come insegna Casel, maestro dei modernisti - il fedele è parte essenziale della celebrazione eucaristica. A dire che, se il fedele è assente, la messa non ha senso e valore; dal momento che il fedele è considerato un concelebrante. Lo sappiamo grazie alla Mediator Dei, l'enciclica sulla Sacra Liturgia di Pio XII del 1947, pubblicata allo scopo proprio di sconfessare questa idea eterodossa di Casel. A dirlo: l'abate Emanuele Caronti, che di quella enciclica fu il padre redazionale. Ed è logico che, senza fedeli, dovendo guardare i banchi, questi sacerdoti (ma è meglio chiamarli preti, perché dànno molta importanza all'essere presbiteri, in quanto capi di comunità) si sentano disoccupati e disorientati... per non dire depressi, perché inutili.
Lo dico senza ironia.
Mi riferisco anche a quei sacerdoti molto devoti e attenti alle funzioni religiose, ma che non sfuggono pure loro al fascino di introdurle e concluderle con "buongiorno" e "buonasera".
Ma – attenzione! - le colpe non sono del Messale di Paolo VI, che, pur considerando la celebrazione “coram populo” - già introdotta e subito radicatasi col Messale del 1965 -, non annulla quella “coram Deo”. Così anche la preghiera dei fedeli e lo scambio della pace, che nel Messale di Paolo VI restano facoltativi, ma che hanno finito per essere così importanti da non poterne fare più a meno.
I preti ricordino che sono prima di tutto SACERDOTI, cioè uomini di Dio, e non sacerdoti dell'umanità, come insegna quella canzonetta - erronea e fuorviante - che tristemente conosciamo. Dico "fuorviante" perché, pur volendo fare campagna vocazionale, sortisce l'effetto contrario: lo vedi dal considerevole numero degli abbandoni della vita consacrata. E il numero è destinato a salire. Come è destinato a scendere ulteriormente il numero delle vocazioni, proprio per la diminuzione inarrestabile dei fedeli.
Situazione diametralmente opposta dove si è aderiti - sacerdoti e fedeli - alle celebrazioni secondo l'usus antiquior del Messale Romano.
Ficchiamocelo bene in testa: sono gli uomini di Dio ad essere i veri pescatori di uomini!