Sebbene in quest’anno 2020 i riti della Settimana Santa siano stati ridotti e, comunque, resi non partecipati da parte dei fedeli, ecco, una bellissima meditazione sui riti preriformati della Settimana Santa (per ragguagli su questi, rinviamo a S. Carusi, La riforma della settimana santa negli anni 1951-1956, in Disputationes Theologicae, 28.3.2010) dell’insigne liturgista l’abate benedettino dom Emanuele Caronti. E si capisce perchè il mondo della Tradizione – a giusta ragione – non ha mai gradito, anzi ha stigmatizzato tutte le riforme pre e post-conciliari della Settimana Santa: colpendo questa si è voluto colpire al cuore la liturgia stessa della Chiesa, che, nelle parole del Caronti, “ha la sua massima applicazione nella settimana santa: si direbbe che ne è l’anima e la vita”. A dircelo è lo stesso Paolo VI nella sua Costituzione Apostolica Missale Romanum del 3 aprile 19 69 (v. qui), affermando: «Si è sentita l’esigenza che le formule del Messale Romano fossero rivedute e arricchite. Primo passo di tale riforma è stata l’opera del Nostro Predecessore Pio XII con la riforma della Veglia Pasquale e del Rito della Settimana Santa, che costituì il primo passο dell’adattamento del Messale Romano alla mentalità contemporanea». Il sospetto fondato è che la riforma liturgica solo a parole abbia voluto che “l’anno liturgico sia riveduto in modo che, conservati o restaurati gli usi e gli ordinamenti tradizionali dei tempi sacri secondo le condizioni di oggi, venga mantenuto il loro carattere originale per alimentare debitamente la pietà dei fedeli nella celebrazione dei misteri della redenzione cristiana, ma soprattutto nella celebrazione del mistero pasquale” (SC 107). Ma nei fatti si è trattato di una vera e propria opera di ristrutturazione. E c’è una bella differenza tra il restauro e la ristrutturazione: il primo è fondamentalmente conservativo e integrativo; la seconda è quasi esclusivamente innovativa: dell’antico si conserva solo qualche vestigia. Un particolare questo che non sfugge nemmeno a chi tradizionalista non è, come Domenico Pezzini: «Oggi, anche a partire da delusioni sempre più frequenti e dichiarate circa certi esiti della riforma liturgica, qualcuno sta accorgendosi che nella foga e nell’entusiasmo della purificazione postconciliare forse abbiamo buttato via il bambino con l’acqua sporca. Da questo punto di vista la liturgia della Settimana santa è probabilmente il luogo più emblematico per evidenziare i problemi, proprio perché vi si celebrano eventi che sono insieme di denso contenuto emotivo e di profondo significato teologico, due aspetti della questione che invece di integrarsi rischiano di contrapporsi e di disintegrarsi. Il problema non è per niente teorico, e la storia della pietà cristiana è lì a dimostrarne l’intrinseca difficoltà […] Quando la liturgia era in latino, la gente vi partecipava certamente in forza di un precetto, ma non era questa la sola ragione, e non è neanche detto che non ne ricavasse niente, anzi. E questo proprio perché il muro costituito dal latino aveva di fatto stimolato la creazione di segni che fossero comprensibili per sé, che trasmettessero un messaggio senza che ci fosse bisogno di passare per la mediazione della parola. Tali erano, per esempio, il diverso colore dei paramenti, inventato per segnalare i diversi sentimenti che accompagnano lo svolgersi dell’anno liturgico, […] la velatura delle immagini durante la Quaresima a indicare un atteggiamento penitenziale, e altro ancora, cose che non avevano certo la finezza e l’articolazione delle spiegazioni verbali, ma che non erano meno importanti, in quanto erano dei metamessaggi che trasmettevano in modo globale e visibile un’idea, e suggerivano la risposta emotiva corrispondente. Ho l’impressione che una delle ricadute non felici della riforma liturgica sia stata l’alluvione di parole e il prosciugamento dei segni» (v. qui).
Ed ecco perché io ho salutato felicemente l’indulto concesso dalla Santa Sede a celebrare i solenni riti della Settimana Santa e della Quaresima in generale con le cosiddette Rubriche del ’52… facendo gli scongiuri che non venga ritirato, ma anzi confermato in via definitiva al termine di questo quinquennio dato “ad experimentum”. Ne gioirebbe lo stesso Abate Caronti, che quelle riforme, da buon benedettino e da fedele servitore della Chiesa, accettò in spirito di obbedienza, ma che mal gradì.
Carattere della liturgia della Settimana santa
Abate dom Emanuele Caronti O.S.B.
Chiunque vorrà leggere con mente scevra da
pregiudizi l’ufficio della settimana santa, sarà meravigliato e incantato del
gusto squisito, dell’armonia e nobiltà di sentimenti che regna dovunque, come
se il genio dell’elegia sacra avesse presieduto alla sua composizione. Difatti
l’ufficio si compone in gran parte di testi scritturali che fanno allusione
alla passione, e questo solo è già abbastanza per darne un’altissima idea. Ma
inoltre la scelta e l’unione dei diversi testi per formare un tutto organico,
sono ciò che si può immaginare di più felice e di più armonioso.
Il carattere dominante della liturgia è il
drammatico, nel senso più nobile della parola. Essa più che descrittiva,
è rappresentativa, e questo non solo quando si compone di azioni, ma
anche quando si riduce semplicemente ad un testo. Trasporta l’immaginazione e l’anima
alle scene di cui altri sono stati testimoni per eccitare le medesime
impressioni che avremmo sperimentato se fossimo stati presenti. In ciò fare, la
liturgia, lungi dall’arte fittizia del teatro, mette in azione una verità della
fede che dà al culto il valore di una realtà sempre nuova e sempre vivente.
Infatti l’arte più abile e più squisita del teatro
nel trattare un soggetto. determinato si propone di presentarlo al pubblico in
modo che questi ne rimanga interessato, seguendo lo svolgersi delle scene con
pietà, compassione, orrore ed amore, a seconda delle circostanze. Ma è sempre l’artificio
che deve agire e dove questo cessa, ogni comunicazione tra la scena e l’uditorio
è fatalmente compromesso. Nel dramma liturgico invece, l’interesse degli
assistenti al soggetto rappresentato non dipende dall’artificio, ma dal fatto
che il soggetto stesso è una realtà intimamente connessa colla loro vita
religiosa, che tende ad appropriarsi ciò che viene drammaticamente
rappresentato. Certo che saranno utilizzate le risorse dell’arte, ma solo allo scopo
di stimolare maggiormente, perchè la verità religiosa venga con più efficacia
assimilata.
Questo principio che ispira generalmente la
liturgia della Chiesa ha la sua massima applicazione nella settimana santa: si
direbbe che ne è l’anima e la vita.
Il quadro esteriore è sublime. La processione delle
palme, il dialogo musicale della passione, lo squallore e la desolazione del
tempio, le prostrazioni, l’incenso, il fuoco, la luce. Geremia che dopo tanti
secoli piange sopra Gerusalemme, come se la misura della sua iniquità non fosse
compiuta e fosse ancora possibile stornare il castigo che ha cagionato la sua
rovina. Il Salvatore stesso si rivolge agli Ebrei, come se fossero ancora il
suo popolo, per rimproverare loro l’ingratitudine colla quale hanno risposto ai
suoi benefici e come se essi attualmente esercitassero sopra di Lui la loro
barbarie. La chiesa si abbandona al dolore, come se il suo Sposo divino
attualmente subisse la sua sorte crudele.
In tutto questo quadro la liturgia opera una
sostituzione di persone. Il pianto di Geremia è il pianto dei nostri delitti
che hanno determinata la morte di Gesù Cristo e la rovina spirituale dell’anima
nostra: i suoi accenti patetici sono inviti pressanti al dolore ed alla
compunzione. Attraverso al rimprovero che muove agli Ebrei increduli e ribelli,
Gesù Cristo colpisce le durezze ostinate del nostro cuore. Il suo sacrificio
stesso, la sua agonia, la sua morte, oltre al loro valore di ricordo storico,
hanno un valore reale per ognuno di noi, sia perchè quella tragedia è
conseguenza delle nostre colpe, sia perchè quella passione e quella morte è la
passione e la morte nostra. E così il dramma è perennemente vivo e perennemente
reale, con un ripetersi dei medesimi sentimenti e un succedersi di effetti
dipendenti dall’oggetto o dal mistero celebrato.
Tratto da La Settimana Santa e La Settimana di
Pasqua, ed. L.I.C.E., Torino 1922, pp. 10-11.
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