domenica 5 aprile 2020

I riti popolari della Settimana Santa al tempo del coronavirus

Rilanciamo volentieri questo contributo del nostro amico prof. Vito Abbruzzi sui riti popolari della Settimana Santa in tempo di Covid-19.

I riti popolari della Settimana Santa al tempo del coronavirus

di Vito Abbruzzi

Quest’anno l’emergenza coronavirus non risparmia nessuno… persino i sacrosanti riti della Settimana Santa, che, proprio a motivo della loro popolarità, metterebbero a rischio l’incolumità pubblica. E, allora, si preferisce soprassedere e accontentarsi di seguire i riti religiosi in diretta streaming, celebrati a porte chiuse e senza concorso di fedeli. E ciò in ottemperanza all’ultimo Decreto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti: In tempo di Covid-19 (II), emanato il 25 marzo scorso (v. qui), sostitutivo del precedente del 19 marzo (neppure più riprodotto nel sito vaticano), che stabilisce da una parte che «i Vescovi e i Presbiteri celebrino i riti della Settimana Santa senza concorso di popolo e in luogo adatto, evitando la concelebrazione e omettendo lo scambio della pace», dall’altra che «i fedeli siano avvisati dell’ora d’inizio delle celebrazioni in modo che possano unirsi in preghiera nelle proprie abitazioni. Potranno essere di aiuto i mezzi di comunicazione telematica in diretta, non registrata»; per quanto riguarda, poi, «le espressioni della pietà popolare e le processioni che arricchiscono i giorni della Settimana Santa e del Triduo Pasquale, a giudizio del Vescovo diocesano, potranno essere trasferite in altri giorni convenienti, ad esempio il 14 e 15 settembre».
Nel timore, però, che “passato il santo passata la festa”, in molti ci si sta ponendo il problema di come non far passare del tutto inosservate proprio “le espressioni della pietà popolare e le processioni che arricchiscono i giorni della Settimana Santa e del Triduo Pasquale”, e che caratterizzano tanto i nostri paesi. E, per non far sentire del tutto la loro assenza, si vorrebbe proporre alle autorità ecclesiastiche e civili di celebrarle comunque, sebbene in maniera minimale. Mi riferisco a quei paesi dove i riti popolari della Settimana Santa sono molto sentiti, e – guarda caso – sono strettamente legati al ricordo delle pestilenze, che li hanno maggiormente afflitti. Penso a Noicattaro, dei cui riti mi sono occupato negli anni passati (qui; qui e qui): comunità cittadina che evoca non poco, attraverso quei riti, il dramma da essa vissuto, poco più di due secoli fa, con l’ultimo caso di peste in Europa (v. qui). L’allora Noja pagò un prezzo altissimo in termini di vite umane: quasi un quinto della popolazione morì, seguendo la spietata legge della discutibilissima immunità di gregge. Sì, perché le autorità borboniche, per far rispettare le regole della quarantena imposte all’intera comunità nojana, non si limitarono alla sola istituzione del cosiddetto “cordone sanitario”, ma dovettero ricorrere alla legge marziale, applicando indistintamente la pena di morte. Persino un prete, accusato di aver passato un mazzo di carte ad un gruppo di soldati, venne giustiziato. E a Noicattaro i giustiziati, passati per la forca, vengono tristemente evocati dal rullante la sera del Giovedì Santo, nella piazza principale del paese, sotto la torre dell’orologio, dove certamente era posto il patibolo, suonando di continuo, sino alla mezzanotte, una melodia inquietante e sinistra, che mette i brividi, perché accompagna la esecuzione capitale: la condanna a morte di un intero paese, che appieno si identifica, attraverso quei riti profondamente e intimamente sentiti, col suo Signore, il quale, “maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte?” (Isaia 53, 7-8). Quei riti, per i Nojani tutti, sono più di una semplice espressione della propria pietà popolare: sono un vero e proprio memoriale. E il non poter in alcun modo esprimere quella loro struggente pietà, è per essi mortificante.
Lo stesso dicasi dei bravi Barlettani, mestamente rassegnati al fatto che, per l’emergenza covid-19, non vedranno questa volta sfilare la lunghissima processione eucaristico-penitenziale del Venerdì Santo (v. qui), tanto sentita dall’intera popolazione, che con essa fa memoria della terribile pestilenza del 1504. Forse non se ne dorranno quanti la trovano antiliturgica o, come qualcuno molto impropriamente l’ha definita, “illiturgica”. E, invece, essa è a pieno titolo liturgica, perché prolungamento, extra mœnia, della solenne processione eucaristica del Giovedì Santo sera, a conclusione della Messa in Cœna Domini. Infatti, come mi testimoniava un amico di Barletta, conoscitore da vicino di quella suggestiva processione, nonché memoria storica delle tradizioni barlettane, essa in origine si svolgeva la tarda serata del Giovedì Santo; solo dalla metà del ’600, per ordine pubblico – a motivo della mariuoleria, che si muoveva indisturbata, approfittando del buio e delle case lasciate incustodite –, essa fu spostata al primo pomeriggio del Venerdì Santo, esattamente in coincidenza con la pia pratica delle «Tre ore di Agonia di N.S.G.C.». Ma, non per questo, perdendo il carattere liturgico. Per essa, addirittura, l’allora arcivescovo titolare di Nazareth, Maffeo Barberini, futuro papa Urbano VIII, compose il lungo e struggente canto dell’Ante oculos, ancora oggi cantato dal clero, supportato dal popolo, che, in forma litanica, risponde: «Miserere nostri, Domine; miserere nostri». Questo mio amico, parlandomi del dolore suo e dei suoi concittadini della non effettuazione della processione il Venerdì Santo, si augurava che almeno un sacerdote, da solo, in quel giorno portasse processionalmente la pisside col Santissimo Sacramento, nascosto sotto il velo omerale. Sarebbe un segno forte della presenza in corpo, sangue, anima e divinità di Nostro Signore, il quale non abbandona il popolo dei suoi fedeli.
Ci sono dei particolari di quella plurisecolare processione che mi hanno da subito impressionato: innanzitutto i quattro giovani sacerdoti che portano a mano l’Urna contenente il Santissimo Sacramento: indossano delle dalmatiche settecentesche, davvero uniche nel loro genere: sono bicolore: rosso e nero: quasi un presagio dell’ultima riforma della Settimana Santa (anno 1969), che per il Venerdì Santo ha stabilito la mutazione dei colori liturgici: dal nero al rosso. Ma quel che colpisce di più è che questi quattro sacerdoti svolgono la loro funzione di urniferari, camminando per tutto il tragitto scalzi; e con essi i crociferi delle numerose arciconfraternite e confraternite di Barletta e i turiferari. È un segno forte della profonda devozione che tutti – ma proprio tutti – sentono… non solo il popolino. E questo dice perché mai Barletta abbia dato alla Chiesa tantissime vocazioni sacerdotali e religiose: tanto maschili, tanto femminili. Lo dico con cognizione di causa: sin da bambino ho frequentato a Conversano la chiesa e il monastero di San Cosma: una vera e propria enclave barlettana, le cui suore sono tutte figlie spirituali di Don Ruggero M. Caputo, vissuto e morto a Barletta in concetto di santità nel giugno 1980.






Fotografie tratte dalla processione del Venerdì santo del 2013. FONTE

Quello di vedere in processione anche il clero scalzo è un fatto a cui non si dà sufficiente risalto; quando, invece, andrebbe sottolineato. Esattamente come si fa per il Venerabile Mons. Giuseppe Di Donna (1901-1952), vescovo di Andria, il cui gesto di voler andare scalzo un anno alla processione del Venerdì Santo, in segno di riparazione a un grave delitto commesso proprio nella sua città episcopale, è rimasto famoso.
Il mio augurio è che tutte “le espressioni della pietà popolare e le processioni che arricchiscono i giorni della Settimana Santa e del Triduo Pasquale”, giustamente proibite in questo momento drammatico di pandemia, non solo non subiscano una diminuzione d’affetto, ma che ne escano ancor più rafforzate.
Con questo spirito, dunque, viviamo la Settimana di Passione e la Settimana Santa.
Buona Pasqua.




Apprendiamo con non assai soddisfazione che a Barletta la tradizionale processione eucaristico-pentenziale, seppur in forma minimale, si è svolta. Tutto è andato come ci si augurava: l'arciprete del Capitolo della Concattedrale Santa Maria Maggiore, can. Francesco Fruscio, in piviale con la pisside del Santissimo sotto il velo omerale. Ad accompagnarlo per tutto il tragitto: l'arcivescovo di Trani al suo fianco, che recitava a voce alta le preghiere, un vigile urbano e, dietro, il sindaco con la candela in mano, a testimoniare la fede schietta di una intera comunità cittadina, nel rispetto della laicità dello Stato. Per le foto, vBarletta Viva, 10.4.2020 e Barlettalive, 10.4.2020

1 commento:

  1. Come sempre il prof. Abbruzzi, documentatissimo, ci riporta alle radici delle nostre espressioni di fede, facendocene cogliere il senso profondo che va al di là del mero folklore.

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