Secondo la
tradizione questa antifona mariana, che sostituisce l’Angelus dal
Sabato Santo al Sabato precedente la Domenica della Santissima Trinità, venne
cantata dagli Angeli per annunziare a San Gregorio Magno che allora stava
conducendo una processione penitenziale la cessazione di una fiera pestilenza
(vedi qui).
Già recitata nella Chiesa – basti pensare alla menzione che ne fa l’Alighieri
nel XXIII canto del Paradiso – e copiosamente arricchita di sante indulgenze,
fu consacrata come antifona del tempo pasquale da Benedetto XIV (così ci
ricorda Radiospada, 12.4.2020).
Gregorio di
Tours, nell’Historiae Francorum (liber X, 1) e
Iacopo di Varazze, nella Legenda Aurea, in effetti, raccontano il
memorabile prodigio della cessazione della peste del 590 d.C. all’epoca del
grande S. Gregorio Magno in modo incalzante e accorato: «Durante la
processione, in una sola ora erano morte ben ottanta persone, ma papa Gregorio
non smetteva di incoraggiare ad andare avanti con fede. Man mano che il corteo
si avvicinava a San Pietro, l’aria diventava più leggera e salubre. Giunti al
ponte che collegava la città al Mausoleo di Adriano, allora chiamato Castellum Crescentii, d’improvviso scesero
dal cielo schiere di angeli che cantavano quelle che sarebbero diventate le
parole del Regina Coeli, l’antifona che in tempo
pasquale sostituisce l’Angelus e saluta Maria Regina per la
risurrezione del Salvatore: “Regina Coeli, laetare, Alleluja – Quia
quemmeruisti portare, Alleluja – Resurrexit sicut dixit, Alleluja!”.
San Gregorio
rispose: “Ora pro nobis rogamus, Alleluja!”. Gli
angeli planarono ancora più in basso per galleggiare sulle teste dei presenti e
infine circondare il dipinto di Maria. Gregorio guardò in alto e sulla cima del
castello vide la grande figura armata dell’Arcangelo mentre asciugava la spada
dal sangue e la riponeva nel fodero. La peste era finita» (M. Milvia
Morciano, Quando san Michele arcangelo apparve a Roma e fermò la peste,
in Vatican
News, 20.3.2020).
Per nostra edificazione rilanciamo questo contributo del prof. De Mattei.
Per nostra edificazione rilanciamo questo contributo del prof. De Mattei.
Pieter Paul Rubens, Cristo trionfante sulla morte e sul peccato, 1616, Musée des Beaux-Arts, Strasburgo |
San Gregorio Magno e il
Coronavirus del suo tempo
di Roberto de Mattei
Un alone di mistero avvolge il Coronavirus, o
Covid-19, di cui non conosciamo né l’origine, né i reali dati di diffusione, né
le possibili conseguenze. Ciò che però sappiamo è che le pandemie sono sempre
state considerate nella storia come flagelli divini e che l’unico rimedio che
la Chiesa ha opposto ad esse è stata la preghiera e la penitenza. Così accadde
a Roma nell’anno 590, quando Gregorio della famiglia senatoriale della gens
Anicia, fu eletto Papa con il nome di Gregorio I (540-604).
L’Italia era sconvolta da malattie, carestie,
disordini sociali e dall’onda devastatrice dei Longobardi. Tra il 589 e il 590,
una violenta epidemia di peste, la terribile luesinguinaria, dopo aver devastato il territorio bizantino ad Oriente e quello dei
Franchi ad Occidente, aveva seminato morte e terrore nella penisola e si era
abbattuta sulla città di Roma. I cittadini romani interpretarono questa
epidemia come un castigo divino per la corruzione della città. La prima vittima
mietuta a Roma dalla peste fu papa Pelagio II, che morì il 5 febbraio 590 e fu
sepolto in San Pietro. Il clero e il senato romano elessero come suo successore
Gregorio che, dopo essere stato praefectus urbis, viveva nella sua cella monacale sul monte Celio. Dopo essere stato
consacrato il 3 ottobre 590, il nuovo Papa affrontò subito il flagello della
peste. Gregorio di Tours (538-594), che fu contemporaneo e cronista di quegli
eventi, racconta che in un memorabile sermone pronunciato nella chiesa di Santa
Sabina, Gregorio invitò i romani a seguire, contriti e penitenti, l’esempio
degli abitanti di Ninive: «Guardatevi
intorno: ecco la spada dell’ira di Dio brandita sopra l’intero popolo. La morte
improvvisa ci strappa dal mondo, senza quasi darci un minuto di tempo. In
questo stesso momento, oh quanti son presi dal male, qui intorno a noi, senza
neppure potere pensare alla penitenza».
Il Papa esortò quindi a sollevare lo sguardo a Dio,
il quale permette tali tremendi castighi al fine di correggere i suoi figliuoli
e, per placare la collera divina, ordinò una «litania settiforme», cioè una
processione dell’intera popolazione romana, divisa in sette cortei, secondo il
sesso, l’età e la condizione. La processione mosse dalle varie chiese di Roma
verso la Basilica Vaticana, accompagnando il cammino con il canto delle
litanie. È questa l’origine delle cosiddette Litanie maggiori della Chiesa, o
rogazioni, con cui preghiamo Dio di difenderci dalle avversità. I sette cortei
muovevano attraverso gli edifici dell’antica Roma, a piedi nudi, a passo lento,
il capo coperto di cenere. Mentre la moltitudine percorreva la città, immersa
in un silenzio sepolcrale, la pestilenza arrivò al punto tale di furore che,
nel breve spazio di un’ora, ottanta persone caddero a terra morte. Ma Gregorio
non cessò un attimo di esortare il popolo perché continuasse a pregare e volle
che dinanzi al corteo fosse portato il quadro della Vergine conservata in Santa
Maria Maggiore e dipinta dall’evangelista san Luca (Gregorio di Tours, Historiae Francorum, liber X, 1, in Opera omnia, a cura di J.P. Migne, Parigi 1849 p. 528).
La Leggenda aurea, di Jacopo da Varazze, che è un compendio delle tradizioni trasmesse
dai primi secoli dell’era cristiana, racconta che man mano che la sacra
immagine avanzava, l’aria diventava più sana e limpida ed i miasmi della peste
si dissolvevano, come se non potessero sopportarne la presenza. Si era giunti
al ponte che unisce la città al Mausoleo di Adriano, conosciuto nel Medioevo
come Castellum
Crescentii, quando
improvvisamente si udì un coro di angeli che cantavano: «Regina Coeli, laetare,
Alleluja – Quia quemmeruisti portare, Alleluja – Resurrexit sicut dixit,
Alleluja!». Gregorio
rispose ad alta voce: «Ora
pro nobis rogamus, Alleluja!». Nacque così il Regina Coeli, l’antifona con cui nel tempo pasquale la Chiesa saluta Maria Regina
per la risurrezione del Salvatore. Dopo il canto, gli Angeli si disposero in
cerchio intorno al quadro della Madonna e Gregorio, alzando gli occhi, vide
sulla sommità del Castello un Angelo che, dopo avere asciugato la spada
grondante di sangue, la riponeva nel fodero, in segno del cessato castigo. «Tunc Gregorius vidi super
Castrum Crescentii angelum Domini qui glaudium cruentatum detergens in vagina
revocabat: intellexit que Gregorius quod pestisilla cessasset et sic factum
est. Unde et castrum illud castrum Angeli deinceps vocatum est». Comprese Gregorio che la peste era finita e così
avvenne: e quel castello fu d’allora in poi chiamato il Castello dell’Angelo
(Iacopo da Varazze, Legenda
aurea, Edizione critica
a cura di Giovanni Paolo Maggioni, Sismel-Edizioni del Galluzzo, Firenze 1998,
p. 90).
Papa
Gregorio I fu canonizzato e proclamato Dottore della Chiesa, ed entrò nella
storia con l’appellativo di “Magno”. Dopo la sua morte i romani cominciarono a
chiamare la Mole Adriana “Castel Sant’Angelo” e, a ricordo del prodigio, posero
in cima al castello la statua di san Michele, capo delle milizie celesti, in
atto di rinfoderare la spada. Ancora oggi nel Museo Capitolino è conservata una
pietra circolare con le impronte dei piedi che, secondo la tradizione,
sarebbero state lasciate dall’Arcangelo quando si fermò per annunciare la fine
della peste. Anche il cardinale Cesare Baronio (1538-1697), considerato per il
rigore della sua ricerca uno dei più grandi storici della Chiesa, conferma
l’apparizione dell’Angelo alla sommità del castello (Odorico Ranaldi, Annali ecclesiastici tratti da
quelli del cardinal Baronio, anno 590,
Appresso Vitale Mascardi, Roma 1643, pp. 175-176).
Osserviamo
solo che se l’Angelo, grazie all’appello di san Gregorio, rinfoderò la spada,
vuol dire che essa era stata prima sguainata per punire i peccati del popolo
romano. Gli Angeli sono infatti gli esecutori dei castighi divini dei popoli,
come ci ricorda la drammatica visione del Terzo segreto di Fatima, esortandoci
al pentimento: «un Angelo con una
spada di fuoco nella mano sinistra; scintillando emetteva grandi fiamme che
sembrava dovessero incendiare il mondo intero; ma si spegnevano al contatto
dello splendore che Nostra Signora emanava dalla sua mano destra verso di lui:
l’Angelo, indicando la terra con la mano destra, con voce forte disse:
Penitenza, Penitenza, Penitenza!».
La diffusione
del Coronavirus ha un qualche rapporto con la visione del Terzo Segreto? Il
futuro ce lo dirà. Ma l’appello alla penitenza resta la prima urgenza della
nostra epoca e il primo rimedio per assicurarci la nostra salvezza, nel tempo e
nell’eternità. Le parole di san Gregorio Magno devono risuonare ancora nei
nostri cuori: «Cosa diremo degli
avvenimenti terribili di cui siamo testimoni se non che sono preannunci
dell’ira futura? Pensate dunque fratelli carissimi, con estrema attenzione a
quel giorno, correggete la vostra vita, mutate i vostri costumi, sconfiggete
con tutta la vostra forza le tentazioni del male, punite con le lacrime i
peccati compiuti» (Omelia prima sui Vangeli, in Il Tempo di Natale nella Roma di Gregorio Magno, Acqua Pia Antica Marcia, Roma 2008, pp. 176-177).
È di queste
parole, non del sogno dell’Amazzonia felix, che avrebbe oggi bisogno la Chiesa,
che appare oggi come la descriveva san Gregorio ai suoi tempi: «Nave vetusta e terribilmente
squarciata; dappertutto infatti entrano i flutti e le tavole marcite; squassate
dalla violenta e quotidiana tempesta, fanno presagire il naufragio (Registrum I, 4 ad
Ioann. episcop. Constantinop.)». Ma allora la Divina Provvidenza suscitò un nocchiero che, come
afferma san Pio X, «tra l’imperversare
dei marosi seppe non solo toccare il porto, ma anche mettere al sicuro la nave
dalle tempeste future» (Enciclica Jucunda
sane del 12 marzo
1904).
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