Ad una settimana dal Venerdì Santo, volentieri
ospitiamo un contributo del nostro Franco Parresio, che giunge "a
fagiolo", alla luce anche di un recente articolo de La
Gazzetta del Mezzogiorno.
Passata la festa, gabbato lo santo…
con buona pace di tutti
con buona pace di tutti
di Franco Parresio
E sì!, si è chiuso da una settimana questo lungo e
penoso Venerdì Santo senza le tipiche «espressioni della pietà popolare e le
processioni che arricchiscono i giorni della Settimana Santa e del Triduo
Pasquale» (secondo il diktat vaticano)! E con buona pace di tutti. Delle
autorità religiose, in primis.
Un Venerdì Santo da dimenticare!
Si fa per dire.
Un Venerdi Santo, invece, che passerà alla storia,
come il Venerdì Nero… che più nero non si può!
Altro che il colore rosso, voluto e imposto dalla
riforma della Settimana Santa, in segno di gloria rappresentato dal martirio e
dalla regalità di Cristo sulla croce!
Ma quale gloria?!
Questo scorso Venerdì Santo ha dimostrato, invece, in
toto, la giustezza del colore nero, così come indicato nelle rubriche
preriformate della Settimana Santa, poiché giorno di lutto... e non solo perchè
«aliturgico, cioè senza celebrazione del santo sacrificio» (Caronti), ma
proprio per non aver potuto vivere «le espressioni della pietà popolare e le
processioni che arricchiscono i giorni della Settimana Santa e del Triduo
Pasquale»: una decisione sì giunta dall’alto, ma accolta arrendevolmente dal
basso… pro bono pacis.
Dico “arrendevolmente” non perché si voglia sminuire
la pericolosità del coronavirus – tutt’altro! –, ma perché non si è voluto
– no potuto! – cercare il giusto compromesso con le autorità: e civili e
religiose. E il giusto compromesso è, appunto, riuscire ad esprimere comunque la
pietà popolare legata ai riti del Triduo Pasquale, ricorrendo a forme minimali,
che mettessero d’accordo tutti. Proprio perchè trattasi di pietà; non
già di mero folclore! Pietà che, per sua natura, non può essere espressa
in un altro periodo dell’anno liturgico, «ad esempio il 14 e 15 settembre»,
così come proposto dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti
(qui).
E ciò in linea con il popolare detto, che mai come ora ci appare in tutta la
sua veridicità: «Passata la festa, gabbato lo santo». Laddove, infatti, il
compromesso, pur a fatica, si è raggiunto, non solo si è salvata la pietà del
popolo, ma, addirittura questa ne è uscita rafforzata. Valga tra tutti e per
tutti il magistrale esempio dato dai Barlettani al mondo intero dacché, proprio
grazie alla non rassegnazione dell’Arciconfraternita del Santissimo Sacramento,
la plurisecolare processione eucaristico-penitenziale non solo si è potuta svolgere
nella forma che ci si auspicava, cioè semplice (un solo sacerdote in strada con
la pisside), ma addirittura il primo cittadino stesso, che vi è andato dietro
con una candela in mano, ed accompagnato dall’arcivescovo di Trani, ha
rinnovato con atto formale il «Voto della città di Barletta ai suoi Patroni» proprio
nella notte dello scorso Venerdì Santo (v. qui).
E non a caso il Comune di Barletta è nella denominazione “Città della Disfida”:
disfida tante volte necessaria, per giungere a un ragionevole accordo. Ragion
per cui il gettare la spugna equivale non tanto a darla vinta al proprio
avversario quanto nel palesare la debolezza propria e delle proprie idee. E,
perciò stesso, non avere – nel presente, ma anche e soprattutto in avvenire – alcun
potere contrattuale.
Chi, come l’Arciconfraternita del Santissimo
Sacramento di Barletta, è riuscito a spuntarla, ha dimostrato all’universo
mondo che la sua è vera pietà. E di esempi oltre quello di Barletta ce ne sono
e, per fortuna, pure tanti. Ma chi non ci ha provato nemmeno, ha creato per sé
e per quelli dopo di sé un grave precedente, lasciando chiaramente intendere ai
profani che la natura di quei riti, pur tanto amati da generazioni e
generazioni, e quindi costituenti la tradizione di un paese, è fondamentalmente
folclorica più che pietistica. Il messaggio che è passato è che se ne può fare
tranquillamente a meno: “Ma sì! Che fa!?” Esattamente come ha ammesso un
presidente di una confraternita, dicendosi dispiaciuto tanto di non poter
organizzare le processioni quest’anno, ma di essere al contempo ugualmente
contento di vedere concretizzata la loro passione e il loro sacrificio, avendo
la splendida idea di riunire (virtualmente, si intende) tutti i protagonisti e
gli attori, per coinvolgerli in una grande raccolta
fondi. L’obiettivo? Acquistare dei ventilatori polmonari, necessari come il
pane in questo periodo di emergenza sanitaria. Che dire? Bell’iniziativa, e
persino lodevole, ma del tutto fuori luogo per una confraternita, che, in
quanto associazione di fedeli, è vero che tra le finalità ha proprio le «opere
di pietà o di carità» (can. 298, § 1), ma la carità discreta, non sbandierata –
«non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6,3) –; ché,
altrimenti, è filantropia pura e semplice. Non a caso, sin dai tempi antichi, i
confratelli si incappucciavano: non solo per andare in processione scalzi o
flagellarsi, ma anche per svolgere gli atti di misericordia corporale, tra cui
quello di soccorrere i malati e seppellire i poveri morti.
Il mio è tutt’altro che un rimprovero: è piuttosto
un dispiacere. Perché così intravedo la fine delle tradizioni: una fine lenta
ma inesorabile, perché portate avanti da persone le quali, pur brave e degne di
stima, non sfuggono all’impietoso giudizio di essere tacciate di fanaticheria
da una parte e di pusillanimità dall’altra. E l’augurio: che tutto questo possa
essere di sprone in avvenire, per non finire con l’essere assimilati alla
dantesca «setta d’i cattivi, a Dio spiacenti e a’ nemici sui».
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