domenica 4 aprile 2021
sabato 3 aprile 2021
venerdì 2 aprile 2021
Immagini per meditare la sera del Venerdì Santo
Ippolito Scalza, Pietà, 1579, Duomo, Orvieto |
Józef Unierzyski, Discesa dalla Croce, 1887, Muzeum Narodowe w Krakowie, Cracovia |
Antonio Ciseri, Trasporto del Cristo al sepolcro, 1864-70, Santuario della Madonna del Sasso, Orselina |
Charles Timbal, Il Cristo portato alla tomba, 1848, Musée Barrois, Bar-le-Duc |
Juan Antonio Vera Calvo, La Veronica mostra il Volto Santo alla santa Vergine ed a S. Giovanni, 1864, Museo Nacional del Prado, Madrid |
Dulce Ligno... i versi che cantano la teologia della Croce
In questo Venerdì Santo meditiamo le parole dell'inno Vexilla regis prodeunt.
Juan Raul Berzosa Fernández, Santissimo Cristo della Vittoria, 2021, Malaga |
Dulce Ligno... i versi che cantano
la teologia della Croce
di
Carlo Codega
Non con l’aspro ferro della spada, ma con il dolce legno della croce Gesù ha domato la terra. Sotto una rude corteccia, questo Albero di salvezza imporporato dal Sangue divino, nasconde un nettare inesauribile e delizioso. Proviamo a suggerlo, con l’aiuto dei magnifici inni di Venanzio Fortunato che la Liturgia del Tempo di Passione accosta alle nostre labbra.
La liturgia del Tempo di Passione
Le ultime due settimane di Quaresima, secondo la forma antica del Rito romano,
sono denominate “Tempo di Passione”: in queste ultime settimane di Quaresima,
l’accento della Liturgia si sposta dall’aspetto intimamente penitenziale, che
aveva dominato nelle settimane precedenti, al diretto e doloroso riferimento
alla Passione di Nostro Signore Gesù Cristo. Ovvero, se nelle prime quattro
settimane l’atteggiamento di penitenza, dolore dei peccati, orazione continua e
mortificazione dei sensi ci viene suggerito dalla figura di Cristo orante e
penitente nei quaranta giorni solitari nel deserto, ora l’attenzione si sposta
su Cristo paziente, sullo Schiavo di Jahvè che soffre per i nostri peccati: dal
Cristo che si prepara nel deserto alla sua missione nel digiuno e
nell’orazione, al Cristo che a Gerusalemme prende sulle sue spalle la Croce per
compiere tale missione, la Redenzione dell’umanità.
Tale cambio di tono e di ritmo, in preparazione al Triduo Sacro, è segnato soprattutto dal cambio degli inni utilizzati nelle Ore maggiori (Mattutino, Lodi e Vespri): i lenti e ascetici inni di Quaresima (Ex more docti mystico, O sol salutis intimis, Audi benigne Conditor) cedono sovranamente il passo ai molto più intensi e impetuosi inni di Passione (Vexilla regis prodeunt, Pange lingua), i quali, nonostante il tema doloroso, sono caratterizzati da una coloritura piuttosto gloriosa e trionfale, incentrata attorno al “Trionfo della Croce”. Chiariremo in seguito il perché di questo tono, ma per il momento ci limitiamo a fissare la nostra attenzione sull’autore di questi inni, Venanzio Fortunato, nome che ai più non dice nulla, ma che nell’epoca tardo-antica risuonava sulle labbra dei dotti e dei devoti.
Vita
di un vescovo-poeta... e di una principessa-monaca
Chi è dunque questo Venanzio Fortunato? Nato nel 535 a Duplavilis, l’attuale
Valdobbiadene, Venanzio Fortunato proveniva da una gens romanica e studiò nel
centro di cultura preminente del nord-est d’Italia, ovvero ad Aquileia.
Emergente per le sue capacità letterarie, rifiutò però l’offerta di san
Paolino, vescovo del luogo, di diventare sacerdote, forse per essersi già
inserito in ambienti legati al doloroso scisma tricapitolino. Spostatosi a
Ravenna per continuare gli studi, insieme al compagno Felice (il futuro san
Felice, vescovo di Treviso) fu toccato dalla mano di Dio, con una malattia che
cambiò il corso della sua vita. I due compagni e amici furono entrambi colpiti
da un misterioso male agli occhi che li avrebbe portati alla cecità e
all’abbandono della carriera scolastica ed ecclesiastica; sennonché si unsero
con alcune gocce dell’olio proveniente dalla lampada che perennemente ardeva
presso le reliquie di san Martino, a Tours, e ne ebbero un’improvvisa e
inaspettata guarigione.
Alla guarigione seguì la
promessa di dirigersi in pellegrinaggio in Gallia, presso la tomba del loro
munifico guaritore, ma solo cinque anni dopo Venanzio, forse anche a causa di
dissapori con i dominatori bizantini, lasciò Ravenna alla volta della Gallia.
Quello che doveva essere un pellegrinaggio divenne in realtà il definitivo
trasferimento nelle regioni transalpine, dalle quali non avrebbe mai più preso
la strada per ritornare ai suoi luoghi natali. Due fattori influenzarono questa
scelta: anzitutto il legame da subito instaurato da questo giovane con capacità
poetiche indiscutibili con la corte del re di Austrasia, Sigiberto, e con
importanti ecclesiastici dell’epoca, come san Germano di Parigi o san Medardo
di Soissons; in secondo luogo – ma in primo, considerata l’importanza – la
conoscenza con una celebre donna dell’epoca, santa Radegonda. Il nostro la
conobbe a Saix, dove ella guidava in quanto badessa una comunità monastica, e
ben presto capì di essere al cospetto di una religiosa di statura spirituale
non comune. Figlia del re di Turingia, Radegonda era stata presa come bottino
di guerra dai merovingi, il cui re, Teodorico I (figlio del famoso Clodoveo),
la costrinse a sposare il figlio Clotario, il quale aveva già diverse mogli,
ripetutamente prese e lasciate. La nostra principessa turingia aveva però ben
altri sogni per la testa: quest’anima in cui il Cristianesimo era penetrato
fino alle midolla, voleva da sempre essere una vergine, pertanto ben presto
scappò dal marito per realizzare la sua vocazione. Ricevette il velo da san
Medardo e si trasferì a Tours: qui il promesso marito cercò di riprendersela in
casa, sennonché lei fuggì per un campo che i contadini stavano seminando con
avena, la quale crebbe immediatamente e in misura straordinaria, tanto da
coprire la fuga della giovane innamorata di Cristo. La statura morale di questa
monaca convinse Venanzio a divenire economo del monastero di Saix e, di lì a
poco, del neonato monastero di Santa Croce di Poitiers.
Nel frattempo il nostro letterato, senza mai cessare la frequentazione della
corte – dove le sue poesie erano altamente apprezzate –, ricevette anche il
sacro Ordine del presbiterato, divenendo pertanto confessore e direttore
spirituale delle monache di santa Radegonda. Eletto infine come vescovo alla
sede di Poitiers nel 592, non interruppe la familiarità con il monastero di
Santa Croce e nemmeno le sue occupazioni letterarie, divenendo uno dei più
celebri poeti della sua epoca.
Gli
inni di Passione
Perché questo interesse per la vita di Venanzio Fortunato? Perché nel 569 santa
Radegonda, sfruttando le sue ampie conoscenze nobiliari ed ecclesiastiche,
ottenne in dono dall’imperatore d’Oriente Giustino II, per il neonato monastero
di Santa Croce, una reliquia della vera Croce, e proprio l’arrivo di questo
prezioso tesoro spirituale fu l’occasione che spinse il nostro Venanzio a
comporre i due già citati inni del Tempo di Passione, ovvero il
famosissimo Vexilla Regis (I vessilli del re) e il meno
celebre Pange Lingua (Canta, o lingua), da non
confondere con il famoso inno eucaristico di san Tommaso d’Aquino, che ricalca
il medesimo incipit.
È da far notare, fin da
subito, che le circostanze di composizione spiegano ampiamente come l’intento
del nostro poeta ecclesiastico non fu direttamente quello di cantare la
dolorosa Passione di Nostro Signore, quanto piuttosto quello di celebrare il
trionfo glorioso della Croce... un trionfo che certo passa per la sconfitta,
una gloria che passa per la sofferenza, ma che alla fine si risolve in una
vittoria senza appello sul demonio, utilizzando peraltro, in un ribaltamento
provvidenziale, gli stessi strumenti usati dal maligno per soggiogare gli
uomini. Non a caso, dunque, gli stessi inni del Tempo di Passione sono usati
anche nella festa dell’Esaltazione della Santa Croce del 14 settembre (e in
quella ormai soppressa dell’Invenzione della Santa Croce del 3 maggio).
Facciamo notare inoltre che l’inno Vexilla Regis ha subito nel
corso dei secoli diverse correzioni e revisioni filologiche, la prima, in
particolare, con la riforma del breviario da parte di Urbano VIII e la seconda
con quella seguita al Vaticano II, che tende a tornare all’originale ma a volte
con qualche differenza.
Ad ogni modo proviamo a suggere da questi magnifici inni il succo teologico e spirituale, che sotto la scorza di un poetare altamente raffinato, può nutrire la nostra anima con la dolce asprezza della Passione di Nostro Signore.
Salve
altare, salve vittima
Per quanto l’accento degli inni pittavini non cada principalmente sul tema
della Passione e Morte espiatrice di Nostro Signore, la Redenzione è ben
presente ed espressa in termini poeticamente grandiosi, anche se con un accento
sempre trionfale, come in questo solenne saluto della Croce e del Crocifisso:
«Salve ara
salve
victima
de
passionis gloria»
(VR1, «Salve altare,
salve vittima della gloria della passione»).
Come imperituro monumento di battaglia e di trionfo, la Croce si staglia sulle
nostre teste negli inni di Venanzio, mentre noi possiamo solo contemplarla ai
piedi del Calvario, facendoci umili e pentiti dinanzi alla grande opera della
Redenzione. La Croce è infatti il nuovo altare ove l’Agnello immolato dà
liberamente e spontaneamente la propria vita per la Redenzione del mondo:
«Sponte libera Redemptor, passioni deditus,
agnus in Crucis levatur immolandus stipite»
(PL2, «Il Redentore
spontaneamente si consegna alla sua passione: l’agnello si solleva per essere
immolato sulle braccia della Croce»).
Anzi, la stessa figura della Croce, con il suo braccio orizzontale agganciato
sulla trave verticale a modo di stadera (la bilancia a due braccia) ci ricorda
come il peso dei nostri peccati, dei peccati dell’umanità, abbia dovuto essere
uguagliato dal peso dei meriti di Cristo per ristabilire il divino equilibrio
del cosmo:
«Beata,
cuius brachiis
pretium
pependit saeculi:
statera
facta corporis,
praedam tulitque tartari»
(VR1, «Beata Croce,
dalle cui braccia pendette il prezzo del mondo: del corpo di Cristo resa una
bilancia, strappò via la preda dell’inferno»).
È qui che emerge l’aspetto più prettamente redentivo: “redimere” significa per
gli antichi “ricomprare”, ovvero l’umanità, divenuta con il peccato schiava di
Satana, doveva essere riscattata e ricomprata al prezzo infinito del Sangue di
Cristo, in modo che sulla stadera il peso dei meriti del Redentore eguagliasse
e superasse quello dei nostri peccati.
Il prezzo versato però
fu proprio quello del suo Sangue, cioè della sua Passione e Morte dolorosa,
sulla quale anche Venanzio di Poitiers si sofferma, con diligente attenzione ai
dettagli dolorosi:
«Felle potus ecce languet: spina, clavi, lancea
mite
corpus perforatur; unda manat, et cruor:
terra,
pontus, astra, mundus
quo
lavantur flumine!»
(PL2, «Gustato il fiele, eccolo languire: spine, chiodi e lancia perforano il
mite corpo; scaturiscono sangue ed acqua, grazie al cui afflusso vengono lavate
terra, mare, astri e l’intero universo»).
E ancora nel Vexilla Regis torna a ricordarci come accanto al
Sangue, prezzo versato per la redenzione dell’umanità, dal costato di Cristo
sia scaturita la benefica acqua per lavare gli uomini e purificarli dal
peccato:
«Quae vulnerata lanceae
mucrone
diro, criminum
ut
nos lavaret sordibus,
manavit
unda et sanguine»
(VR2, «Il quale dopo essere stato ferito dalla crudele punta di una lancia, per
lavarci dalle sporcizie dei nostri crimini, stillò acqua e sangue»).
Dalla vita alla Vita, attraverso la morte
Il sangue e l’acqua compendiano così la Redenzione dolorosa attuata da Cristo,
ma, con un imprevisto ribaltamento glorioso e divino, la morte diviene vita,
l’apparente sconfitta una vittoria e il sangue, anziché imbrattare il legno
della Croce, lo imporpora, conferendogli un aspetto regale, mentre le stille
adornano l’immenso “reliquiario” ligneo della Croce con gemme di immenso
valore.
In effetti tra le strofe
meglio riuscite dei capolavori poetici del Fortunato, non si può dimenticare il
sublime gioco di parole del Vexilla Regis nella sua prima stanza, secondo la
revisione operata sotto Urbano VIII:
«Qua Vita mortem pertulit
et
morte vitam protulit»
(VR2, «Con la quale la Vita sopportò la morte e tramite la morte portò la
vita»).
Il chiasmo poetico che incrocia tra loro morte e vita nei due versetti, e il
richiamo assonante ma antitetico di profero-perfero (cioè
sopportare-apportare), individua con sintesi poetica il mistero della
Redenzione.
Mentre la sequenza
pasquale Victimae paschali parla di un mirabile conflitto tra
vita e morte («Mors et vita duello conflixere mirando»), negli inni di
Venanzio si assiste piuttosto al richiamo e al ribaltamento tra vita e morte,
nelle due accezioni spirituale e corporale. Gesù che, in quanto Dio, è la Vita
per essenza, tramite la Croce sopportò la morte nella sua natura umana, al fine
di portare, tramite la potenza della sua natura divina, la vera vita, la vita
divina della grazia e quella del Paradiso agli uomini. Pertanto proprio tramite
la morte in Croce, Colui che era la vita in sé e per eccellenza, poté
comunicare a noi la sua stessa vita divina, tramite l’adozione a figli di Dio.
La sublime riflessione del vescovo di Poitiers, in fondo, è una chiosa del
pensiero paolino secondo cui Gesù con la sua morte in Croce ha strappato il
pungiglione alla morte (cf. 1 Cor 15,55): la morte fisica e umana cioè rimane
nel mondo, come conseguenza del peccato, ma, grazie al dono della vita divina e
della Risurrezione, tutta la sua drammaticità è cancellata. Peraltro già
sant’Agostino si era espresso in termini molto simili a quelli di Venanzio,
giocando sui concetti di vita e morte nel suo commento al Vangelo di Giovanni,
che è forse la fonte di ispirazione più diretta di Venanzio: «Non è forse la
Vita Cristo? Ma nella morte di Cristo la morte è morta, poiché la vita ha
ucciso la morte». Proprio per questo in un accento di lirismo, Venanzio
Fortunato può riservare alla Croce l’epiteto di speranza, unica speranza
dell’umanità peccatrice: «O Crux, ave, spes unica» (VR3).
L’inganno divino
Tale ribaltamento, anzi, viene approfondito dal Vescovo pittavino in chiave di
ricapitolazione e di ricircolazione: Dio dimostra la sua sovranità e
onnipotenza non solo ribaltando il testamento di morte e schiavitù del peccato
originale, in un testamento di vita e liberazione a favore dell’umanità, ma lo
fa ripercorrendo a ritroso e utilizzando gli stessi mezzi con cui il demonio
aveva pervertito i progenitori Adamo ed Eva. Alla frode demoniaca del serpente,
Dio risponde con una “frode divina” – questa volta a danno dell’angelo maligno
e non dell’umanità – e, anzi, alla frode aggiunge una beffa, in modo tale che
la vittoria sul demonio sia un vero e proprio trionfo, a cui si accompagna
l’umiliazione dell’antico serpente. Infatti, secondo il principio enunciato
dallo stesso Venanzio:
«Hoc opus nostrae salutis ordo depoposcerat,
multiformis
proditoriis arte ut artem falleret,
et
medelam ferret inde, hostis unde laeserat»
(PL, «Questa opera della nostra salvezza richiedeva un ordine, affinché
l’abilità dell’ingannatore venisse vinta con altrettanta abilità e si traesse
la cura, proprio da dove il nemico aveva procurato il danno»).
La stessa arte ingannatoria, cioè, con cui il malvagio serpente aveva tratto in
fallo Adamo ed Eva, doveva essere ora utilizzata da Cristo nella Redenzione.
Riprendendo il pensiero
dei Padri della Chiesa – in particolare sant’Ignazio di Antiochia e san
Girolamo – Venanzio Fortunato ricorda come la stessa Incarnazione del Verbo
faccia parte di questa truffa divina. Innanzitutto accettando la condizione
umana ed entrando nel grembo verginale di Maria, il Verbo Incarnato ingannò il
demonio, che non si aspettava che il Creatore si facesse creatura nel ventre di
un’umile fanciulla:
«Quando venit ergo sacri plenitudo temporis,
missus
est ab arce Patris natus, orbis conditor,
atque
ventre virginali carne factus prodiit»
(PL, «Quando venne pertanto la pienezza del tempo sacro, il Figlio, creatore
dell’universo, fu inviato dalla dimora del Padre e fattosi carne entrò nel
ventre verginale»).
Il secondo tempo di questo ben ordito inganno fu quello di scegliere non solo
l’umanità, ma la condizione più umile e dimessa, nascendo in una mangiatoia e
sperimentando le sofferenze della fame e del freddo, nonché la dipendenza da
una creatura umana:
«Vagit infans inter arcta conditus praesepia:
membra
pannis involuta Virgo Mater adligat,
et
Dei manus pedesque stricta cingit fascia»
(PL2, «Il neonato vagisce, posto nella stretta mangiatoia: la Vergine Madre
avvolge le sue membra con panni e le mani e i piedi di Dio cinge in strette
fasce»).
Ma l’apice della “frode divina” si attua con la morte in Croce, ribaltando così
quello che era stato uno strumento di dannazione – l’albero della conoscenza
del bene e del male – in uno strumento di Redenzione, cioè il legno della
Croce.
Perciò scrive Venanzio:
«De parentis protoplasti fraude Factor condolens,
quando
pomi noxialis morte morsu corruit,
ipse
lignum tunc notavit,
damna
ligni ut solveret»
(PL1, «Il Creatore, addolorato per la frode contro i progenitori, quando con un
morso del frutto nocivo furono corrotti dalla morte, scelse allora lo stesso
albero, per cancellare i danni apportati dall’albero»).
Dato che tutto il male era venuto dal frutto dell’albero della conoscenza del
bene e del male, il buon Dio decise che sempre da un albero, da un legno,
venisse la salvezza, cioè dal legno della Croce. Da un legno era venuta la
dannazione, da un altro legno doveva venire la salvezza, per ribaltare la frode
diabolica e umiliare definitivamente l’astuto serpente, come si canta anche nel
prefazio della Santa Croce: «Ut unde mors oriebatur, inde vita resurgeret,
et qui in ligno vincebat in ligno quoque vinceretur» (affinché da dove
era sorta la morte, di lì anche la vita risorgesse, e colui che aveva vinto
tramite un albero fosse anche sconfitto tramite un albero).
Il tema in questione
divenne talmente famoso nel Medioevo che, secondo varie leggende – che
trovarono consacrazione poi nella Leggenda Aurea di Iacopo da
Varagine e nella celebre serie di affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo
–, l’albero da cui fu tratto il legno della Croce non era altro che un
germoglio dell’albero della conoscenza del bene e del male posto da Set, terzo
figlio di Adamo, nella bocca del padre morente. Fioritura certo leggendaria,
quanto al contenuto, ma di precisione e bellezza teologica senza pari, nel
porre in relazione il primo capo del genere umano, Adamo, con il nuovo capo,
Cristo, e nel trovare continuità tra il peccato operato dal primo e la
redenzione dal secondo.
Dio regnerà da un legno
Se nella scelta di usare per la Redenzione lo stesso oggetto materiale servito
per il peccato originale si nota la grandezza e l’onnipotenza della sapienza
divina, va detto che l’“inganno divino” si compie proprio nella morte in Croce
di Cristo. Nell’apparente sconfitta del Redentore, si attua in realtà la più
grande e definitiva vittoria del bene sul male, in quanto a Satana viene
sottratto il mondo che era finito sotto il suo impero. Nella “morte di Dio” in
Croce poi, si attua in realtà il trionfo della vita, e la possibilità per gli
uomini di guadagnare la vera vita, la Vita eterna con la risurrezione dei
corpi.
Sulla Croce si combatte
infatti una battaglia gloriosa tra la vita e la morte, tra Cristo e Satana, tra
il bene e il male, come si celebra nella prima strofa di evidente sapore epico:
«Pange, lingua, gloriosi lauream certaminis,
qualiter
Redemptor orbis immolatus vicerit»
(PL2, «Canta, o lingua, la vittoria di quella lotta gloriosa, per la quale il
Redentore del mondo venendo immolato vinse»).
E in effetti, che questa vittoria sia frutto di un ribaltamento prospettico e
di una sovrana truffa, per cui tutto ciò che sembra sconfitta e umiliazione
diviene vittoria e gloria, è testimoniato dal fatto che quella che sembra la
condanna di un malfattore, uno sconfitto della storia, è in realtà l’atto con
cui Dio riprende possesso del creato, riaffermando la sua sovranità
sull’umanità, fino ad allora oppressa da Satana. Il legno della Croce diviene
così anche il trono su cui il Re dell’universo siede e regna, attuando così la
profezia da Lui stesso data agli Apostoli: «Quando sarò innalzato attirerò
tutti a me» (Gv 12,20).
Colui che, secondo
sant’Agostino, «aveva domato la terra non con il ferro (della spada) ma con il
legno (della croce)» (Enarrationes in Psalmos), in effetti viene cantato
da Venanzio non solo come trionfatore e redentore ma anche come un sovrano che
dall’alto del suo trono, la Croce, regna su tutto il mondo:
«Impleta sunt quae concinit
David
fideli carmine,
dicens
nationibus:
regnavit
a ligno Deus»
(VR, «Si compie ciò che era cantato dal veritiero carme di Davide, dicendo alle
nazioni: Dio regnerà dal legno»).
Il riferimento è al salmo 96 (95) secondo la versione Itala (mentre non vi è
tale versetto nella più celebre Vulgata), un salmo del re Davide, nel quale si
profetizza il trionfo di Dio su tutte le genti, un trionfo che in Cristo
Crocifisso assume dimensioni più ampie e particolari inaspettati anche per
l’ispirato re biblico Davide.
L’apoteosi
della Croce
Il trionfo di Cristo, Re pacifico e Redentore crocifisso, glorifica anche
quella Croce che, da mero strumento materiale della Redenzione, diviene il
simbolo più significativo della nostra Religione. È da dire che, dal Medioevo
in poi, siamo abituati a una considerazione piuttosto “dolorosa” della Croce:
la Croce e il Crocifisso ci trasmettono, da san Francesco e Giotto in poi,
l’immagine di un Dio che si fa uomo per soffrire e morire per noi.
L’accento sull’aspetto
umano e doloroso della Redenzione non deve però farci completamente obliare
l’aspetto divino e trionfante: prima di Giotto, in effetti, nei crocifissi Gesù
non era dipinto nel suo aspetto sofferente ma in quello trionfante, non come “Christus
patiens” ma come “Christus triumphans”, secondo l’iconografia
orientale. Con la stessa mentalità nell’antichità le croci venivano forgiate
come splendide realizzazioni orafe, in cui l’oro e l’argento – già di per sé
preziosi – erano impreziositi da gemme splendide e lucenti, come rubini e
smeraldi. Ma tutto questo aspetto trionfante e glorioso della Croce – molto
vivo nel Cristianesimo antico – è in realtà tutto relativo al suo Trionfatore:
è il Sangue di Cristo a imporporare la Croce, a renderla preziosa e rivestirla
del colore regale per eccellenza, così come i rubini che ornavano le croci
antiche non erano altro che artistiche rappresentazioni delle stille di Sangue
che, anziché sporcare il legno della Croce, lo nobilitarono e impreziosirono.
Tenuto presente di
questo contesto culturale, si capisce bene come negli inni di Venanzio
Fortunato – e in particolare nel Vexilla regis – si celebri
una sorta di apoteosi della Croce, evidente già nell’incipit di tono marziale:
«Vexilla regis prodeunt
fulget
crucis mysterium»
(VR, «Avanzano i vessilli del re, rifulge il mistero della croce»).
Alla vista dell’incedere di questi stendardi crociati, la mente va subito alla
grandiosa apparizione di Costantino, al quale, alla vigilia della battaglia di
Ponte Milvio contro Massenzio (312), proprio la Croce apparve come segno di
vittoria assicurata al suo esercito se l’avesse fatta apporre agli stendardi e
agli scudi, con la famosa scritta «In hoc signo vinces». Dall’altra
parte questi stendardi che avanzano conferiscono all’inno un aspetto
processionale, che fu valorizzato nel Medioevo dai crociati, che a Gerusalemme
lo cantavano proprio durante la processione al Santo Sepolcro.
Crux fidelis
In questa apoteosi della Croce messa in versi da Venanzio Fortunato, si possono
comunque evidenziare i diversi caratteri attribuiti al dolce Legno che accolse
il corpo del Redentore.
Nell’evocazione della
battaglia combattuta dal Redentore sulla Croce e nel richiamo storico
all’episodio di Costantino, abbiamo già visto come la Croce sia un simbolo di
vittoria. Alla vittoria consegue però anche la gloria, in quanto il corpo di
Cristo, mentre con la sua Passione e Morte vince sul Legno, al contempo lo
adorna fornendo la Croce di una bellezza e di uno splendore che non aveva
prima: la Croce in altre parole, splende di gloria e di trionfo. Quel tronco –
di per sé comune e vile come gli altri – ebbe infatti il privilegio di poter
toccare il santo corpo di Gesù, martoriato e afflitto ma comunque corpo del
Vincitore. La Croce è nobilitata e ornata dal corpo del Redentore, glorificata
dal suo contatto, così che il nudo Legno diviene un albero splendido, o, nelle
parole del vescovo di Poitiers:
«Arbor decora et fulgida,
ornata
regis purpura,
electa,
digno stipite
tam
sancta membra tangere!»
(VR, «Albero splendido e luminoso, ornato dalla porpora regale, eletto a
toccare il santo corpo con il suo degno tronco!»).
Non bisogna però dimenticare che tale trionfo glorioso non va inteso in un
senso mondano: la vittoria conseguita è la Redenzione e pertanto la Croce
rimane un segno salvifico per eccellenza, il cui valore deriva dal Sacrificio
di Cristo, dall’essersi consegnato in riscatto per il genere umano. Pertanto lo
stesso Venanzio può dire beata la Croce, proprio perché – in quanto bilancia
della Redenzione – ha portato il peso del Salvatore del mondo, del riscatto
dell’umanità dal peccato:
«Beata cuius brachiis
pretium
pependit saeculi»
(VR1, «Beata, dai cui bracci pendette il prezzo di riscatto del mondo»).
Il nostro poeta non si ferma qui, ma, nel cantare le eccellenze e le glorie
dell’albero della croce, ricorda la sua unicità tra tutti gli alberi esistenti
al mondo:
«Crux fidelis, inter omnes arbor una nobilis
nulla
talem silva profert flore, fronde, germine»
(PL, «Croce fedele, unico albero nobile tra tutti gli altri, nessuna foresta ne
genera uno simile per fiori, fronde e semi»).
Questo anche perché la vittoria conseguita sulla Croce è il trionfo della vita
sulla morte, un trionfo che quasi coinvolge anche la Croce, che da morto tronco
prende vita, quasi come se Cristo, la Vita, morendo, non solo ridoni vita alle
anime morte al peccato, ma vivifichi anche tutto ciò che gli sta attorno,
persino il tronco della Croce staccato dalle sue radici:
«Fundis aroma cortice,
vincis
sapore nectare,
jucunda
fructu fertili
plaudis
triumpho nobili»
(VR1, «L’aroma si effonde dalla corteccia, che per sapore vince il nettare, e
gioconda con il fertile frutto plaude al trionfo nobile»).
Dalla corteccia della Croce emana dunque un nettare delizioso e dolce, perché è
proprio questo il carattere della Redenzione gloriosa di Cristo: che più
l’aspra sevizia dei persecutori si abbatte sul suo corpo, più la sua anima si
scioglie in una dolce tenerezza verso il genere umano. E di questa dolcezza
sembrano partecipare tutti gli oggetti della Passione: l’anima di Cristo
comunica dolcezza al suo corpo, ma anche alla Croce e persino ai chiodi.
«Dulce ferrum, dulce lignum
dulce
pondus sustinent»
(PL2, «Dolce chiodo, dolce legno che sostengono il dolce peso»).
E di questa passionale dolcezza – sia nel senso di sofferente che di
emotivamente accesa – sembra venire investita anche l’anima del poeta
Fortunato, che in un impeto di passione poetica e mistica chiede persino alla
Croce di animarsi per dimostrare la sua calda accoglienza al corpo del
Redentore:
«Flecte ramos, arbor alta, tensa laxa viscera,
et
rigor lentescat ille quem dedit nativitas,
et
superni membra Regis tende miti stipite»
(PL, «Piega i tuoi rami, o alto albero, distendi le rigide fibre che ti ha dato
la natura, affinché su un morbido tronco tu accolga le membra del supremo re»).
La Croce viene convertita da strumento di Passione a suprema dimostrazione di
amore e, pertanto, a ragione merita il titolo di fedele, “Crux fidelis”.
Fedele al Redentore e fedele compagna anche dei nostri giorni, perché solo
nella Croce si può trovare la dolcezza della vita cristiana e solo nella Croce
si può trovare speranza per l’umanità smarrita nel peccato:
«Sola digna tu fuisti ferre pretium saeculi;
atque
portum praparare arca mundo naufrago,
quam
sacer cruor perunxit fusus Agni corpore»
(PL, «Tu sola fosti degna di portare la vittima immolata per l’umanità e
preparare un porto per il mondo naufrago, che fu bagnato dal sacro sangue,
effuso dal corpo dell’Agnello»).