di Enrico Benedetti
Icona di San Nicola di Bari (autore Enrico Benedetti, 2021) |
Il cristianesimo dei primi secoli non aveva una eredità artistica; esso derivava dal giudaismo che aveva il divieto di rappresentare il sacro e il divino. Infatti, nel Primo Testamento esisteva il rigoroso divieto dell’immagine di Dio. Il primo comandamento del decalogo di Mosè dice: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso” (Es 20,4-5). Per questo il cristianesimo paleocristiano inizialmente fece ricorso a rappresentazioni simboliche (pesci, ancora, agnello, ecc.).
A partire
dal IV secolo, a imitazione dell’arte pagana, i cristiani cominciarono a
decorare i luoghi di culto e progressivamente le immagini sacre,
particolarmente nelle chiese orientali, finirono per avere non solo una
funzione decorativa, ma furono collocate al centro della vita liturgica e
attorno ad esse cominciò a svilupparsi un vero e proprio culto. Questo suscitò
dissidi fra i Padri della Chiesa circa la liceità o meno della venerazione
delle immagini, al punto che il Concilio Quinisesto (691-692) proibì
la rappresentazione simbolica di Gesù, la cui figura cominciava ad apparire
anche su oggetti che non avevano niente a che fare con il culto e la liturgia.
L’imperatore
Leone III (717-741), per ostacolare la venerazione delle immagini, ordinò
di eliminare le icone. Per questo depose il Patriarca di Costantinopoli Germano
I contrario a questa politica e nominò al suo posto Anastasio, che
nel 730 firmò il decreto imperiale di abolizione delle icone. Ciò
sollevò la reazione dei favorevoli al culto delle immagini (iconoduli)
– soprattutto i monaci e il grande teologo Giovanni Damasceno – che portò
a una dura lotta (lotta iconoclasta) che, non accettata
dagli altri Patriarcati della Cristianità (Roma, Alessandria, Gerusalemme,
Antiochia), proseguì sotto il figlio di Leone III, Costantino
V (740-775) e il suo successore Leone IV il Cazaro.
Questa politica cambiò quando, dopo la prematura morte di Leone
IV (780), Irene, madre del minorenne Costantino VI e favorevole
al culto delle immagini, divenne reggente e riuscì a convocare, dopo ostacoli
posti dai vescovi iconoclasti sostenuti dall’esercito, un Concilio dei vescovi
a Nicea (secondo Concilio di Nicea, VII Concilio ecumenico, 787).
Il Concilio decise la netta differenza tra
venerazione e adorazione. La venerazione delle persone rappresentate nelle
immagini – e non delle icone materiali in quanto tali – era ammessa;
l’adorazione assolutamente rifiutata, perché solo Dio può essere adorato:
«…Le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in
qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di
Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle
tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l’immagine del signore Dio e
salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell’immacolata Signora nostra, la
santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giusti. Infatti,
quanto più frequentemente queste immagini vengono contemplate, tanto più quelli
che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio di ciò che esse
rappresentano e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione. Non si
tratta, certo, di una vera adorazione, riservata dalla nostra fede solo alla
natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende all’immagine della
croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri […].
L’onore reso all’immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato
e chi venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto.»
Il Concilio
di Nicea non pose però fine alle lotte iconoclaste, che ripresero nell’814, sotto
l’impero di Leone V l’Armeno, e cessarono solo nell’843 per opera
dell’imperatrice reggente Teodora Armena.
Un’opera
d’arte è costituita da vari elementi che, con la visione dell’artista formano
un’unità organica, un’espressione nuova del reale. Dal rigore di questa
unificazione deriva il valore dell’opera. Questo è vero anche per le icone che
aggiungono però un elemento specifico: la dimensione del trascendente,
dimensione che vuole rendere presente il mondo di Dio. Questo elemento non è
presente nelle opere profane e nemmeno, sotto certi aspetti, nell’arte sacra
occidentale, almeno a partire dal Rinascimento, tant’è vero che nel mondo
Ortodosso si dice che la nostra è un’arte religiosa, piuttosto che sacra. Nell’icona
si unificano quindi elementi teologici, estetici e tecnici che aprono alla fede
e alla meditazione. Come disse una volta padre Raniero Cantalamessa, cito a
memoria: “Di fronte a un quadro religioso dell’Occidente ammiro la bravura
dell’artista; di fronte a un’Icona prego”.
Valutare
un’icona bizantina è cosa abbastanza complessa. Se la valutiamo solo dal punto
di vista tecnico ed estetico trascurando l’elemento teologico possiamo avere
utili informazioni storiche e culturali, ma perdiamo il valore spirituale e
quindi il vero e più pieno significato dell’icona. Questo è profondamente
radicato nel Vangelo, nella Tradizione e nella Liturgia, cioè nel cuore stesso
della fede da cui trae elementi che fanno superare il mondo naturale per
tendere al soprannaturale in un tentativo di comunione con l’eternità.
Sebbene gli
elementi fondamentali dell’iconografia bizantina non abbiano una originalità
assoluta (li si può ritrovare anche nell’arte medioevale dell’Occidente),
possiamo però affermare che l’arte “bizantina” si è sviluppata soprattutto
nell’Europa orientale, dalla Grecia alla Russia, interessando praticamente
tutti i paesi slavi con un carattere unitario che però non impedì alle varie
nazioni di manifestare caratteristiche specifiche.
Cenni di tecnica iconografica
Come è stato
detto l’icona è un’interpretazione del reale che include un riflesso
dell’aldilà, una rappresentazione del mistero. È un microcosmo nella
realizzazione del quale non si deve trascurare alcun particolare sia nella
scelta dei materiali, che devono derivare dal mondo minerale, vegetale e
animale, sia nell’esecuzione.
La tavola
La tavola
deve anzitutto permettere una buona conservazione della pittura. È dunque
importante la scelta del legno, che deve essere possibilmente privo di nodi,
non resinoso e ben stagionato. In passato la scelta variava a seconda delle
regioni, ma attualmente si preferisce il tiglio, per la sua venatura omogenea e
la facilità di lavorazione. Le tavole sono in massello, tagliate nel senso del
filo, utilizzando preferibilmente il centro del tronco perché meno soggetto
alla deformazione.
La cornice
La cornice
– Polya (campo) in russo – viene ricavata scavando la tavola
sulla faccia rivolta verso il centro del tronco. Questo è assolutamente
necessario perché la tavola, deformandosi nel tempo, su questo lato tende a
diventare convessa. La pittura applicata su questo lato tenderà così a
distendersi, al più a fissurarsi leggermente, mentre se si dipingesse
sull’altro lato, che tende a divenire concavo, la pittura si incresperebbe sino
a scrostarsi.
Per limitare
l’incurvamento, soprattutto delle grandi tavole, sul retro dell’icona si
inseriscono, in uno scavo sagomato a coda di rondine, due zeppe in
un legno più duro, a forma di trapezio allungato.
La culla o arca
La cornice
di un’icona non ha la stessa funzione che svolge nei nostri quadri, ma è un
tutt’uno con l’icona stessa dove definisce uno spazio sacro, l’interno scavato
della tavola, che si chiama culla o arca –Kovcheg in russo – che
significa appunto arca, riferito all’Arca dell’Alleanza. Questo termine sta
anche a indicare un reliquario e ciò fa comprendere lo stretto legame esistente
tra venerazione delle reliquie e venerazione delle icone.
La tela
Non è consigliabile
applicare il fondo e la pittura direttamente sul legno perché questo,
imbarcandosi nel tempo, ne determinerebbe la fissurazione e lo scrostamento,
come avviene in molte icone antiche. Per evitare o limitare questi danni si
incolla sulla tavola una tela di cotone o di lino utilizzando una colla animale
(preferibilmente di pelle o di coniglio) che viene applicata a caldo. Una volta
asciutta la colla, l’icona è pronta perché vi si applichi il fondo bianco (levkas:
dal greco leukçs = bianco)).
Il levkas è
fatto con polvere fine di alabastro (talvolta mischiato con gesso di Bologna),
che è un carbonato di calcio posto in commercio col nome di bianco di Meudon o
di Volterra. Il leukas tiene uniti il legno e la pittura e la sua
applicazione richiede cura ed esperienza: si disperde la polvere in una soluzione
acquosa di colla animale e si stende il liquido cremoso così ottenuto in più
mani, a caldo, con un pennello o una spatola facendo asciugare bene ogni mano.
Alla fine il levkas deve essere levigato con carta vetrata via
via più fine fino ad ottenere una superficie solida, omogenea e liscia,
particolarmente nelle zone che saranno dorate.
Il disegno
Terminata la
preparazione della tavola si procede con il disegno, che deve essere ben
eseguito per la buona riuscita dell’icona. Per quanto possibile occorre
mantenersi nella tradizione e per questo è bene consultare i disegni fatti
dagli antichi iconografi, raccolti in manuali (podlinniki) preziosamente
conservati. Questi disegni possono essere copiati o ricalcati su carta
apportandovi eventuali miglioramenti o variazioni personali. Ottenuto il
risultato desiderato si procede a ricalcare il disegno sulla tavola per
rifinirlo alla fine a pennello, ciò che costituisce la fase di apertura
dell’icona.
La doratura
Dorare
richiede padronanza delle varie tecniche che si acquisiscono solo dopo una
lunga pratica. Queste tecniche possono essere classificate in due grandi
gruppi:
· La doratura
a «missione», che consiste essenzialmente
nello stendere un liquido con potere adesivo (missione) sulla superficie da
dorare ed applicare poi sottilissime foglie d’oro. Ci sono due tipi di missione: missione
all’acqua e missione ad olio. La prima permette un’applicazione
molto veloce perché bastano pochi minuti (10-15 minuti) perché la missione
sviluppi il suo potere adesivo; la missione a olio necessita invece di
un’attesa di 3 ore prima di essere adesiva, ma ha una brillantezza finale
maggiore ed è più resistente.
· La doratura
a «guazzo» o a «bolo», che consiste nell’applicare le foglie d’oro dopo aver steso sulla
tavola più mani a caldo di una sospensione collosa (bolo) a base di
un’argilla grassa (argilla armena) abitualmente rossa (ma può essere ocra,
verde o nera, a seconda della tonalità che si vorrà lasciar trasparire
dall’oro). Il bolo fornisce una superficie meno rigida
del levkas, ciò che consente di lucidare l’oro con un brunitore
d’agata ottenendo così un effetto brillante e molto liscio. Questa tecnica dà
risultati decisamente migliori della doratura a missione, ma è più difficile e
richiede l’impiego di strumenti specifici:
– un cuscino da doratore realizzato
in morbidissima pelle che consente di depositare e tagliare la foglia d’oro
nella misura desiderata prima della sua applicazione;
– un coltello da doratore,
necessario per tagliare le foglie d’oro nelle misure desiderate;
– una pennellessa da doratore,
realizzata in morbidissimo pelo di vajo, che serve per prelevare le foglie
d’oro, dal cuscino e stenderle sulla superficie da dorare;
– un brunitoio in pietra d’Agata,
necessaria per la lucidatura (brunitura) dell’oro.
La doratura
inizia con la preparazione del fondo (ammanitura) che consiste nel
carteggiare la superficie da dorare fino a renderla perfettamente liscia,
perché la minima imperfezione è esaltata dall’oro e rischia di causare graffi
durante la brunitura. Si stende quindi il bolo lasciando adeguati tempi di
asciugatura fra una mano e l’altra e lucidando la superficie finale con una
paglietta d’acciaio finissima (4 zeri) e con un panno ruvido di cotone o di
seta. A questo punto si procede con l’applicazione delle foglie d’oro, che è
un’operazione delicata, perché le foglie sono leggerissime e fragili. Bisogna
lavorare in assoluta assenza di correnti d’aria (talora occorre trattenere
anche il respiro); la lama del coltello da doratore (necessario per tagliare i
fogli d’oro) e il cuscino per doratore non devono assolutamente essere toccati
con le dita; l’oro stesso non può essere toccato, ma maneggiato solo con il
coltello, apposite pinze in legno e la pennellessa da doratore.
Si taglia la foglia d’oro in piccoli quadrati, si applica sulla superficie del bolo da dorare il «guazzo», che è una soluzione idroalcolica al 40% (vanno benissimo la vodka e la grappa), si avvicina la pennellessa all’oro dopo averla strofinata leggermente sul dorso della mano o sul collo per caricarla elettrostaticamente; l’oro è così attratto sulla pennellessa e può essere trasferito sulla superficie da dorare sulla quale viene attratto e si stende. Si ripetono questi passaggi fino a coprire l’intera superficie da dorare. Dopo 2-3 ore l’oro si sarà asciugato e disteso, lo si tampona con un batuffolo di cotone e si correggono eventuali imperfezioni e lacune per procedere infine alla brunitura sulle parti che si desiderano più brillanti (ad es. i nimbi), sfregando la pietra d’Agata sull’oro con leggeri movimenti circolari: queste aree brilleranno come uno specchio in contrasto con il resto dell’oro, che avrà un aspetto più opaco.
La pittura
Terminata la
doratura si procede alla pittura con tempere all’uovo utilizzando
preferibilmente pigmenti naturali – che vengono macinati fino a ridurli in
polvere finissima – di origine minerale (es. terra di Siena, terra verde, ocre
di varie tonalità, cinabro, orpimento, lapislazzuli), vegetale (es. indaco), e
animale (es. carminio), anche se è possibile usare colori sintetici. Queti
pigmenti sono stesi a pennello dopo averli diluiti in una emulsione fatta con
tuorlo d’uovo miscelato con del vino o aceto bianco. Terminata la pittura si
procede a fissare i colori stendendo una vernice grassa a base di olio di lino
cotto (olifa) o una resina semifossile (copale) simile all’ambra ai quali è
stato aggiunto un siccativo.
San Nicola
Il culto del santo
San Nicola è il santo che ha goduto nella vita della Chiesa il culto più esteso, dopo quello della Beata Vergine Maria.
Nato a
Patara di Licia nel 270 circa, lasciò la sua città natale e si trasferì a Myra
(oggi Demre), una città della Licia, una provincia dell’Impero
bizantino, che si trova nell’attuale Turchia; lì venne ordinato sacerdote
e, alla morte del locale vescovo metropolita, fu acclamato dal popolo come
nuovo vescovo. Imprigionato ed esiliato nel 305 durante la
persecuzione di Diocleziano, fu liberato
da Costantino nel 313 e riprese l’attività apostolica.
Durante il
concilio di Nicea avrebbe condannato duramente l’Arianesimo, difendendo
l’ortodossia cattolica, come confermano gli scritti di Andrea di Creta e di
Giovanni Damasceno .
Morì a Myra
il 6 dicembre, presumibilmente dell’anno 343 e le sue reliquie
rimasero nella Cattedrale di questa città fino alla primavera del 1087 quando,
durante l’assedio di Myra da parte dei musulmani, circa 62 marinai baresi che
partecipavano alla difesa della città forzarono il suo sarcofago e ne
asportarono le ossa per sottrarle alla profanazione; le trasportarono a Bari,
dove giunsero il 9 maggio, con indescrivibile esultanza della popolazione.
Furono prese in consegna dal benedettino Elia, abate del monastero di San
Benedetto, il quale decise di edificare in città una nuova grande Basilica
dedicata al Santo dove, a Basilica non ancora ultimata, le reliquie furono
trasferite il 1° ottobre 1089, con solenne cerimonia presieduta da papa Urbano
II.
In realtà, i
marinai baresi avevano tralasciato, volutamente o per errore, le ossa più
piccole del Santo, che furono prese in una successiva spedizione da marinai
veneziani e sono oggi custodite a Venezia nella chiesa di san Nicolò al
Lido.
San Nicola è
molto venerato in tutto il mondo cattolico e ortodosso e specialmente in Russia
dove, come a Bari, oltre alla festa universale del 6 dicembre c’è anche quella
del 9 maggio, a memoria della traslazione delle reliquie. Il suo culto si
diffuse nel mondo bizantino-slavo a partire dall’Asia Minore e in Occidente, a
partire da Roma e dal Mezzogirno italiano che allora era
soggetto a Bisanzio.
Uomo della
carità che si distinse per la sua generosità verso i poveri e i bisognosi, San
Nicola è il patrono di bambini, ragazzi, farmacisti, mercanti, naviganti e
pescatori.
Il culto in Italia
Benchè
nella Chiesa cattolica la memoria liturgica di S. Nicola del 6
dicembre sia facoltativa, in Italia il suo culto è talmente radicato
che, nel 2017, si è deciso di renderla obbligatoria. A Bari, inoltre, come già
detto, il Santo è festeggiato dal 7 al 9 maggio, nella ricorrenza della
traslazione delle ossa da Myra.
L’icona
L’icona da
me scritta raffigura S. Nicola a mezzo busto che ricalca, nella fisionomia del
volto, l’originale della Basilica di S. Nicola di Bari, che per un certo tempo
si pensava fosse stato un dono dello zar di Serbia Uroš II, ma che studi
successivi hanno documentato essere stata donata da Uroš III (1322-1331) e che
è uno dei pezzi artistici più preziosi conservati in questa Basilica.
In questa
icona S. Nicola è rappresentato a figura intera, ricoperto da una
preziosa riza [1] in argento cesellato che lascia
visibili la testa del Santo, le tre dita della mano sinistra che regge il
Vangelo, la mano destra benedicente e i paramenti episcopali caratterizzati
dalle croci scure su fondo oro. Anche l’omoforio [2] è ricoperto dalla riza, mentre
restano visibili, ai piedi del Santo, le figure del re e della regina e, nei
due angoli in alto il Cristo (a sinistra) che porge il Vangelo e la Madonna (a
destra), che porge l’omoforio.
Fra il Medioevo e l’età moderna questa icona, collocata sull’altare principale della sala del Tesoro, è stata la più famosa delle immagini di S. Nicola sia in Europa che in Russia, tanto che era ritenuta ed ebbe delle imitazioni come «La vera immagine di S. Nicola» (Vera effigies Sancti Nicolai).
[1] La riza è una protezione in una lastra di metallo sbalzato, cesellato e inciso (ottone, argento o argento dorato) posta su un’icona, che lascia scoperti volti e mani delle figure sacre ritratte. È un’opera d’arte devozionale caratteristica delle Chiese orientali, la volte impreziosita con smalti policromi, con filigrane, perle e pietre dure e preziose.
[2] L’omoforioo (dal greco ὠμοφόριον, omophorion, «portare sulle spalle») è un paramento liturgico usato dai vescovi ortodossi e dai vescovi cattolici orientali di rito bizantino. È il corrispondente del pallio (pallium) della Chiesa cattolica (latina).
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