Alle sei e quindici del pomeriggio
del 22 maggio 1873, moriva nella sua casa di Milano all’età di 88 anni,
Alessandro Manzoni. Questi, a parte i disturbi nervosi di cui era affetto
(«Strano, tortuoso, complesso», lo definì Natalia Ginzburg nella famosa
biografia familiare. Carattere impossibile, nevrotico, paranoico: Manzoni aveva
il terrore della folla, era vittima di crisi di panico e di vertigini, il
«balbettamento organico e nervoso» gli impediva di parlare in pubblico. A
Brusuglio passava il suo tempo coltivando e camminando per ore, ma non
sopportava la terra bagnata e il cinguettìo degli uccelli), il 6 gennaio era
caduto, battendo la testa su uno scalino all’uscita dalla chiesa di San Fedele
di Milano, dove si recava quotidianamente per la Santa Messa, procurandosi un
trauma cranico. Si era accorto, già dopo qualche giorno, che le sue facoltà
intellettive cominciavano lentamente a declinare, fino a cadere in uno stato di
catatonia a partire dal mese di marzo. Le sofferenze furono acuite dalla morte
del figlio maggiore Pier Luigi, avvenuta il 28 aprile, quasi un mese prima
della morte dello scrittore, che spirò per una meningite contratta a seguito
del trauma. Il corpo fu imbalsamato da sette medici incaricati del processo da
parte del Comune di Milano tra il giorno 24 e il 27 maggio ed esposto a Palazzo
Marino con onori sovrani. Ai solenni funerali del Senatore (Manzoni era stato
nominato senatore nel febbraio 1860 per meriti verso la patria), celebrati in
duomo il 29, parteciparono le massime autorità dello Stato, tra cui il futuro
re Umberto I, il ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta e le
rappresentanze della Camera, del Senato, delle Province e delle Città del
Regno. Il giorno stesso della sua morte il Comune di Milano decretò di
intitolare allo scrittore scomparso la via del Giardino, nei pressi della quale
lo scrittore viveva dal 1814. Alla mattina del 23 maggio erano già murate le
targhe di marmo con la nuova intitolazione “Via Alessandro Manzoni” in
sostituzione delle precedenti. Nel 1874, nel primo anniversario della morte,
Giuseppe Verdi dirigerà personalmente nella chiesa di San Marco di Milano la
Messa di requiem, composta per onorarne la memoria. A fronte delle solenni
commemorazioni istituzionali dell’Italia sabauda, il mondo cattolico espresse,
in morte del Manzoni, alcuni dubbi e alcune critiche che, sebbene in modo
sotterraneo, arriveranno al primo Dopoguerra, nonostante l’indubbio favore per
la di lui grandissima opera e la sua progressiva istituzionalizzazione culturale,
voluta dal Fascismo in continuità con l’Italia liberale di fine Ottocento. I
gesuiti de La Civiltà Cattolica, ad esempio, che avevano preso le
distanze dal Manzoni soltanto dopo che questi ricevette in casa sua con grande
affabilità Giuseppe Garibaldi, massone, anticlericale e anticristiano, nel
1862, passarono sotto silenzio la morte del senatore, per poi esprimere
critiche alla sua opera, nell’articolo del 26 giugno 1873 e in qualche altro
intervento negli anni successivi, sull’onda delle ragionate riserve filosofiche
e letterarie espresse fino alla morte (avvenuta nel settembre 1862) dal p.
Luigi Taparelli d’Azeglio (peraltro figlio di Cesare, destinatario della
celeberrima lettera manzoniana sul Romanticismo). Nel dissidio tra
le due anime del cattolicesimo italiano dell’epoca, Manzoni era ritenuto (non
senza una dose di giusta ragione) il “cavallo di Troia” tramite cui i liberali
avevano potuto attuare la loro politica laicista e l’abbattimento del potere
temporale dei papi. A tal proposito don Davide Albertario, molto critico della
religiosità manzoniana e fervida penna del giornalismo lombardo, scrisse:
«Manzoni non iscorse o non volle iscorgere l’inganno che la rivoluzione
nascondeva alle promesse di unità italiana [...] Egli pertanto non si unì ai
difensori della fede; lasciò in disparte gli alti interessi del cattolico e
fece proprii quelli della rivoluzione; non per questo rinnegò il cattolicismo,
ma lo portò seco nel campo nemico, ed i nemici accolsero con plauso ....» e
tuttavia, dalle colonne de L’Osservatore cattolico don
Albertario con innegabile pietà cristiana, ricordava il defunto «come uomo
buono, anche pio, e nei suoi traviamenti più illuso che colpevole». La mattina
del 22 maggio 1883, a dieci anni esatti dalla morte, in presenza del duca di
Genova e di una rappresentanza parlamentare, con una cerimonia pubblica la
salma di Manzoni fu tolta dal colombario e posta nel famedio del cimitero
monumentale di Milano in una tomba di granito rosso con inciso solo il suo
nome; nel pomeriggio fu inaugurato il monumento in piazza San Fedele, opera di
Francesco Barzaghi. Il decennale della morte segnerà una sorta di difesa
postuma di Manzoni da parte de La Civiltà Cattolica innanzi al
progressivo e pervicace disegno del liberalismo politico e culturale italiano
di appropriarsi totalmente dell’opera manzoniana, negandone la radice
cattolica, in grazia de Le Osservazioni sulla Morale cattolica -
scritte in risposta alle accuse di oscurantismo avanzate alla religione
cattolica dal ginevrino Simonde de Sismond nel 1826 - in cui gli stessi gesuiti
riconobbero un Manzoni apologeta «.....non solo difesa della sua religione, ma
della sua patria, perché tutta la nazione italiana, che si gloria di essere
cattolica, restava denigrata dalle calunnie dello storico calvinista». Il clima
di transigentismo sortito dopo la Prima Guerra mondiale (esito anche dell’idea
sartiana del precedente decennio di deporre definitivamente qualsiasi
anacronistica doglianza per la “debellatio” dello Stato Pontificio dalle
colonne del quindicinale gesuitico), porterà anche la Chiesa istituzionale a un
equo giudizio sull’opera del grande milanese, tanto che nell’Enciclica “Divini
Illius Magistri” con cui si chiude il 1929, anno dei Patti Lateranensi,
papa Pio XI definirà il conterraneo Manzoni «mirabile scrittore quanto profondo
e coscienzioso pensatore». Ancora dopo la Conciliazione tra Stato e Chiesa, il
liberale Benedetto Croce nel 1941, scrivendo per la Rivista di
Letteratura, Storia e Filosofia di Napoli, ricorderà le eccezioni mosse
al Manzoni ancora negli anni Venti da un intellettuale cattolico di grande
fama, ovvero Giovanni Papini il quale – sulla scorta di critiche mosse
all’opera manzoniana, personalmente da Don Bosco nel 1885 – individuava la
radice dell’opera manzoniana più nell’illuminismo che nel cattolicesimo,
ridotto nella concezione manzoniana ad «un umanitarismo sociale con dei riti da
godere più che da approfondire». L’impressione che si ricava dalla foto che
ritrae il vecchio don Lisander sul letto di morte, però è la stessa che il
Poeta aveva descritto in morte di Napoleone nella celebre ode: il Dio - Signore
della storia il quale, sempre e comunque e quali che siano i mezzi che
liberamente sceglie per l’unico obiettivo che è la salvezza dell’uomo, come
affermato dall’Autore ne I promessi sposi – che atterra e
rialza, che dà dolori e consola, si era posto accanto a lui, per consolarlo nel
momento solitario del passaggio all’altra riva. Lasciando ai posteri l’ardua
sentenza (Fonte: Facebook, 22.5.2023,
con lievi modifiche ed adattamenti).
In
ricordo del centenario manzoniano, rilanciamo questo contributo.
Alessandro Manzoni sul letto di morte |
Manzoni antirivoluzionario
di Riccardo Pedrizzi
A
150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, vogliamo ricordare questo “grande
italiano” riproponendo alle nuove generazioni un saggio poco noto scritto
dall’Autore, che ci offre efficaci spunti di riflessione.
Ricorre
quest’anno il centocinquantesimo anniversario della morte di Alessandro
Manzoni. Era nato infatti il 7 marzo 1785 e morto il 22 maggio 1873. Non
sappiamo ancora se in questo clima di cancel culture ci
saranno celebrazioni adeguate per ricordare questo grande italiano. Anche
perché c’è stato addirittura chi ha chiesto di eliminare il suo studio dalle
scuole secondarie superiori. Certamente, però, non ci capiterà di veder
ricordato o solo menzionato, nemmeno dai suoi estimatori, tra le varie opere
dello scrittore milanese da salvaguardare e da proporre alle nuove generazioni,
il saggio, invero assai poco noto, La Rivoluzione francese del 1789 e
la rivoluzione italiana del 1859.
Del
resto lo stesso autore dei Promessi sposi, che per il più
conosciuto e apprezzato romanzo storico si era rivolto, in questo caso forse
scaramanticamente o per ostentare modestia, agli ormai famosi “venticinque
lettori”, prevedendo l’insuccesso di questa sua ulteriore fatica, nella quale
sosteneva, anche per i suoi tempi, delle tesi controcorrente, si augurava di
toccare il cielo con un dito, se fosse riuscito «d’attirare un piccolo numero
di lettori, non già ad accettare le nostre conclusioni, ma a prenderle in
esame».
C’è
da scommettere, però, che nemmeno ai nostri giorni ciò sia possibile, dal momento
che una vera e propria congiura del silenzio è scesa su quest’opera manzoniana.
In verità, fin dall’inizio il progetto di mettere a confronto, evidenziandone
le differenze, le due rivoluzioni, quella francese e quella italiana, nacque
sotto una cattiva stella, tanto da rimanere incompiuto.
Alessandro
Manzoni iniziò a scrivere questo saggio quando ormai era già un grande vecchio,
circondato dall’ammirazione generale, e subito, perciò, si rese conto che non
sarebbe riuscito a portarlo a termine, tanto che acconsentì alle insistenze
dell’amico Stefano Stampa di scrivere la prefazione al libro anche prima di
completarlo con la seconda parte, relativa alla rivoluzione italiana e ai suoi
moti del 1859 [1].
«È
necessario, necessarissimo – continuerà a ripetergli Stampa – che prima di
andare avanti ancora, tu scriva subito una prefazione che spieghi lo scopo del
tuo lavoro». Lo scrittore della Storia della colonna infame la
prepara una prima volta, ma ne resta insoddisfatto, poi una seconda, infine una
terza. A questo punto cade definitivamente la mano sui fogli e l’intera opera
resta incompiuta e vedrà la luce, monca, nel 1889, nel primo centenario del
moto rivoluzionario francese, postuma.
Questa
cattiva sorte continua ancora oggi ad accompagnare il volume, se si pensa che
anche nel mare di pubblicazioni e di libri che apparvero in occasione del
Bicentenario della Rivoluzione francese, è mancata proprio quest’opera.
Oggi
sulla Rivoluzione francese si è scritto e si trova di tutto: da testi ormai
superati a volumi che in altri paesi sono già caduti nel dimenticatoio, da
ricerche rimasticate presentate come nuove, a presunte “rivelazioni” su fatti
insignificanti ed ininfluenti, da “intuizioni” spacciate come originali ad
interpretazioni datate di avvenimenti e personaggi; eppure solo in qualche
occasione è capitato di leggere il titolo del libro manzoniano e men che meno
di sentir riecheggiare in convegni o tavole rotonde il suo contenuto e le sue
tesi. Per questo non sembra esagerato affermare che, se la lacuna non fosse
stata colmata solo un decennio fa dalla casa editrice “Costa & Nolan” di
Genova, “il piccolo numero di lettori”, a cui si rivolse il Manzoni, sarebbe
stato ancora più esiguo.
Non
molti, infatti, sanno che il poeta degli Inni sacri aveva
anche scritto questo saggio; solamente alcuni, poi, ne conoscono per sommi capi
il succo; pochissimi, infine, hanno letto l’intero volume e tra questi
sicuramente il professor Rosario Ameno ed il professor Augusto Del Noce, con i
quali ne parlai nel corso di due interviste che mi rilasciarono alcuni anni fa.
Entrambi convennero sull’importanza del libro e sulla necessità di farlo
conoscere.
Il
fatto è che al potere culturale, editoriale e politico non è mai piaciuto dover
ammettere, e quindi far sapere al grande pubblico, che uno scrittore del
calibro del Manzoni, studiato da tutte le ultime generazioni di studenti, amato
da molti di essi, abbia potuto scrivere un’opera nella quale ha documentato e
dimostrato, senza mai cadere in un ottuso reazionarismo, che la Rivoluzione
francese non era affatto inevitabile; che, invece, sono stati gli uomini, certi
uomini, ad inventare “l’inevitabile” (come successivamente affermò, dimostrandone
mirabilmente i meccanismi e le tecniche, lo storico e sociologo francese
Augustin Cochin); che Luigi XVI non era per niente un re assolutista contrario
alle riforme, riforme che anzi aveva proposto alla vigilia della convocazione
degli Stati Generali; che il sistema dell’Ancien Régime poteva essere reso più
giusto senza provocare il male e i disastri che afflissero la Francia e
l’Europa; che la rivoluzione è stata un tutt’uno di illegalità e di terrore e
che non può essere suddivisa, come ha tentato di fare qualcuno in malafede, «in
due tempi affatto diversi: il primo, di intenti benevoli e sapienti e di sforzi
generosi; il secondo di deliri e scellerataggini»; che insomma, l’Ottantanove
portò il terrore e «l’oppressione del paese, sotto nome di libertà».
Manzoni,
dunque, contro la Rivoluzione, che ha dato i natali al mondo moderno; Manzoni,
come qualcuno ha scritto, contro la storia; Manzoni antirivoluzionario: è un
vero e proprio scacco per la cultura ufficiale! Per questo è calata su
quest’opera una vera e propria coltre di silenzio.
A
questa operazione di occultamento e di rimozione dalla memoria si sono prestati
anche molti cattolici. Sia quelli di orientamento liberal-democratico, che
avendo da sempre tentato di giustificare e di far apparire compatibile la
Rivoluzione e le sue “verità impazzite” con il messaggio evangelico, hanno
operato un vero e proprio ostracismo per tutti quegli autori e quei testi che
non risultassero funzionali alla strategia di “accomodamento” della dottrina
della Chiesa ai valori comuni del mondo. Sia quelli di sponda
controrivoluzionaria, che non hanno ancora rimosso o attenuato il vecchio,
ottocentesco rancore verso le aperture liberali e le simpatie unitarie del
vecchio scrittore. L’operazione, però, che è stata portata a termine intorno a
quest’opera, con la congiura di un silenzio così ermetico, avrebbe dovuto far
sorgere qualche sospetto o, quantomeno, un minimo di curiosità: invece si va
avanti su questa strada e ci si priva, così di tesi e di argomentazioni che
potrebbero essere utili per ristabilire finalmente la verità su di una tragedia
che continua ad essere avvolta dai “miti” e dalle “leggende” fatte fiorire ad
arte da storici e politici di parte.
Scritto
con la maestria letteraria che tutti abbiamo avuto modo di apprezzare
attraverso le opere più note, il saggio, sostenuto da una documentazione
originale e rigorosa, si snoda con la forza appassionata di un romanzo, nel
quale si muovono i personaggi, che furono i protagonisti della Rivoluzione, con
le loro passioni, i loro pregi e i loro difetti. Anche le similitudini
utilizzate dall’Autore risultano, come del resto ciascuno ha potuto
sperimentare leggendo le sue opere più note, efficacissime e suggestive come
quella, ad esempio, che si riferisce appunto, alla Rivoluzione e che viene
ripresa dal Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica.
«Una
rivoluzione... nella quale non si questioni solamente dell’uso o delle
condizioni del potere, o chi ne deve essere investito, ma sia messo in
questione il principio medesimo del potere, è un gran viaggio, che
s’intraprende, credendo di non aver a fare altro che una passeggiata. O, se ci
si passa un’altra similitudine (che è un gran mezzo di dir le cose in breve,
col rischio, si sa, di non dirle punto), è una scala, nella quale, stando giù,
si prende per l’ingresso d’un piano abitabile quello che non è altro che un
pianerottolo; e quando ci s’è arrivati, si scopre un’altra branca che non
s’aspettava, e dopo quella, un’altra, e... e a caposcala, al luogo dove si
starà di casa, quando s’arriva? Quando, voglio dire, comincia uno stato di
cose, alla durata del quale si creda, e che duri in effetto? Ne’ singoli
casi... fin che quel momento non è arrivato, lo sa il Signore: in astratto, lo
può dire ognuno».
L’approfondita
indagine psicologica, poi, delle folle e dei singoli personaggi, la colorita
descrizione degli scenari ambientali e sociali, il preciso raffronto tra la
Rivoluzione americana e quella francese, che non hanno nulla di analogo (come
già dimostrò Edmund Bruke), i toni pacati delle argomentazioni, la difesa
equilibrata dello stato monarchico e del re di Francia, la partecipazione
emotiva ai singoli avvenimenti, la sua rigorosa scelta di campo contro ogni
sopraffazione e ogni sopruso, sono, tra gli altri, requisiti che difficilmente
si possono trovare in altri testi e che dovrebbero indurre almeno i cattolici a
fare di tutto per rompere il muro di omertà e di silenzio che circonda questa
“Rivoluzione” di Alessandro Manzoni.
Nota
Cf
R. Pedrizzi, Rivoluzione e dintorni. Dalle prime reazioni
all’illuminismo alla controrivoluzione cattolica, c. XVII: Il
Manzoni “antirivoluzionario”, Editoriale Pantheon.
Fonte: Il Settimanale di Padre Pio, fasc. n. 19, 14.5.2023
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