A seguito della pubblicazione dei
Dubia dei cardinali, come preannunciato questa mattina da La
Vida Nueva, il Dicastero della Fede pubblicava, per estratto, il contenuto della
lettera dell’11.7.2023 (v. qui e qui). Per
chiarezza ed al fine di evitare equivoci, si pubblica per intero la traduzione italiana della lettera di
Francesco, di riscontro alla missiva dei Dubia del 10.7.2023,
rimanendo tuttora priva di risposta la successiva lettera del 22.7-21.8.2023
contenente la riformazione dei Dubia.
Qui di seguito anche le immagini della prima, seconda ed ultima pagina omesse dalla pubblicazione fattane dal Dicastero Vaticano.
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Vaticano,
Santa Marta, 11 luglio 2023
Eminentissimi Sig.ri Cardinali
Walter
BRANDMÜLLER
Raymond
Leo BURKE
Cari
fratelli,
Vi
scrivo in riferimento alla vostra lettera del 10 luglio scorso. In essa avete
voluto portare alla mia attenzione alcuni dubbi, che secondo voi
sono in qualche misura legati al processo avviato in vista del prossimo Sinodo
dei Vescovi sul tema della Sinodalità.
A
questo proposito, vorrei condividere alcuni aspetti molto importanti con
voi.
Con il prossimo Sinodo, ho fortemente voluto attuare un processo che coinvolga
la partecipazione di una parte veramente significativa di tutto il popolo di
Dio.
In
questo cammino, con l'aiuto e l'ispirazione dello Spirito Santo, abbiamo potuto
raccogliere “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli
uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono” e
abbiamo potuto, ancora una volta, sperimentare che queste gioie, queste
speranze, queste tristezze e angosce "sono pure le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di
genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. (Gaudium et
spes, 1).
Proprio
per rispondere pienamente a ciò, questo processo - che durerà fino all'ottobre
2024 - ha raccolto anche domande e consultazioni sulla struttura
(partecipazione e comunione) e sulla missione della Chiesa nel tempo in cui ci
capita di vivere.
Con
grande sincerità, vi dico che non è molto bello avere paura di queste domande e
di questi interrogativi. Il Signore Gesù, che ha promesso a Pietro e ai suoi
successori un'assistenza indefettibile nel compito di prendersi cura del popolo
santo di Dio, ci aiuterà, anche grazie a questo Sinodo, a essere sempre più in
costante dialogo con gli uomini e le donne del nostro tempo e in totale fedeltà
al Santo Vangelo.
Tuttavia,
anche se non ritengo sempre saggio rispondere alle domande
rivolte
direttamente a me (perché sarebbe impossibile rispondere a tutte), in questo
caso credo sia opportuno farlo per la vicinanza del Sinodo.
In
particolare:
Domanda
1
a) La
risposta dipende dal significato che voi date alla parola
"reinterpretare". Se si intende "interpretare meglio"
l'espressione è valida. In questo senso il Concilio Vaticano II ha affermato
che è necessario che attraverso il lavoro degli esegeti – aggiungo io dei teologi
- "maturi il giudizio della Chiesa" (Concilio Ecumenico
Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 12).
b) Pertanto, se è vero che la Rivelazione divina è immutabile e
sempre vincolante, la Chiesa deve essere umile e riconoscere che non esaurisce
mai la sua insondabile ricchezza e ha bisogno di crescere nella sua comprensione.
c) matura
quindi anche nella comprensione di ciò che essa stessa ha affermato nel suo
Magistero.
d) I
cambiamenti culturali e le nuove sfide della storia non modificano la Rivelazione,
ma possono stimolarci a rendere più espliciti alcuni aspetti della sua
straripante ricchezza, che offre sempre di più.
e) È
inevitabile che questo possa portare a una migliore espressione di
alcune affermazioni passate del Magistero, e in effetti è stato così nel corso
della storia.
f) D'altra
parte, è vero che il Magistero non è superiore alla Parola di Dio, ma è anche
vero che sia i testi della Scrittura sia le testimonianze della Tradizione
hanno bisogno di un'interpretazione che permetta di distinguere la loro
sostanza perenne dai condizionamenti culturali. Ciò è evidente, ad esempio, nei
testi biblici (come Es 21,20-21) e in alcuni interventi magisteriali che
tolleravano la schiavitù (cfr. Niccolò V, Bolla Dum Diversas,
1452). Non si tratta di una questione secondaria, data la sua intima
connessione con la verità perenne della inalienabile dignità della persona
umana. Questi testi hanno bisogno di essere interpretati. Lo stesso vale per
alcune considerazioni neotestamentarie sulla donna (1 Cor 11, 3-10; 1 Tim
2,11-14) e per altri testi della Scrittura e testimonianze della Tradizione che
oggi non possono essere materialmente ripetute.
g) È
importante sottolineare che ciò che non può cambiare è ciò che è stato rivelato
"per la salvezza di tutti" (Concilio Ecumenico
Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 7). La Chiesa
deve quindi discernere costantemente tra ciò che è essenziale per la salvezza e
ciò che è secondario o meno direttamente collegato a questo obiettivo. A questo
proposito, vorrei ricordare quanto affermato da San Tommaso d'Aquino:
"quanto più si scende al particolare, tanto più aumenta
l'indeterminatezza" (Summa Theologiae I-II, q. 94, art. 4).
h) Infine, una singola formulazione di una verità non può mai
essere adeguatamente compresa se si trova da sola, isolata dal
contesto ricco e armonioso dell'intera Rivelazione. La "gerarchia delle
verità" implica anche la collocazione di ogni verità in una giusta
connessione con le verità più centrali e con la totalità dell'insegnamento
della Chiesa. Questo può portare, in ultima analisi, a diversi modi di esporre
la stessa dottrina, anche se "a quanti sognano una dottrina
monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta
dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare
meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo” (Evangeli
Gaudium, 40). Ogni linea teologica ha i suoi rischi, ma anche le sue
opportunità.
Domanda
2
a) La
Chiesa ha una concezione molto chiara del matrimonio: un'unione esclusiva,
stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperta alla
generazione di figli. Solo una tale unione la chiama "matrimonio".
Altre forme di unione lo fanno solo "in modo parziale e analogo" (Amoris
laetitia 292), per questo non possono essere chiamate
"matrimonio" in senso stretto.
b) Non è
solo una questione di nomi, ma la realtà che chiamiamo matrimonio ha una
costituzione essenziale unica che richiede un nome esclusivo, non applicabile
ad altre realtà. È certamente molto più di un semplice "ideale".
c) Per
questo motivo la Chiesa evita qualsiasi tipo di rito o di sacramentale che
possa contraddire questa convinzione, facendo capire che qualcosa che non è un
matrimonio sia riconosciuto come tale.
d) Nei
rapporti con le persone, tuttavia, non dobbiamo perdere la carità pastorale che
deve permeare tutte le nostre decisioni e i nostri atteggiamenti. La difesa
della verità oggettiva non è l'unica espressione di questa carità, che è fatta
anche di gentilezza, pazienza, comprensione, tenerezza e incoraggiamento. Non
possiamo quindi diventare giudici che si limitano a negare, respingere,
escludere.
e) La
prudenza pastorale deve quindi discernere adeguatamente se esistono forme di
benedizione, richieste da una o più persone, che non trasmettano una concezione
errata del matrimonio. Giacché infatti, quando si chiede una benedizione, è una
richiesta di aiuto a Dio, una supplica per un modo migliore di vivere, una
fiducia in un Padre che può aiutarci a vivere meglio.
f) D'altra
parte, anche se ci sono situazioni che da un punto di vista oggettivo non sono
moralmente accettabili, la stessa carità pastorale esige che non si trattino
semplicemente come "peccatori" altre persone la cui colpa o
responsabilità può essere attenuata da vari fattori che influenzano
l'imputabilità soggettiva (cfr. San Giovanni Paolo II, Reconciliatio et
Paenitentia, 17).
g) Le
decisioni che, in determinate circostanze, possono rientrare nella prudenza
pastorale, non devono necessariamente diventare una norma. In altre parole, non
è opportuno che una Diocesi, una Conferenza Episcopale o qualsiasi altra
struttura ecclesiale autorizzi costantemente e ufficialmente procedure o regole
per ogni tipo di questione, poiché tutto ciò che "fa parte di un
discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato
al livello di una norma” giacché questo "darebbe luogo a una
casistica insopportabile" (Amoris laetitia 304). Il Diritto
Canonico non deve e non può coprire tutto, né le Conferenze episcopali possono
pretendere di farlo con i loro vari documenti e protocolli, perché la vita
della Chiesa e la vita della Chiesa percorre molti canali oltre a quelli
normativi.
Domanda
3
a) Pur
riconoscendo che la suprema e piena autorità della Chiesa è esercitata o dal
Papa in virtù del suo ufficio o dal collegio episcopale insieme al suo capo, il
Romano Pontefice (cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium,
22), tuttavia con questi dubia voi stessi manifestate il
vostro bisogno di partecipare, di dare liberamente il vostro parere e di
collaborare, e quindi rivendicate una qualche forma di "sinodalità"
nell'esercizio del mio ministero.
b) La
Chiesa è un "mistero di comunione missionaria", ma questa comunione
non è solo affettiva o eterea, ma implica necessariamente una partecipazione
reale: che non solo la gerarchia, ma tutto il popolo di Dio, in
modi e a livelli diversi, possa far sentire la propria voce e sentirsi parte
del cammino della Chiesa. In questo senso possiamo effettivamente dire che la
sinodalità, come stile e dinamismo, è una dimensione essenziale della vita
della Chiesa. Su questo punto, San Giovanni Paolo II ha detto cose molto belle
nella Novo Millennio Ineunte.
c) Altra
cosa è sacralizzare o imporre una particolare metodologia sinodale che piace a
un gruppo, per farne la norma e il canale obbligato per tutti, perché questo
porterebbe solo a "congelare" il cammino sinodale, ignorando le
diverse caratteristiche delle varie Chiese particolari e la variegata ricchezza
della Chiesa universale.
Domanda
4
a) "Il
sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale differiscono
essenzialmente" (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione
dogmatica Lumen Gentium, 10). Non è conveniente sostenere una
differenza di grado che implichi considerare il sacerdozio comune dei fedeli
come qualcosa di "seconda categoria" o di valore inferiore ("un
grado inferiore"). Entrambe le forme di sacerdozio si illuminano e si
sostengono a vicenda.
b) Quando
San Giovanni Paolo II ha insegnato che l'impossibilità di conferire
l'ordinazione sacerdotale alle donne deve essere affermata
"definitivamente", non stava in alcun modo denigrando le donne e
dando il potere supremo agli uomini. San Giovanni Paolo II ha affermato anche
altre cose. Ad esempio, che quando parliamo di potere sacerdotale "siamo
nell'ambito della funzione, non della dignità o
della santità" (San Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 51).
Sono parole che non abbiamo recepito a sufficienza. Egli ha anche sostenuto
chiaramente che, mentre il sacerdote presiede da solo l'Eucaristia, i
compiti "non danno àdito alla superiorità degli uni sugli altri”; (San
Giovanni Paolo I, Christifideles laici, nota 190; cfr.
Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter
Insigniores, V). Ha anche affermato che se la funzione sacerdotale è
"gerarchica", non deve essere intesa come una forma di dominio,
"è tuttavia totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo."
(San Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, 27). Se non si
comprende questo e non si traggono le conseguenze pratiche di queste
distinzioni, sarà difficile accettare che il sacerdozio sia riservato ai soli
uomini e non si potranno riconoscere i diritti delle donne o la necessità che
esse partecipino, in vari modi, alla guida della Chiesa.
c) D'altra
parte, per essere rigorosi, riconosciamo che una dottrina chiara e autorevole
sulla natura esatta di una "dichiarazione definitiva" non è ancora
stata sviluppata in modo esaustivo. Non è una definizione dogmatica, eppure deve
essere rispettata da tutti. Nessuno può contraddirla pubblicamente, eppure può
essere oggetto di studio, come nel caso della validità delle ordinazioni nella
Comunione anglicana.
Domanda
5
a) Il
pentimento è necessario per la validità dell'assoluzione sacramentale e implica
il proposito di non peccare. Ma qui non c'è matematica, e ancora una volta devo
ricordarvi che il confessionale non è una dogana. Non siamo padroni, ma umili
amministratori dei Sacramenti che nutrono i fedeli, perché questi doni del
Signore, più che reliquie da custodire, sono aiuti dello Spirito Santo per la
vita delle persone.
b) Ci sono
molti modi di esprimere il pentimento. Spesso, nelle persone con un'autostima
gravemente ferita, dichiararsi colpevoli è una tortura crudele, ma l'atto
stesso di avvicinarsi alla confessione è un'espressione simbolica del
pentimento e della ricerca dell'aiuto divino.
c) Vorrei
anche ricordare che “a volte ci costa molto dare spazio nella pastorale
all’amore incondizionato di Dio" (Amoris laetitia 311), ma
dobbiamo imparare a farlo. Seguendo San Giovanni Paolo II, sostengo che non
dobbiamo pretendere dai fedeli risoluzioni di emendamento troppo precise e
sicure, che alla fine finiscono per essere astratte o addirittura egolatriche,
ma che anche la prevedibilità di una nuova caduta "non pregiudica
l’autenticità del proposito" (San Giovanni Paolo II, Lettera al
cardinale William W. Baum e ai partecipanti al corso annuale della
Penitenzieria Apostolica, 22 marzo 1996, 5).
d) Infine,
deve essere chiaro che tutte le condizioni solitamente legate alla confessione
non sono generalmente applicabili quando la persona si trova in una situazione
di agonia o con capacità mentali e psichiche molto limitate.
Cari
fratelli,
Credo
che queste risposte saranno in grado di soddisfare le vostre domande.
Non
dimenticate di pregare per me. Io lo faccio per voi.
Fraternamente,
Francesco
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