La velatura
delle croci e delle immagini
di Francesco
Tolloi
La storia
plurisecolare di un uso diversamente attestato nelle diverse Chiese particolari
dal VII secolo in Gallia al Messale post-conciliare di San Paolo VI passando
per la riforma tridentina e post-tridentina della liturgia romana
«Usus cooperiendi cruces et immagines per ecclesiam ab hac dominica [V di Quaresima, n.d.a.] servari potest, de iudicio Conferentiae Episcoporum»(1). Il Messale, con tale rubrica permissiva, attesta un uso che, pur limitatamente ad alcuni luoghi, si è conservato e che per secoli fu di diffusione generale. Ma da dove e quando si diffuse tale usanza? Quali sono i suoi significati? Non è facile rispondere con certezza: le testimonianze, specie quelle più antiche, sono frammentarie ed anzi attestano una scarsa uniformità della prassi, tuttavia, i dati disponibili, consentono perlomeno di intuire dei percorsi di ricerca e, talvolta, di formulare prudentemente delle ipotesi, spesso ponendo nuovi quesiti. Il Messale che promulgò nel 1570 papa San Pio V secondo le indicazioni del Concilio di Trento, non menziona la prassi, per contro, trent’anni dopo l’editio princeps del Caeremoniale episcoporum, promulgata da Clemente VIII, ne fa esplicito riferimento(2). Questo stato di cose potrebbe suggerire l’ipotesi che nella prima epoca post tridentina si tentò di uniformizzare il costume della velatura, che si era mantenuto fino ad allora differenziato sia sotto il profilo geografico che temporale. La Francia, notoriamente refrattaria nell’accoglimento dei dettami tridentini, mantenne – nella lussureggiante galassia dei riti neogallicani (meglio sarebbe definirli usi propri diocesani) – una marcata differenziazione, destinata a perdurare fino alla seconda metà del XIX secolo, per questo ordine di motivi la sua osservazione è particolarmente utile ed interessante. A darcene autorevole testimonianza è Jean-Baptiste Le Brun des Marette, che a principio del Settecento viaggiò attraversò il regno di Francia annotando, con accurata meticolosità e dovizie di dettagli, gli usi liturgici esistenti nel territorio sia nelle diocesi che tra Ordini e congregazioni di religiosi, registrando, anche in questa fattispecie, consuetudini diversificate(3). Il Le Brun attesta in molte chiese francesi una copresenza di velature – che poi vedremo testimoniate anche al di fuori della Francia – di diverso tipo: delle tende vengono tirate per separare l’altare dal coro, oppure per separare del tutto la navata, altre volte sussistono entrambe, il più delle volte convivono con i veli che coprono le immagini e le croci. Diverso è anche il momento in cui queste coperture vengono poste: spesso ciò avviene appena alla conclusione dell’Ufficio della I domenica di Quaresima (dopo Compieta) venendo a marcare l’inizio del tempo quaresimale e con esso del digiuno che lo caratterizza. Un tanto deporrebbe circa la vetustà della prassi, in considerazione del fatto che la Quaresima, anticamente, si faceva iniziare in tale giorno (come avviene ancora presso gli orientali col lunedì puro) mentre solo più tardi, per far coincidere al numero di quaranta le giornate effettivamente destinate al digiuno, si aggiunsero i giorni che vanno dal mercoledì delle ceneri alla Feria II (lunedì) dopo la I domenica di Quaresima(4). La velatura di immagini e croci, di cui fa riferimento il Messale, potrebbe essere un lacerto, in qualche modo cristallizzato, di queste particolari coperture realizzate, in epoca più remota come segno esteriore della Quaresima? E se così fosse l’uso V domenica di Quaresima potrebbe essere un momento più ritardato o un punto di arrivo raggiunto nel tempo cui, infine, si è data una struttura normativa? Si tratta di quesiti che, innanzi alle testimonianze qui brevemente accennate, sorgono spontanei. Circa l’antichità il Braun opina che l’uso si diffuse proprio in Gallia già nel VII secolo, nella penisola italiana si attesta intorno al Mille (Consuetudines dell’abbazia di Farfa, di matrice cluniacense), per divenire di uso generalizzato nel basso Medioevo(5).
Il celebre
canonista Guglielmo Durando, Vescovo di Mende, ci tramanda che nel XIII secolo,
epoca in cui visse, alla I domenica di Quaresima si coprono le croci e si tira
il velo innanzi all’altare e riferisce che ciò in alcune chiese si compie la
domenica di Passione (V di Quaresima)(6). L’Autore ravvisa dunque un legame tra
le due azioni, così come parrebbe ritenerlo, sostanzialmente, anche il Martène
sostenendo che, quanto si praticava alla sua epoca (tra XVII e XVIII secolo) la
domenica di Passione, era un tempo d’uso generale compierlo la I domenica di
Quaresima (dopo la Compieta della stessa, o dopo la celebrazione di Prima del
lunedì immediatamente successivo)(7). Privare il fedele dalla vista delle cose
sacre o persino dell’altare e dunque dell’azione sacra mediante la velatura si
percepiva come segno esteriore di mestizia. Il citato Durando, estremamente
significativo e rappresentativo di una modalità di interpretazione basata su
suggestioni allegoriche che permea la speculazione dell’Età di mezzo,
suggerisce che, mediante questo segno esteriore, il cristiano rivive una
condizione di conoscenza imperfetta, dunque velata, al pari di quella degli
uomini dell’antico testamento. Qualora la velatura sia limitata alle ultime due
settimane prima di Pasqua, l’accento sarebbe posto sul nascondimento della
natura divina: nella domenica di Passione, infatti, veniva proclamato il
Vangelo di San Giovanni (8, 46-59) in cui i giudei vogliono lapidare Gesù, dopo
un concitato e teso scambio verbale, tanto che egli si vede costretto ad uscire
per nascondersi: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo(8). Ben
diversa e non molto convincente, in questa circostanza, la spiegazione che dà
Claude De Vert: l’Autore, celebre per ricondurre i gesti di culto e costumi
liturgici a necessità materiali e concrete, ritiene che l’usanza possa derivare
dall’uso arcaico di collocare la croce solo al momento della celebrazione ed
anzi ritiene che essa, originariamente non veniva collocata affatto, come poté
leggere e vedere in alcuni luoghi (ancora una volta nell’ambito degli usi
neogallicani).
La croce
sarebbe stata poi portata dal diacono o dallo stesso celebrante all’altare (es.
a Reims) per rimanervi il tempo necessario: quando la comodità indusse a
lasciarla sul posto, si prese l’abitudine di velarla, uso che sarebbe rimasto
in questo specifico tempo(9). Mario Righetti, perito del Concilio Vaticano II,
ritiene verosimile che la velatura di croci ed immagini la domenica di Passione
sia una semplificazione tardiva delle velature quaresimali, in particolare
opina poter derivare dall’hungertuch (letteralmente telo della fame)
attestato inizialmente in area germanica a significare il tempo di digiuno(10).
Particolarmente suggestiva ed articolata è l’ipotesi di Thurston: per l’Autore
l’origine della velatura di croci ed immagini è riconducibile proprio ai teli
che, anticamente, dal principio quaresima, celavano la sancta sanctorum.
L’usanza andrebbe ricercata nell’allentamento e successivo abbandono della
prassi canonica della pubblica penitenza. I penitenti, in capite
quadragesimae, venivano allontanati dal tempio per poi essere riammessi e
riconciliati il giovedì santo. Essi sarebbero stati dunque privati della vista
delle cose sacre: mediante la velatura si produrrebbe una finzione giuridica
che porterebbe tutti i fedeli, in un certo qual modo, alla condizione dei
penitenti pubblici(11).
Note:
1. Cfr. Rubr. in Dom. V in Quadragesima, in Missale romanum,
editio typica tertia, Città del Vaticano, Typis Vaticanis, 2002, pag. 255.
2. Cfr. Caeremoniale
episcoporum, Romae, Typographia linguarum externarum, 1600, editio
princeps, ristampa anastatica a cura di A. M. Triacca e M. Sodi, Città del
Vaticano, LEV, 2000, Lib. II, cap. XX, pagg. 217 e s.
(225 e s.).
3. S. De Moleon, Voyages
liturgiques de France, Paris, Delaulne, 1718, passim. (De Moleon è lo pseudonimo
del Le Brun des Marette).
4. In tal senso appare
significativa l’Orazione secreta della I domenica di Quaresima del Messale c.d.
tridentino che fa esplicito esordio del tempo quaresimale e con esso delle
austerità, segno di conservazione di un elemento arcaico, di matrice gregoriana,
a fronte delle modificazioni intervenute successivamente (cfr. Sacramentario
Gregoriano. Testo latino-italiano e commento, a cura di M. Sodi e O.A.
Bologna, Roma, Edizioni Santa Croce, 2021, pag. 63 al 223).
5. Cfr. G. Braun, I
paramenti sacri. Loro uso storia e simbolismo, trad. it. G. Alliod, Torino,
Marietti, 1914, pag. 209 e segg. Per l’Autore l’uso di velare il crocifisso va
ricercato nel fatto che sino al XII secolo Cristo veniva rappresentato
trionfante sulla croce, volendo sottolineare i contenuti della passione salvifica
lo si sottraeva dalla vista coprendolo (idem, pag. 211).
6. Cfr. G. Durando, Rationale
Divinorum Officiorum, Ludguni, Ravillii, 1612, lib. VI al 32, par. 12, pag.
303. L’uso della velatura già la I domenica di Quaresima lo si riscontra anche
nel rito ambrosiano, qui però vengono velate le sole immagini e non i
crocifissi (Cfr. V. Maraschi, Le particolarità del rito ambrosiano,
Milano, Propaganda Libraria, 1938, pag. 81).
7. Cfr. E. Martene, De
antiquis Ecclesiae Ritibus, Antverpiae, de la Bry, 1737, tomus tertius,
pag. 186.
8. Cfr. G. Durando, Rationale
Divinorum Officiorum, op. cit., lib. I, al III, par. 35, pag. 17.
Proprio al Vangelo di tale domenica è legato l’uso della cappella papale
attestato dal Cerimoniale apostolico. Dal testo si apprende che la velatura
della croce avviene in questa domenica ed in particolare le immagini sono
coperte con un velo, issato con delle carrucole attraverso cui passando le
corde, per mezzo di alcuni chierici della cappella nel momento in cui termina
la proclamazione del Vangelo; cfr. A. Patrizi Piccolomini, Sacrarum
Cerimoniarum, Sive Rituum Ecclesiasticorum Sanctae Romanae Ecclesiae, Coloniae
Agrippinae, 1572, liber secundus, fol. 224 r.
9. Cfr. C. De Vert, Explication
simple, litterale et historique des Cérémonies de l’Eglise, Paris,
Delaulne, 1713, Tome quatrieme, pagg. 30 e ss.
10. Cfr. M. Righetti, Manuale
di storia liturgica, Milano, Ancora, 1969, Volume II, pag. 175 e s.
Sull’hungertuch, la sua diffusione e sopravvivenza, si veda ancora: G. Braun, I
paramenti sacri, op. cit., pag. 211.
11. Cfr. H. Thurston, Lent
and Holy Week, London, Longmans Green, 1914, pag. 99 e ss. Il rito dell’espulsione e
riconciliazione dei pubblici penitenti trovava posto nel Pontificale romanum
fino agli anni Sessanta del Novecento (cfr. Pontificale romanum,
Taurini, Marietti, 1941, V, pagg. 300 e ss. Per l’approfondimento di questi
riti si rinvia a: J. Catalano, Pontificale romanum in tres partes
distributum, Parisiis, Méquignon, Leroux et Jouby, 1852, Tomus III, pagg. 8
e ss.
Fonte: Rivista
diocesana di Trieste, Il Domenicale di San Giusto, 3.4.2022, pp. 8-9.
Nessun commento:
Posta un commento